Anthropoetics IV, no. 1 (Primavera / Estate 1998)

La Differance religiosa

Andrew McKenna

Department of Modern Languages & Literatures
Loyola University of Chicago
Chicago IL 60626
amckenn@orion.it.luc.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

www.bibliosofia.net

 

In uno dei suoi ultimi saggi, Foi et Savoir, Jacques Derrida pone la domanda: "A che cosa assomiglierebbe oggi un libro con un titolo come La religione entro i limiti della sola ragione di Kant?" (La Religion 16). Tutti coloro che si occupano del rompicapo ragione/fede, o scienza/religione, avranno i loro candidati, ma la preoccupazione di Derrida circa i legami tra credenza, credito e credibilità da un lato, e credito, fiducia, fiduciarietà e capitalismo di mercato (vedi 28, 58, 60) dall'altro, indica ne L'unica fonte della religione e della morale di Eric Gans il miglior punto di partenza. In questo breve saggio programmatico, Gans mostra succintamente come il regno trascendente della religione mosaica, il cui "iconoclasmo" pone la divinità verticalmente e totalmente al di là della figurazione o rappresentazione, "prepari la sua antitesi dialettica nel moderno processo di secolarizzazione"(53). Questa dialettica si estende all'inesorabile processo livellatore che conduce alle libere economie di mercato, una relazione fra gli umani essenzialmente orizzontale, il mercato essendo "un luogo ove il valore è determinato tramite lo scambio" (63) piuttosto che in relazione ad una centralità ritualizzata e sacralizzata. Nulla delimita o presiede lo scambio in qualità di principio d'ordine; non vi è nulla a mediare la transazione se non altre transazioni, ove bisogni e desideri sono negoziati specialmente mascherando i desideri da bisogni. Paradossalmente, o ironicamente, una certa forma di trascendenza verticale apre la strada al nostro sistema di distribuzione che è orizzontale in modo ottimale. In un altro suo testo, Derrida medita su "la struttura delle leggi di mercato" come "permanente operazione di … sacrificio" (The Gift of Death 86) guidata da meccanismi sostitutivi in un modo che richiama alquanto il "ritorno a Girard" che Gans annuncia nel suo ultimo libro (Signs of Paradox 8), in cui egli esplora ancor più a fondo le implicazioni cognitive della teoria girardiana dell'origine sacrificale della cultura umana.

Qui la mia parafrasi è un sommario eccessivamente condensato di un'argomentazione che si sviluppa in parecchi libri di Gans, compreso il suo Science and Faith, in cui si riverbera il titolo del saggio di Derrida così come il sottotitolo di quet'ultimo, "Les deux sources de la 'religion' aux limites de la simple raison" echeggia il gioco di parole di Gans con Les Deux Sources de la religion et de la morale di Bergson. L'unica fonte che Gans afferma per tutte le nostre questioni etiche è evocata come differance derrideana in un modo che delineerò in seguito. Concluderò con alcune implicazioni teologiche che James Alison ha individuato nell'opera di Gans. Questo lascerà Derrida in qualche modo ai margini dei problemi principalmente religiosi, una posizione che l'autore di Marges de la philosophie è stato solito occupare.

Né Derrida né Gans fanno menzione del Glauben und Wissen di Hegel come di un possibile spunto per le loro riflessioni, mentre lo fa uno dei commentatori di Derrida (cfr. Vincenzo Vitiello, "Désert, éthos, abandon: contribution à une topologie du religieux" in La Religion). Mette conto menzionare la tensione hegeliana che Gans regolarmente conferma nel suo lavoro, con l'opporre il suo senso interpersonale e storico di sviluppo istituzionale e intellettuale alle più recondite e astratte formulazioni di Derrida--astratte nel senso che vi è meno spesso evocata l'interazione umana concreta. Tipicamente, Derrida evocherà l'interazione umana al fine di illustrare e infine decostruire i concetti (vedi, ad esempio, il modo in cui tratta la nozione di "testimone", [83]), mentre Gans mostra come i concetti siano un precipitato scaturente dall'interazione, divenendo in seguito proprietà filosofiche il cui contesto intersoggettivo è ignorato o dimenticato. Vi è qui una reale differenza metodologica tra i due autori riguardo a centri di interesse tematici identici; ciò implica per l'antropologia generativa e la decostruzione concetti di origine e di storia radicalmente differenti, sui quali lo stesso Gans ha insistito nel suo colloquio unidirezionale con l'opera di Derrida--la cui importanza da lui è nondimeno riconosciuta come "un fondamentale punto di svolta nella comprensione postmoderna" (Signs of Paradox 183).

La conversazione tra Gans e Derrida cominciò al tempo di The Origin of Language (1980), il cui titolo inaspettato è realmente una provocazione per la critica decostruttiva delle origini, in quanto specifica le implicazioni del pensiero di Derrida per un'antropologia la cui possibilità esso nega per principio. Secondo la linea di argomentazione derrideana, una fondazione non teologica--per il linguaggio, il pensiero, per la cultura umana--è impensabile, essendo lo stesso concetto di origine un principio religioso che la decostruzione scopre, decodifica, decripta come la motivazione teo-logocentrica della metafisica occidentale.

Ma, come mostra Gans, questa critica antifondazionalista è una ricerca ossessiva di quelle origini che essa smonta. Essa invero richiede che noi concepiamo l'imitazione, la replica, o la stessa mimesi, come originarie, il che è proprio ciò che l'ipotesi antropologica di Girard, come è stata per la prima volta delineata in Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, ci consente di fare. Al fine di dar conto della mimesi formale, o rappresentazione linguistica, dobbiamo considerare come una necessità logica ed empirica la priorità della mimesi comportamentale--inespressa, istintuale o genetica: ancora non lo sappiamo(1)--che gli umani condividono con i mammiferi superiori dei quali noi siamo i discendenti. Qui è in gioco la nostra continuità con le altre specie viventi, soltanto in riferimento alla quale la nostra rottura con loro può essere immaginata o concepita razionalmente. Il primo atto di nominare deve essere consistito in un comportamento generante una rappresentazione performativa--atto di parlare--perché potesse sorgere una qualsiasi possibilità di rappresentazione formale e astratta.

Gans ipotizza l'emergere del linguaggio dalla distruzione protosacrificale di una singola vittima la cui appropriazione da parte dei suoi predatori è bloccata dalla stessa attrazione mimetica che essa esercita su di loro. L'atto di afferrare la preda è trasformato in un gesto, il segno ostensivo, che designa a tutti la preda come pericolosa da appropriarsi in ragione della stessa attrazione che essa esercita su tutti quelli che la circondano, su tutti quelli che competono pericolosamente per la sua appropriazione, su tutti coloro che ripetono mimeticamente il segno della sua desiderabilità. L'uso dei segni emerge da questo paradosso fondamentale della mimesi, per cui il modello del nostro comportamento desiderante funziona insieme come ostacolo al suo adempimento (Signs 20). Proprio l'atto di protendersi verso l'oggetto genera competitori e--di conseguenza, non in seguito--garantisce mediante ciò l'impossibilità del suo compimento; esso impone il differimento della sua mira istintuale, secondo una dinamica mimetica che si conforma a quella della differance descritta da Derrida: "Anzitutto, la differance si riferisce al movimento (attivo e passivo) che consiste nel differire tramite dilazione, delega, sospensione, rinvio, deviazione, aggiornamento, riserva. In questo senso la differance non è preceduta dall'originaria e indivisibile unità di una possibilità presente che io potrei accantonare, come una spesa che potrei rinviare per calcolo o ragioni economiche." (Positions 8-9)

Ma questo è proprio ciò che afferma l'ipotesi di Gans: l'unità originaria, indivisibile, primordiale di un'entità ieratica antecedente, che è conferita ad un oggetto centrale unico, è un effetto collaterale, un corollario, non una premessa, degli effetti attivi e passivi di differimento mimetico da parte di tutti (Signs 3). La divinità fondatrice è in realtà un ripensamento che è visto dalla neonata comunità come la propria previdenza. La nozione di un inizio sacro, di un'origine divina, è un'illusione retrospettiva che proviene da un comportamento di partner-rivali mimetici, che consiste nell'emettere segni.

Il primo atto linguistico della nostra specie rappresenta il suo oggetto come immune al contatto; esso realizza quell'immunità come condizione per la sopravvivenza della totalità di coloro che lo circondano. Il sacro come "immunità" e "garanzia", come "le non-contaminé, l'intouché", come "heilig, sacré, sain et sauf, intact, integrité saine et sauve, pureté intact," che tanto preoccupa Derrida in "Foi et Savoir" (34, 59, 83) nasce da questo gesto sacralizzante che potremmo, prendendo a prestito un neologismo derrideano da La Carte Postale, etichettare come "perverformativo" (148) per specificare la sua dinamica paradossale. Come Gans scrive in Signs of Paradox, "E' l'oggetto che appare come l'ostacolo alla sua stessa appropriazione; questo è ciò che noi chiamiamo la sua sacralità" (24). Ciò che nasce con esso è altresì la normale capacità umana di riferirsi agli oggetti tramite l'uso dei segni, una capacità che si incrementerà e si evolverà con la ripetizione rituale della scena originaria, la commemorazione festiva e sacrificale delle origini, che sarà necessaria per la perpetuazione della comunità umana appena nata (e che ogni comunità, con le sue bandiere e i fuochi artificiali, ripete periodicamente fino ai nostri giorni). La venerazione e il sacro, e anche il riferimento, come rappresentazione obiettiva, nascono da un solo e unico gesto, che deve essere il gesto mimetico di tutti perché possa avere effetto, per rendere effettiva la presenza della comunità a se stessa in quanto mediata da un centro sacralizzato. In questo modo lo scenario ipotizzato da Gans per l'origine del linguaggio, una perspicua revisione dello scenario sacrificale proposto da Girard per l'origine della cultura, può costituire una reale integrazione della critica decostruttiva delle origini, perché esso mostra che origine e mimesi, origine e ripetizione, origine e duplicazione sono una cosa sola. Origine e differance come differimento della violenza tramite la rappresentazione sono una cosa sola.

ORIGINI RELIGIOSE

Ho trattato questo argomento più ampiamente nel mio libro su Girard e Derrida (1992). La mia attenzione qui si appunterà più specificamente sulla religione, sotto lo stimolo di "Foi et Savoir" di Derrida, che è il suo contributo ad un seminario pubblicato sotto il titolo comprensivo di La Religion. Si tratta di un volume di saggi che correttamente si basa sull'assunto che la critica derrideana della struttura e della gerarchia incida criticamente sui temi "propriamente" teologici. Uso le virgolette per questa parola perché, dopo Derrida, ciò che è ritenuto proprio di un qualsiasi ambito, o perfino circa un qualsiasi nome o significato, sollecita una critica di quello che egli ha denominato con il neologismo di teologocentrismo. Similmente, le relazioni dinamiche e paradossali di centro sacralizzato e periferia che emette segni sono i temi focali dell'antropologia generativa come ermeneutica culturale--e perciò religiosa.

L'idea di un'origine unica può essere soltanto teologica, o mitica, come si trova tipicamente nelle narrazioni della creazione, ove la cultura umana è il dono di qualche divinità. E tuttavia dietro siffatta monogenesi vi è una stereo-genesi, un'idea relazionale di fondazione che Gans ipotizza e che la differance derrideana spiega. A livello del nocciolo della nostra cultura noi di regola troviamo anche una morte violenta ed uno smembramento che precede questo dono, come suo preludio. Questo è il motivo per cui alla riflessione antropologica sulla nozione di dono, da Marcel Mauss (Essai sur le don) e Georges Bataille (La Part maudite) attraverso Levi-Strauss (Mythologiques) e Derrida, si propongono enigmaticamente paradossi irrisolti riguardanti il sacrificio. In Derrida, noi troviamo regolarmente una concezione del sacrificio stranamente monolitica e non-decostruita, in cui la distruzione violenta o l'espulsione sono accompagnate da concetti di risarcimento, compensazione, o remunerazione (il do ut des di Mauss). Dalle sue interviste in Positions attraverso il suo Donner le temps (su Benjamin and Baudelaire) al più recente The Gift of Death, troviamo Derrida prudentemente alle prese con l'"economia del sacrificio", ma senza che ci sia mai fornito quel senso di attivazione mimetica che spiega la sua nascita o la sua universale diffusione, che lo rende necessario o fondativo per la cultura.

Il sacrificio è semplicemente lì--in realtà è dovunque; lo troviamo ovunque in "Foi et Savoir"--ma non v'è alcuno sforzo di spiegazione del suo primo apparire sulla scena umana. Il sacrificio denomina accuratamente relazioni di spesa e di riserva, di ordine e di differimento--l'economia, in una parola--ma mai viene investigata la sua genesi o generazione.

Nel pensiero di Derrida manca nel complesso il senso dell'interazione umana--dopo tutto egli è un filosofo-- una mancanza che è stata in qualche modo recentemente compensata dalla sua attenzione al linguaggio performativo. Possiamo far risalire questa attenzione al suo incontro inizialmente polemico con la teoria dell'atto linguistico in Limited Inc, ma anche alle sue risposte sempre più approfondite all'opera di Levinas, dove l'imperativo negativo, "Non uccidermi", è posto come l'espressione umana fondamentale(2). Intervistato circa "questa strana istituzione chiamata letteratura", Derrida confessa di non essere interessato al romanzo (Acts of Literature 39). Il valore dell'opera di Gans, al contrario, sta nel suo costruirsi sulle basi delle intuizioni che Girard ha espresse per la prima volta in Mensonge romantique et vérité romanesque, in modo tale da sostenere una linea narrativa capace di dipanare i paradossi derrideani, fornendo loro una plausibilità umana, e attribuendo alle loro percezioni apparentemente insolite e alle loro formulazioni incessantemente controintuitive un realismo perfettamente familiare.

L'indifferenza per la narrativa realista ostentata da Derrida, la sua predilezione per decise anti-narrative come quelle di Blanchot (si veda, per esempio, "Living on/Borderlines," e "La Loi du genre") sono sintomatiche a questo riguardo. Quello che è in gioco qui sono le concorrenti pretese della letteratura e della filosofia come risorse cognitive per le scienze umane, più precisamente per l'auto-comprensione umana che nella ricerca accademica è istituzionalizzata come antropologia. Per l'antropologia generativa la differance è il motore della storia, in quanto il differimento della violenza tramite la rappresentazione rende conto di ogni sorta di sviluppo istituzionale, trasformazione ed evoluzione. Per la decostruzione esso è troppo spesso evocato quale inibitore della comprensione storica, tanto che la sua scoperta è prova di origini mistificate, narrazioni cripto-teologiche, false partenze ("Faux bonds" è il titolo di uno dei testi di Derrida).

La concezione dell'origine che emerge dall'interazione mimetica di doppi rivali logicamente non richiede alcuna divinità per essere messa in moto. Per la decostruzione, il teologocentrismo è il presupposto ontologico sottostante al discorso fondativo; per l'antropologia generativa, al contrario, la divinità è l'effetto piuttosto che la causa del comportamento mimetico, il suo residuo organizzativo o istituzionale, che è costruito retrospettivamente come origine sacra. L'oggetto centrale del desiderio è sacro per il suo essere in una attraente e repulsivo, desiderabile e tabù, donde centro e circonferenza si rigenerano dinamicamente l'un l'altro tramite relazioni di desiderio attive e passive, come conseguenza dell'originario gesto di differimento. Quest'anomalia logica è conforme alle nozioni del sacro che noi scopriamo in ogni cultura, come troviamo, ad esempio, nel Vocabulaire des Institutions indo-européennes di E. Benveniste, di cui Derrida si occupa in "Foi et Savoir" per altri fini, specificamente quelli di decostruire l'etimologia della responsabilità, di mettere in questione "le couteau tranchant de la distinction assurée" (44) che si trova in Benveniste ("par exemple"). Più di chiunque altro, Derrida ha fatto della individuazione della violenza che informa la differenziazione concettuale un asse dell'ermeneutica. Per l'antropologia generativa, la fragilità dei nostri concetti coincide con la loro dinamica mobilità e proliferazione, col loro essere disponibili alla chiarificazione e all'estensione. Per la decostruzione, è un marchio della violenza della loro origine. Per Derrida il linguaggio comincia--e persiste--come violenza, che è inerente ad ogni rappresentazione(3). Per l'antropologia generativa la violenza occupa un posto davvero centrale nella cultura, ma soltanto in quanto differita, prima come sacrificio, poi come meccanismi sostitutivi conducenti all'abbandono, alla ritirata, al travestimento o alla trasformazione del sacrificio stesso. L'effetto-dio, visto post hoc come origine del linguaggio e fondazione della rappresentazione pacifica tra gli umani, è il significato trascendentale di un oggetto la cui immunità all'appropriazione è la sola garanzia di concordia e armonia tra i suoi significanti, tra i suoi designatori mimeticamente deferenti.

La linguistica strutturale di questa scena originaria è del tutto paradossale allo stesso modo in cui il segno di Saussure, nella sua costituzione duale come significante e significato, è esso stesso sempre disponibile come il significante di un altro segno ancora. Poiché l'oggetto centrale è un autentico referente del segno ostensivo, ma esso è anche un significante trascendentale del riferimento in generale, del riferimento come tale, "la creazione della forma-in-generale"(Signs 29). Naturalmente, non vi è una cosa simile in alcun senso reale e concreto; dev'essere un dio. Solo questa spiegazione "ha senso compiuto" in termini strettamente umani--finché noi vediamo che il senso è reso possibile soltanto tramite il deferimento al suo creatore immaginario. L'origine è paradossale, a dire il vero, ma non è imperscrutabile, indefinibile, misteriosa, mistica, o in qualche modo teologica, eccetto che agli occhi dei suoi osservatori mistificati, i quali attribuiscono al sacrosanto centro della loro attenzione non-istintuale, del loro ec-statico comportamento di produttori di segni, quel potere di differire la violenza che essi devono alla sola interazione mimetica dei segni. Insieme alla generazione mimetica della trascendenza divina possiamo discernere il paradosso più fondamentale--e fondativamente umano--che consiste nella generazione della relazione verticale dei segni ai loro referenti come emergente strettamente da dentro l'orizzonte dell'interazione umana. Qui incontriamo la generazione di una differenza trascendente, che accompagna tutta la nominazione, dalla non-differenza, dalla ripetizione, che è inerente all'uso dei segni. La relazione verticale dei segni ai loro referenti è in realtà chiasmica, a doppia elica, secondo la descrizione di Gans: "Il segno che è nel mondo rappresenta il mondo in cui esso è; il segno che sta sopra il mondo rimane entro il mondo dei segni"(Signs 25). Il mondo e i suoi segni compongono una gerarchia intricata che è aperta ad un'analisi finita, mentre permettono una infinita elaborazione ed esplorazione; una spiegazione concreta e precisa è possibile per una varietà senza limiti di fenomeni e di relazioni.

L'anomalia strutturale dell'emarginazione dell'interno si accorda alla logica deformata del supplemento derrideano, che completa un insieme che esso ripete, rappresenta, dall'esterno (Of Grammatology II.2). Quest'analisi ha fatto sì che il mondo dei segni, e il mondo che essi rappresentano, possa sembrare scandalosamente irrappresentabile, stranamente chiuso ad una raffigurazione coerente, come ogni sforzo di districare la referenza linguistica, o qualsiasi sforzo di rappresentazione "diretta", ci avviluppa in aporetici contorcimenti di auto-referenza, o auto-fondazione ieratica, essendo il nome che nomina se stesso come dio od origine la necessaria ed impossibile base di ogni concettualizzazione. Questa è ancora un'altra versione del "faux bond," un'operazione minimale (Signs 13) in cui Gans colloca, in forza proprio della stessa inversione logica, la fonte paradossale della nostra razionalità. Ciò che per la decostruzione è rimasto a lungo come un'aporia logica, una fonte di dissonanza cognitiva, è per l'antropologia generativa la sorgente di uno sviluppo cognitivo che assicura la non-chiusura dell'auto-comprensione umana, il suo essere aperta all'ampliamento correttivo, grazie a cui la scienza tutta, compresa l'antropologia, può procedere sul suo sentiero necessariamente senza fine(4).

La scena originaria del linguaggio, come generazione paradossale o "ironica"(5) di un sistema verticale di segni dall'interno dell'orizzonte dell'interazione protoumana, come scenario sacrificale che contiene la violenza in un modo che genera valore come nozione aperta alla riflessione e alla manipolazione--questo è proprio il processo che troviamo descritto in Derrida, tuttavia in modo astratto e non intenzionale, in risposta alla questione che egli pone in "Foi et savoir", e propriamente: "Quelle est la mécanique de cette double postulation (respect de la vie et sacrificialité)?":

"Questo principio meccanico appare essere molto semplice: la vita ha un valore assoluto solo per il fatto di valere più della vita. E perciò assume il lutto per essa, diventa ciò che è in un'opera di lutto infinito, nel risarcimento di un'illimitata spettralità".

Questo più della vita implica un processo di lutto, un "trauerarbeit", che implica il suo altro, una morte da cui ricava il suo valore, e, insieme, una divinità. Implica una vittima, sebbene l'attenzione di Derrida sia sulla trascendenza che la vittima cagiona:

"[La vita] è sacra, santa, infinitamente responsabile solo nel nome di ciò che vale più di essa e non è limitato alla naturalità della biozoologia (che è sacrificabile)… Così il rispetto per la vita riguarda, nel discorso della religione come tale, solo la "vita umana", in tanto in quanto essa rende testimonianza, in un qualche senso, all'infinita trascendenza di ciò che vale più di essa (la divinità, la legge in quanto sacrosanta). Il prezzo dell'umano vivente, vale a dire dell'essere vivente antropo-teologico, il prezzo di quello che deve rimanere salvo (santo, sacro, sano e salvo, risarcito, immune) come prezzo assoluto, il prezzo di ciò che deve ispirare rispetto, modestia, riserbo, questo prezzo non ha prezzo. Esso corrisponde a ciò che Kant chiama dignità umana (Valore) del fine in sé, dell'ente razionale finito, del valore assoluto che è al di là di ogni valore che può essere soggetto a confronti in un mercato (Prezzo di mercato). Questa dignità della vita può essere sostenuta solo al di là dell'individuo che vive nel presente. Donde la trascendenza, il feticismo, la religiosità della religione "(68).

Appare come la vita in quanto valore in sé sia conquistata al prezzo di un plus-valore, di una trascendenza. L'homo oeconomicus è sempre già un homo religiosus; non si dà alcun "anthropo-" se non attraverso l'essere "théologique." La definizione dell'umano che qui viene offerta è quella di uno che sussiste, esiste, persiste nella sua differance con la divinità. Secondo questa lettura, noi poniamo la vita su un piedistallo e procediamo in una venerazione per il piedistallo che è pari o superiore a quella per la vita ("donde il feticismo"). L'assoluto rispetto della vita umana diventa rispetto dell'assoluto a spese della vita. Questa economia può essere concepita o formulata solo in termini sacrificali. Un tale esser senza prezzo può essere immaginato solo a fronte di una morte violenta, l'assoluta appropriazione della vita, essendo "rispetto, modestia, riserbo" il differimento alla divinità, all'assoluto, che significa il differimento della violenza che Gans colloca nell'uso dei segni.

La teologia concepisce il sorgere degli umani entro un agire divino. Noi dobbiamo concepire il sorgere degli umani e dei segni--e della divinità--insieme. Dobbiamo "penser ensemble" concetti che la nostra logica concepisce separatamente, serialmente o in opposizione, e tale pensiero "compatto" è il legame metodologico tra il paradosso derrideano e quello gansiano(6). E' soltanto l'identico comportamento mimetico da parte di tutti alla periferia, la ripetizione simultanea del loro gesto ostensivo verso il centro proibito, che determina la differenza trascendentale dell'oggetto centrale. La differenza radicale del centro, che per i suoi osservatori è sacra e fondante, dipende dalla non-differenza della periferia, ogni punto della circonferenza del cerchio essendo tenuto in equidistante tensione dal suo centro, che propriamente parlando è l'unico punto della struttura. Qui è considerevole il pathos del sacro, in quanto esso emana dal sistema del desiderio mimetico che si auto-organizza(7). La realtà del centro deve essere sentita dai suoi osservatori come superiore, più reale di loro, sebbene essi soltanto siano esseri viventi reali. "Ciò che è è ciò che sta davanti a noi come la meta proibita del nostro comportamento mimetico (originariamente appropriativo). In questo stare-davanti o stare-contro il nostro desiderio, l'essere centrale appare essere in sé" (Signs 93). Quello che la filosofia pone come fondamentale, l'interrogazione dell'Essere, è in realtà una tardiva e mistificata indagine sulle origini sacre.

La priorità ontologica del referente rispetto alla rappresentazione, degli oggetti ai segni, che è il fondamento di ogni pensiero razionale, di ogni realismo, non è illusoria--eccetto che all'origine. La ripetizione dello stesso identico segno nell'orizzonte del cerchio genera la verticalità trascendentale del suo centro, che prende il nome di dio per il fatto di essere frainteso come l'origine della comunità intorno ad esso, dei segni che la producono, sebbene esso sia soltanto il luogo virtuale della trascendenza o idealità che ogni segno esercita sopra i suoi referenti. Poiché l'ostensivo designa il suo oggetto come inappropriabile, esso è destinato a diventare a propria volta un oggetto di contemplazione, e disponibile a trasformazioni che conducono ad espressioni dichiarative intorno al linguaggio, che tematizzano il loro referente in assenza dell'oggetto, e infine tematizzano l'assenza del linguaggio ai suoi referenti (la "rosa" di Mallarmé, come quella di Platone, è "l'absente de tous bouquets"), che è la condizione necessaria e sufficiente del pensiero astratto, della riflessione formale o teoria.

Possiamo formulare questo paradosso in altro modo con l'osservare che ciò che è "perverformativo" nell'ostensivo è la sua auto-referenzialità, l'attenzione che necessariamente richiama su di sé tramite l'interdetto che esso consacra intorno al suo referente centrale. L'estetico, come contemplazione formale di segni, siano questi poetici, pittorici o musicali, nasce nello stesso momento e grazie alla stessa dinamica che genera l'etico nella sua forma più rudimentale e persistente, e cioè come formazione e tenuta della comunità. Il corollario epistemologico qui è la collocazione nella sfera estetica, in tutte le rappresentazioni artistiche, di una "procedura della scoperta"--è questa una tesi centrale in Originary Thinking--che è indisponibile per le filosofie e le antropologie per cui la bellezza è una considerazione culturale tardiva, una sorta di tassa sul valore aggiunto posta sulla nostra immaginazione. La contemplazione estetica, che così appropriatamente lasciava stupito Kant nelle sue elucubrazioni sul sublime, era lì all'inizio, all'origine sulla quale l'interrogazione dei capolavori necessariamente riporta la nostra attenzione antropologica.

L'antropologia generativa definisce l'estetica come l'attenzione oscillante tra il referente e i suoi segni (Signs 25, 27, 29, 136-39), la cui contemplazione affascinata è l'occasione per il loro abbellimento ma anche per la loro manipolazione e trasformazione. Il rituale è il sentiero al virtuosismo tecnico che alla fine nutre la scienza empirica. Derrida intuisce questa ambiguità originaria, come è evidenziato dalla sua quasi mania dei neologismi, per cui i segni stessi sono oggetto di fascinazione. In "Foi et Savoir", il termine "mondialatinizzazione", che tra breve riprenderò in considerazione, si aggiunge alla serie cominciata con differance, archetrace, (in De la Grammatologie), e continuata con "eterotautologia" (in The Gift of Death) e, più recentemente, con "hostipitalité" (in De l'hospitalité), per citarne solo alcuni. In realtà, c'è un neologismo per ogni testo pubblicato da Derrida, la cui stessa attività di scrittura ci riporta alla scena originaria del linguaggio come nascita dell'estetico. Questo è il risultato inevitabile della fascinazione esercitato dal segno che realizza l'inaccessibilità, o trascendenza, dell'oggetto che esso designa. La virtuosità sintattica e lessicale non è un effetto accidentale dell'indagine intellettuale di Derrida, un vezzo stilistico, ma il suo principio generativo. Il suo stesso fulgore riflette uno stadio di sviluppo interrotto per un'ipotesi potenziale o virtuale circa le origini che è abbacinata dai suoi stessi paradossi (vedi McKenna, Deconstruction). Essa è, per di più, in continuità con un'(anti)tradizione filosofica che, con Nietzsche e Heidegger, promuove soluzioni estetiche a problemi etici, e nella quale espressioni controintuitive soppiantano la spiegazione logica e/o narrativa.

Lo scandalo logico sta nel fatto che è l'interazione propriamente umana ad essere resa possibile, ad essere autorizzata dal segno, piuttosto che il contrario. Noi vogliamo pensare, secondo un gradualismo evolutivo al quale ci ha per primo abituati Darwin, che prima sono esistiti gli umani, che infine giunsero al sempre più sofisticato e fantasioso uso dei segni, per quanto un simile passaggio graduale da un livello ad un altro, dal comportamento alla sua rappresentazione formale, sia inconcepibile. Ciò che è fantasioso è generato dal fantasma originario, quello dell'impossessamento immaginario, differito, tramite il quale noi definiamo il desiderio propriamente ed unicamente umano, che è contagiosamente mimetico. Il gesto del differimento rappresenta l'oggetto centrale, il cui potere affascinante di attrazione e repulsione per i suoi osservatori è possibile soltanto perché ogni gesto anche rappresenta e mette di nuovo in scena tutti gli altri. Questa fascinazione consente il verificarsi di una rottura, di uno strappo, nella condotta di animali legati fino ad allora dal comportamento istintuale. Sotto questo aspetto, l'ipotesi di Gans è del tutto rivoluzionaria, dato che include, e di fatto richiede, un clima di violenza che noi sempre associamo alla rivoluzione. Ma la violenza non fa culminare questa scena nel suo momento di crisi. Al contrario, il differimento della violenza tramite la rappresentazione, il comportamento segnico inconsapevole di rivali potenzialmente violenti, dà luogo ad un anticlimax tale da lasciare letteralmente attoniti, e che è l'involontario gesto pacificatore da cui trae origine la rappresentazione. Se l'origine della violenza è sempre già la violenza di un altro, la sua risoluzione deve essere pacifica, la sostituzione di una forma ad un contenuto, ad un oggetto di appetizione il cui consumo non autorizzato potrebbe causare soltanto altra violenza. Nondimeno, è a questa sostituzione che noi dobbiamo il nostro concetto di una divinità violenta; una divinità sacrificale è portata ad un "essere" (come il segno stesso, essa è l'oggetto e l'indiretto strumento della rappresentazione formale, non una sostanza di un qualche tipo) che garantisce la violenza ritualizzata che è dedicata esclusivamente ad esso. E' a questa sostituzione che noi dobbiamo altresì la nostra capacità di sostituire le cose con segni e di scambiare cose con altre cose una volta che esse siano state valutate come segni di altri valori. La sostituzione sacrificale, o metonimica, di una vittima in luogo del bene pacifico di tutta la comunità, e infine la sostituzione di un tipo di vittima in luogo di un'altra, genera il processo propriamente metaforico per cui beni sono scambiati contro altri beni, e infine commercializzati tramite segni monetari, simboli di valore accettati comunitariamente.(8)

ECONOMIE

Qual è la connessione, al di là di tutti gli atteggiamenti ideologici, tra libero mercato, ricerca scientifica aperta e fede religiosa? Questa è una delle questioni centrali poste da "Foi et Savoir". L'antropologia generativa presenta un'ipotesi razionale per quel che Derrida chiama col neologismo di mondialatinizzazione. La latinizzazione è un gioco di parole sul versante neo-romano del discorso di Derrida ad un convegno sulla religione tenutosi a Capri nel 1994; il suo neologismo fa riferimento all'oscura connivenza di globalizzazione del libero mercato (che i Francesi chiamano "mondializzazione") e tradizione religiosa occidentale, che egli descrive come "cette alliance étrange du christianisme, comme expérience de la mort de Dieu, et du capitalisme télé-technoscientifique" (21). Questo accordo è quello che noi dobbiamo "penser ensemble." Come nota anche Gans, "l'associazione della scienza moderna con l'Occidente non può essere considerata irrilevante" (Science and Faith 119). L'associazione non è puramente casuale o accidentale, ma causale; essa dovrebbe far riflettere i critici del dominio epistemico occidentale; la loro denuncia dell'"egemonia", scientifica ed economica, può essere condotta solo in nome di una oggettività ancora più grande, di una generalità più ampia, che è autorizzata da una tradizione unica di auto-critica, di demistificazione che è radicata a sua volta nel "sospetto" mosaico nei confronti della figuralità religiosa, nella critica israelita della rappresentazione idolatrica. La morte di dio come decostruzione e disseminazione della centralità divina è la condizione necessaria, se non sufficiente, di una razionalità disancorata e pienamente dinamica che così è destinata ad una massima autocomprensione nella sua ricerca dei suoi propri fondamenti. La prima manipolazione dei segni operata dalla nostra specie, la nostra prima organizzazione sociale, comincia nel(la) religione (la parentesi designa la relazione attiva e passiva dei segni all'ordinamento religioso).

Soffermiamoci ancora un poco su questa configurazione geometrica della scena originaria, perché dobbiamo immaginare la sua struttura psicologica se vogliamo capire la nostra propria relazione culturale e storica con essa. La relazione è post-religiosa al punto che la possiamo analizzare, possiamo teorizzarla, il che significa che possiamo assoggettarla ad una rappresentazione vieppiù formale, del tipo che si trova nella geometria e in tutte quelle rappresentazioni puramente formali il cui telos è la matematica(9).

I punti che segniamo sulla circonferenza di questo cerchio sono arbitrari, scambiabili; solo il centro è unico rispetto alla struttura, il suo punto "reale"; in qualunque modo sia segnato, esso è la realtà, per quanto virtuale, o in termini religiosi sacrosanta, che tiene insieme il cerchio non meno di quanto il dio tenga insieme la comunità nella venerazione che i suoi membri gli tributano piuttosto che massacrarsi a vicenda. Il cerchio rimane la struttura permanente di tutte le relazioni umane, le cui sezioni triangolari sono composte di soggetti rivali mediantisi l'un l'altro il desiderio degli oggetti centrali. Questa struttura oggi non ottiene risultati inferiori rispetto a quelli delle nostre origini umane, come l'industria della pubblicità ha chiaramente intuito: il modo più convenzionale di persuadere i consumatori a desiderare un qualsiasi prodotto è quello di rappresentarne il possesso quale marchio di buona fortuna già goduto da quella celebrità o icona di prosperità che lo promuove. Questo non è un esempio banale, dato il ruolo chiave della pubblicità in una cultura del consumo vieppiù globale, e, più generalmente ancora, dato il ruolo chiave del desiderio mediato, del contagio mimetico, nella fluttuazione dei mercati finanziari, dove il valore dei titoli sale o scende a seconda delle convinzioni degli investitori circa le convinzioni di altri investitori (vedi Dupuy, Le Sacrifice et l'envie, c.10, and La Panique, 3 e 4). Forse è soltanto con l'assegnare alla estrema precarietà del mercato, alla sua fondamentale instabilità, l'epiteto piuttosto ieratico e sostanzializzante di "sistema" (la "mano invisibile" di Adam Smith) che noi mitighiamo la violenza presente potenzialmente in tutti i modi di mediazione interna, in cui soggetti rivali che abitano lo stesso universo sono potenziali ostacoli l'uno al desiderio dell'altro. Un mediatore esterno, ontologizzato come legge dell'offerta e della domanda, eleva il principio d'ordine al di sopra dei suoi partecipanti, erigendolo ad uno stato dogmatico come precetto, canone e credo.

La decostruzione è stata istruttiva nel mostrarci gli spostamenti, le dislocazioni e le sostituzioni cripto-teologiche o logocentriche dei god-terms (comoda espressione di Kenneth Burke nel suo Rhetoric of Religion, c.1) che il nostro pensiero secolare ha posto a centro della cultura e motore della storia: "nous", "nomos", spirito, natura, razza, storia, proprietà, lavoro, ecc., si sono succeduti in una parata di entità dotate di una forza storica o motrice che oggi noi assegniamo al libero mercato. Il centro, essendo in realtà vacante, vuoto, o virtuale, è aperto agli investimenti ideologici, che frequentemente sono non meno violenti che arbitrari. Come nota Gans, "Il nome-di-Dio è da un lato infinitamente 'proprio', confinato all'oggetto unico che occupa il centro, ma dall'altro è infinitamente generico, designando un locus centrale che infine può essere occupato da qualunque cosa" (Signs 53).

Oggi è globalmente diffusa l'idea che il centro sia il capitalismo del libero mercato, che si suppone renda i prodotti di consumo così abbondantemente disponibili al desiderio umano da rimuovere la prospettiva di una competizione violenta, di una rivalità conflittuale, dalla scena dell'interazione umana--sfruttando nel contempo il desiderio mimetico per alimentare la domanda in gran parte artificiale di merci. Questo è in realtà uno degli argomenti dell'antropologia generativa a proposito degli effetti relativamente salutari del mercato dei beni di consumo. Ma i sostenitori del libero scambio sono ottimisti per motivi di auto-promozione, cosa su cui anche Gans ha insistito. La ragione è che i liberi mercati non sono mossi solo dalla competizione per i beni, ma lo sono altrettanto anche da quella per i consumatori. Come tutte le istituzioni umane, tra le quali la religione, essi sono sistemi auto-organizzati che cercano di replicarsi e di proliferare, per quanto questa dinamica possa operare--sacrificalmente--contro i loro potenziali partecipanti. E' connaturato alle istituzioni umane il perseguire la propria continuazione a spese di alcuni dei propri membri, come osserviamo con facilità nel comportamento dei sistemi militari, politici ed ecclesiastici, ma anche in quello degli ordinamenti pedagogici e commerciali. Gli ideologi del capitalismo presuppongono che la sempre più ampia estensione dei liberi mercati riuscirà ad assorbire quelle popolazioni che la storia ha relegato ai propri margini in una posizione improduttiva. Ma anche assumendo che la nostra biosfera possa tollerare la polluzione che una simile dinamica richiede per perpetuarsi, siffatta aspettativa ignora il margine proporzionatamente vasto che si dà per la violenza da parte di tutti quelli che un sistema di scambio sempre più frenetico sfrutta o esclude, mentre li priva di quel principio religioso sacrificale che li risarcirebbe delle loro privazioni.

Non dovremmo trovare nulla di scandaloso nel carattere sacrificale delle istituzioni, una volta che l'antropologia generativa ci ha messi in grado di vedere la loro origine nel differimento della violenza, in ciò che economizza la violenza. Le istituzioni sono così fatte perché sono per definizione corporative, convenzionali e collettive, mentre la loro etica è la durata, l'auto-perpetuazione. La moralità, in base alla quale noi giudichiamo i loro crudeli effetti sulla gente, è individuale e personale (The Unique Source 58-61). Il distacco della moralità dalla religione, qual è inteso da Kant e quale noi operiamo in maniera così trionfale nel mondo contemporaneo, è tanto comune da esser visto come obbligatorio; il credo di qualsiasi intellettuale è di non osservare alcun credo istituzionale, di non credere in nulla--tranne che in un intelletto privo di aiuto, disancorato e avventuroso. Non capiremo nulla di questo risultato straordinario se non vediamo le sue radici nella stessa tradizione religiosa.

Per il secolarismo moderno il centro culturale è completamente vuoto, mancante dell'essere divino adorato dalla periferia. Per Gans, questo svuotamento è, in virtù di un altro paradosso ancora, proprio l'opera della rivelazione biblica, che alberga in sé delle verità antropologiche che le nostre scienze umane stanno ancora tentando di raggiungere. Laddove la decostruzione mostra l'origine della tradizione filosofica come cripto-teologica o teologocentrica, l'antropologia generativa ci riconduce alle origini antropologiche della teologia, ma solo per mostrare successivamente l'ispirazione propriamente religiosa della scoperta antropologica nelle rivelazioni chiave della tradizione giudaica e cristiana. I suoi momenti decisivi sono la proibizione mosaica della figurazione concreta della divinità, dopo di che una cultura è disancorata da qualsiasi centro rituale, e la rivelazione paolina della vittima, la cui centralità ora è potenzialmente condivisa da tutti quelli che sono alla periferia, da ciascun membro della comunità umana (Science and Faith 3 e 4). Poiché la domanda "Perché mi perseguiti?" che il Gesù risorto rivolge a Paolo sulla via di Damasco indica l'onnicentralità di Dio in ogni persona umana, come fu predicata dall'uomo la cui crocifissione è testimonianza contro la violenza sacrificale. Il porre qualcuno come vittima in favore del bene collettivo è il principio sacrificale per eccellenza, come è enunciato da Caifa in Giovanni 11.49(10). La conseguenza inevitabile, e secondo Gans ironica, di questa rivelazione fu per Gesù quella di diventare il centro unico proprio di quella centralità rituale che molta sua predicazione aveva mirato a rimuovere.

Questa è una conseguenza che Gans sembra deplorare, come forse è obbligato a fare se l'antropologia generativa deve rimanere fedele all'incredulità metodologica che detta l'epistemologia scientifica (vedi The Unique Source 54). Nella sua rigorosa minimalità, essa non può, come diciamo della giustizia, essere rispettosa delle persone, ma solo delle relazioni, le cui alternative minimali sono l'amore e il risentimento, come risulta dalle ricche esplorazioni effettuate nelle "Cronache" settimanali di Anthropoetics. Per i credenti cristiani, Gesù è il mediatore potenziale di tutte le relazioni umane precisamente in quanto l'amore da lui predicato è l'antidoto al risentimento, come viene prescritto, ad esempio, dai discorsi posti intorno al suo Sermone della Montagna in Matteo 5 e 6. Nel riconoscere la "straordinaria forza intellettuale" con cui Gans legge la nostra tradizione religiosa, James Alison ha inteso dimostrare come la sua scena originaria sia utilizzabile, in termini strettamente antropologici, da una cristologia radicata nel perdono, che è analizzato come il mezzo disponibile al fine di sciogliere i legami mimetici dell'interazione violenta, su cui la teologia può riformulare la sua nozione di peccato originale(The Joy of Being Wrong II. 4 e II.5).

Da questa linea argomentativa seguirebbe che gli umani si possono amare reciprocamente tramite Cristo, incarnazione dell'amore divino, piuttosto che per qualsivoglia merito nostro che sia realmente amabile, dato che secondo questa misura, come celia Amleto, "nessuno eviterebbe la frusta". L'opera di Alison include una rielaborazione propriamente teologica dell'ipotesi mimetica di Girard, strettamente fedele al ragionamento antropologico, così come è rigorosamente perseguito dall'antropologia generativa. Come sottolinea James Williams nella sua recensione al libro di Alison, quel che emerge dalla sua "antropologia teologica" è "una comprensione dell'io umano e della cultura umana supportata ed esplicata in termini teologici… Sebbene un'analisi 'secolare' del comportamento umano e l'interpretazione teologica possano fino ad un certo punto coincidere ed accordarsi, è solo dal punto di vista del significato e della portata della resurrezione di Cristo che si può conquistare una visione radicale della condizione umana e delle umane possibilità"(7).

Qualsiasi cosa si creda circa la divinità trascendente di Gesù come Figlio di Dio, le rivelazioni mosaica e paolina sono "autoprobatorie", afferma Gans (Science and Faith 50-51); in sostanza, esse hanno "attecchito", come si è visto nel loro adempimento nella demistificazione della centralità rituale che è in corso, e nel privilegio morale e cognitivo riconosciuto alla posizione delle vittime--tanto che questa stessa posizione è diventata l'oggetto della rivalità mimetica (Signs 12). Questa decentralizzazione è proceduta di pari passo con il "disincanto del mondo". Questa è un'espressione di Max Weber, ripresa da Marcel Gauchet e citata in modo ambivalente da Derrida in Foi et Savoir (84-85). Essa designa un sentiero irreversibile di progresso intellettuale, nella sua vieppiù razionale manipolazione dei segni, nella sua signoria progressivamente formale. Essa designa l'illuminismo, ma soltanto, come lo stesso Derrida è pronto a ricordarci, come un'ambigua estensione della Riforma cristiana "une Aufklärung dont la force critique est profondément enracinée dans la Réforme" (Foi et Savoir 41).

CREDENZE

Poiché qui il legame tra Derrida e l'antropologia generativa è incentrato sulla religione, mi sembra importante concludere ponendo attenzione al contributo di un credente alla nostra comprensione del "disincanto". Per James Alison questo si dovrebbe tradurre ne "la desacralizzazione della storia" compiuta dalla resurrezione come prova del perdono divino. Abbiamo qui un concetto della divinità come perdono, che già è ben presente nella Bibbia ebraica, in un modo che è totalmente estraneo alla reciprocità violenta che inevitabilmente richiede sempre nuove vittime. Questa è la linea di condotta inequivocabile prescritta da Gesù nei discorsi che accompagnano il Discorso della Montagna come fondazione di relazioni umane esclusivamente positive, in cui in altro luogo Derrida nota la "rottura con scambio, simmetria o reciprocità":

"Si tratta di sospendere la stretta economia dello scambio, della ricompensa, del dare e restituire, dell' 'un solo denaro prestato per ogni singolo denaro preso in prestito', dell'odiosa forma di circolazione che implica rivalsa, vendetta, restituzione di colpo su colpo, conti in sospeso. (The Gift 102)

Nessun sano di mente, una mente organizzata dalla rivalità e dall'espulsione, desidera "porgere l'altra guancia", così per Alison solo una divinità può dimostrare la sua verità quando Gesù ritorna alla "banda di semi-traditori" (73) tra i suoi seguaci con un saluto di pace invece che di ritorsione vendicativa. Il dono dell'amore è in netto contrasto con i benefici culturali derivanti da una divinità sacrificale, la cui morte violenta genera le differenziazioni culturali e il cui culto richiede vittime espiatorie o propiziatorie. Derrida, dal canto suo, persegue questo "sacrificio dell'economia", o "aneconomia", come egli la chiama, fino alla "irriducibile esperienza del credere", come è formulata da Nietzsche nella Genealogia della morale, nei termini dell'oscillazione "tra credito e fede, il credere sospeso tra il credito[créance] del creditore([créancier] Glaubiger) e la credenza ([croyance] Glauben) del credente [croyant]. Come si può credere questa storia della credenza o credito?" (The Gift 115). Forse né la filosofia né l'antropologia generativa ci possono portare al di là di questa domanda. La prescrizione biblica della fede ne fa un'opzione discutibile; per definizione essa può essere soltanto una scelta libera, "sostanza di cose sperate, argomento delle non parventi" (Ebrei 11.1). Come fa notare Alison a proposito dei tentativi di studiosi ed esegeti volti a dare una spiegazione dei racconti evangelici della resurrezione, "o noi accettiamo sulla fiducia la testimonianza apostolica o non l'accettiamo" (72).

Ovviamente la cosa non è così semplice, dato che l'esperienza realmente strana del credere nella religione occidentale è assai lungi dall'essere irriducibile, come testimonia l'esistenza di teologie sistematiche (dall'Aquinate a Barth), insieme all'esistenza delle loro rivali asistematiche (da Pascal a Kierkegaard--e ancora a Barth, e contro se stesso). Cristiani ed Ebrei pregano regolarmente il loro Dio per ottenerne ogni sorta di benefici, compresa, ironicamente, la fede che consente di credere in lui. Questo è un paradosso fondativo della riflessione teologica occidentale, nella quale certezza e dubbio si alternano produttivamente nell'interrogazione razionale di ciò che trascende la ragione; questo ha come risultato una cultura unica nel suo esser sempre in movimento infrangendo tutte le barriere. Secondo Niklas Luhmann, la ragione occidentale abbandonò il paradosso quando, dopo il diciassettesimo secolo, essa abbandonò il pensiero religioso in quanto risorsa intellettuale, realizzando una perdita netta per la trasparenza cognitiva che solo recentemente si sta recuperando tramite l'attenzione ai sistemi auto-referenziali (Essays on Self-Reference 16). E' un argomento che richiederebbe un esame assai più ampio, in quanto si connette alle più dirette osservazioni di Kenneth Burke sul linguaggio come già sempre retorico. Poiché, se riflettiamo, le parole sul mondo sono anche parole su parole, ciò che comporta in tutte le nostre concettualizzazioni più ambiziose quello che egli chiama una "logologia". Si tratta di ciò che la decostruzione ha ribattezzato logocentrismo. La decostruzione è perfettamente autoreferenziale, ma il suo congenito sospetto del pensiero generativo od originario impedisce la sua capacità di comprensione storica--e religiosa. E' troppo presto--per chi scrive--per dire che cosa potrà produrre la combinazione delle analisi di Alison con quelle di Gans sulla via di una teologia più coerente, che per i razionalisti è un ossimoro, a meno che essi non siano disposti, come uno degli ultimi neologismi di Derrida sembra sollecitare, ad approfondire le implicazioni di una "paradossologia" (The Gift 83). Forse questo è il punto in cui la nostra tradizione letteraria è più istruttiva, come mi arrischierò a mostrare in conclusione.

Quello che l'antropologia generativa offre alla tradizione teologica occidentale in quanto analisi originaria è l'attenzione alle sue dimensioni performative, al contenuto delle forme linguistiche, che possiamo illustrare servendoci di Dostoevskij. Il bacio muto che Gesù dà al suo torturatore, Il Grande Inquisitore, nella scena immaginata da Ivan Karamazov, è da Dostoevskij inteso come definitivo delle relazioni umane come sono prescritte dai Vangeli, la base di una reciprocità perfettamente imitabile ed esclusivamente positiva. Essa è prefigurata in un testo anteriore dalla prostituta Liza che abbraccia l'uomo del sottosuolo, che la tormenta (e tormenta se stesso) con la confessione derisoria della sua stessa malignità nei confronti di lei. Questo gesto è a sua volta esemplificato dal bacio che Alëša dà a suo fratello Ivan, che lo tenta con la ribellione come il Grande Inquisitore tenta Gesù con la visione storica del suo fallimento. Il bacio di Gesù è veramente una performance d'amore, ma non è un performativo in alcun senso strettamente linguistico, non essendo un atto ostensivo, né imperativo, né tantomeno dichiarativo di alcunché, di alcun referente al di fuori di sé. La sua semplicità senza parole opera in contrasto empatico e tematico con il discorso ridondante, e nell'ottica dostoevskiana eminentemente persuasivo, dell'Inquisitore sul fallimento del cristianesimo istituzionale, sulla preferenza accordata dagli umani ai meccanismi sacrificali e alle servitù idolatriche, per "Miracolo, Mistero, Autorità". In questa preferenza sono compresi i tentativi di liquidare o denunciare la libertà umana, tentativi che nondimeno sono impotenti di fronte al testimone che perdona contro di essi. Non mimetico, non reciproco, aneconomico, asistemico, il bacio di Gesù figura come una sorta di segno assoluto il cui significato coincide totalmente e inequivocamente con la sua attuazione come amore incondizionato. Se esso ha un referente, è quello che Gesù chiama il Regno di Dio. E' assoluto nel senso che imita e replica l'amore del padre per i suoi figli, che dovrebbe diffondersi orizzontalmente, inter- e intragenerazionalmente o fraternamente, tra di loro. Di fronte a colui che lo tormenta, è autoprobatorio nella sua incondizionatezza, nella sua reale trascendenza, in un modo cui non giunge l'esortazione omiletica del santo Zosima ad un amore incondizionato, per quanto "sublimi" siano i suoi imperativi; in esso dono--o grazia, per i teologi--e perdono sono una cosa sola, senza alcuna precondizione. Essendo preventivo e prolettico, esso annuncia una libertà con cui nessun sistema di scambio può rivaleggiare, perché è innanzitutto una libertà da ogni rivalità. "Non-contaminé" per eccellenza, è decostruttivo in modo esemplare nella sua rottura con l'antagonismo dualistico dell'io verso l'altro come costruzione che lega sacrificalmente gli uomini tra loro (e che Alison ha ridefinito come peccato originale). Invece che imitare il desiderio che l'altro nutre per l'oggetto, esso chiama all'imitazione, alla identificazione, con la vittima (le vittime) che la rivalità inevitabilmente produce. Non ultimo dei contributi dell'antropologia generativa è la sua offerta di un vocabolario e di uno scenario tramite cui possiamo comprendere in termini antropologici quello cui la tradizione cristiana si riferisce quando parla del Verbo incarnato.

Non occorre che noi valutiamo le implicazioni morali--o pastorali--di questa scena perché possiamo apprezzare ciò che significa a livello epistemico, con le sue ramificazioni antropologiche, nel suo segnalare una rottura con il risentimento che la provoca--o che, in un senso diverso, non riesce a provocare la propria replica. Per Alison, il perdono è la fonte della "gioia nell'aver torto", poiché è solo tramite questo riconoscimento che le relazioni umane possono essere sistemate permanentemente nella fiducia. La concezione nietzscheana di ogni azione come reazione, del sentimento morale come risentimento, è smentita. Con il perdono come condizione primordiale o fondamento della libertà umana, il male emerge dalle dinamiche dell'interazione umana come "scelta pura", come spiega Girard nel suo vecchio libro su Dostoevskij (134, 138). Poiché è in questo modo che noi possiamo capire il rifiuto, il rigetto e l'espulsione della sua vittima da parte dell'Inquisitore. In privato Dostoevskij usava professare come suo credo che perfino se egli avesse saputo che Cristo era "al di fuori della verità, che in realtà la verità era al di fuori di Cristo", egli avrebbe ancora "preferito rimanere con Cristo piuttosto che con la verità" (Frank 160). Questa è l'antitesi della posizione dell'Inquisitore, e potenzialmente anche dello stesso Ivan, in quanto egli febbrilmente oscilla tra conversione pentita e follia ribelle, che per l'autore dei Fratelli Karamazov significa conoscere Gesù come la verità e liberamente scegliere di non credere in lui, di non rimanere con lui (in tutto ciò che il verbo rimanere implica come una posizione, un concreto prendere posizione piuttosto che una prospettiva teoretica). La forza di questa tentazione per Dostoevskij stesso è rivelata dai romanzi in cui egli esplora, attraverso i suoi diversi personaggi, le sue proprie inquietudini--"Io sono un figlio del secolo, un figlio della miscredenza e del dubbio, lo sono oggi e (lo so) rimarrò così fino alla tomba" (Frank 160)--ciò che ha dato luogo ad una imponente procedura di scoperta riguardante l'auto-distruttività umana. Per lui, il demoniaco sta proprio in questa ribellione, che ha origine nella libertà di rigettare la libertà per abbracciare le schiavitù idolatriche. Questa è la visione della storia delineata dall'Inquisitore, e descritta profeticamente dal romanziere nei Demoni, il cui scenario sociopolitico di degenerazione collettiva si è realizzato storicamente nel nostro secolo con le sue rivoluzioni eminentemente sacrificali, ove la devastante massa delle vittime cresce in proporzione inversa all'efficacia del meccanismo del capro espiatorio che le produce. Tutte le rivoluzioni hanno intorno a sé un'atmosfera apocalittica o da fine-della-storia, che è già posta in caricatura nella teoria di Šigaljov, nei Demoni, secondo la quale la libertà assoluta si conquista attraverso la schiavitù assoluta. Quel che Alison ci consente di vedere, con l'aiuto dell'antropologia generativa, è come anche questi scenari di assassinio generalizzato, nel loro modo perverso, realizzino la chimera fin troppo umana della religione entro i limiti della sola ragione. 

  Testi di riferimento 

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Note

 

  1. William Hurlbut ci dà un'ampia visione della catena della mimesi dalla morfogenesi alla simpatia affettiva in Mimesis and Empathy in Human Biology.
  2. Si veda Derrida, "Proprio in questo momento io sono qui in quest'opera", in Re-Reading Levinas; e Peperzak, Before Ethics, per una coerente presentazione dell'opera di levinas che tiene conto dell'interazione umana.
  3. Per la percezione derrideana della incorreggibile ubiquità della violenza, si veda il suo "Force of Law".
  4. Si veda Blachowicz, Of Two Minds, che esplora la metodologia scientifica nei termini delle dinamiche strutturali della correzione amplificativa in quanto interessa una epistemologia aperta.
  5. Si veda Signs, c.5, per l'inter-relazione e coincidenza di paradosso ed ironia.
  6. "Nous nous essayons constamment à penser ensemble, mais autrement, le savoir et la foi, la technoscience et la croyance religieuse, le calcul et la sacro-saint" ("Foi et Savoir" 72).
  7. Circa i sistemi auto-organizzati, occorre sviluppare una correlazione che integri le analisi di Jean-Pierre Dupuy e Paul Dumouchel (L'Auto-organisation) con quelle di Edgar Morin (La Méthode), come suggerito da Stefano Tomelleri in René Girard: La matrice sociale della violenza (c. 3). Le correlazioni rimarchevoli, proprio perché mai toccate, tra l'opera di gans e quella di Niklas Luhmann circa i paradossi dell'autoreferenza, richiederebbero un numero di Anthropoetics sull'argomento.
  8. Queste trasformazioni sono ampiamente analizzate da Aglietta and Orléan in La Violence de la monnaie. La ben conosciuta decostruzione svolta da Paul de Man della metafora come metonimia, di una forma di sostituzione (paradigmatica o verticale) come quella che ne maschera un'altra (sintagmatica, orizzontale, seriale, contingente), rappresenta un altro caso in cui le componenti linguistiche sono astratte, e in ogni senso sradicate dalle dinamiche della scena originaria della rappresentazione, dall'evento che l'antropologia generativa colloca alle origini dell'umano. Cfr. Allegories of Reading.
  9. Nonostante, lo testimonia Gödel, l'incompletezza formale della matematica. Vi è qui, penso, un'omologia epistemica che la discussione di Gödel in The Mind of God (100-103) di Paul Davies ci consente di esplorare: un sistema che è completo solo a spese della coerenza, e coerente solo a spese della completezza, rinvia ai paradossi del sacro (fondativo) come supplemento propiziatorio. Esso è anche emblematico dell'incompletezza fondativa della rappresentazione formale in quanto tale.
  10. "Voi non capite nulla; non capite che è meglio per voi che un uomo muoia per il popolo, piuttosto che perisca la nazione intera".

 

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