Tragico sud
Da “Il paese delle spose infelici”, di Mario Desiati, Mondadori 2008
Elisabetta Liguori
elisabetta.liguori-lisi@poste.it
Mario Desiati con
questo suo nuovo romanzo, quello che non esito a definire della piena maturità
e consapevolezza letteraria, ci offre un affresco ampio di quella che è la
vocazione alla tragedia tutta meridiana.
Una voce maschile
quanto impietosa, la sua, che rovista a fondo nella terra, nella giovinezza e
tra le donne del sud. Una voce che sembra volersi opporre all’aura magica che circoscrive
da sempre l’immagine del sud, ai suoi demoni leggendari, alle tradizioni, agli
incubi del malocchio e dell’infelicità, per dare agli stessi la luce della
razionalità e della cronaca che meritano, servendosi di un’analisi socio
culturale d’altissimo livello. Come affermava Carlos
Fuentes ”la tradizione e il passato sono reali soltanto quando vengono toccati, e a volte sottomessi,
dall’immaginazione poetica del presente” e infatti nella pagine di Desiati i toni modernamente lirici diventano dettagliata
guida storica per chi scrive come per chi legge.
Per questa ragione, l’incipit è sogno
lirico, l’excipit una definitiva resa allo stesso sogno, ma nel mezzo del
romanzo domina la verità, l’autentica cronaca, la Storia, quella che accomuna
tutti gli uomini che quel sud l’hanno vissuto davvero. Premonizione
iniziale, cronaca anni ottanta/novanta nel tarantino
e condanna finale del terzo millennio: questa la struttura narrativa in sintesi.
“Su un certo sud, su certe
relazioni che lo animano e lo proiettano sugli scenari sequenziali della storia,
aleggia sempre un’aura esotica, folcloristica. Quella che può
essere definita una visione arcaicizzante degli uomini e della loro roba.
Eppure la sua vocazione
è decisamente tragica.”
Il sud di Desiati
è teatrale, come teatrali sono le sue donne e i loro
desideri, ma, nello stesso tempo è un sud orrendamente vero e tangibile. Due ragazzi, una donna misteriosa e selvaggia, i loro giochi con un
pallone muffito su campi sterrati con porte fatte di pietre da sfondare,
ferire, squarciare. Il paese, le campagne, la città avvelenata. Il futuro da fottere o da cui farsi fottere. Il vuoto psicologico e materiale
da colmare con il sesso, lo sballo, o il campionato di calcio. Questo è
teatro e vita vera.
Per tutti i protagonisti
l’unica vera ricchezza è proprio il fallimento: vanto, marchio
distintivo. Questa loro società è ormai devastata da logiche
di trucido potere. L’avanzata di Cito, i
condizionamenti televisivi, il potere virtuale della violenza, della volgarità
e dell’inciucio. La forza
grottesca di un’armata alla Brancaleone, seppur ben
più violenta e fatale. Per meglio descriverla, accanto alla pura memoria
anagrafica e alla descrizione fotografica di paesaggi di una bellezza languida
e dolorosa, Desiati costruisce
scene allegoriche di grande impatto cromatico e spirituale: quella dei lebbrosi
nell’ultimo lazzaretto segreto, ad esempio, la colonia degli Hanseniani, una scena di catarsi horror e liberatorio
stupore; o quella in puro stile Hemingway a Pamplona che descrive
la masseria di Monte Sant’Elia, persa nella campagna murgese, totalmente invasa dallo straniero e puntellata da
enormi auto metallizzate, ampie gonne a fiori, bimbi addormentati in esotiche
ceste di vimini, ricconi travestiti da gitani, il tutto in nome in un non ben
precisato quanto “merdoso ashram”.
Questo di Desiati
è dunque un sud coloratissimo e moderno, una terra in piena trasformazione ma
ancora fortemente umorale, genetica, mitologica,
osservata con gli occhi di due ragazzini che a fatica diventano uomini. Un sud
vissuto per scene madri, durante le quali gli adulti sono per lo più assenti o occasionalmente compaiono come larve parentali,
laidi burattinai, truffatori incalliti, politici spettacolari, comunque modelli
negativi dell’arricchimento, del degrado o della disillusione. È il sud dei sopravvissuti ad una tempesta sociale, che, in
coerenza con le premesse iniziali, è più che giusto raccontare
attraverso una tragica commedia.
Sì, raccontare è necessario. Chi sopravvive
è costretto a raccontare a chi non sa. È la sua condanna. Accade sempre. La
lingua utilizzata da Desiati, dunque, ha la
profondità e l’eleganza dignitosa di un’esecuzione inevitabile. Il suo racconto
è volto al passato e risente di un’emotività complessa, arcaica, preda
consapevole di nostalgie ed “affascino”. La sua lingua è ricercata,
novecentesca, quasi lirica, pastosa, alcolica a volte, ossimorica
sempre.
Da donna che scrive a sud, in ultimo, non
posso fare a meno di notare che molta ottima letteratura dell’ultimo periodo
pare aver scoperto le donne. Donne come oggetto, donne come
autrici, donne come destinatarie del racconto. Pare che siano muliebri
le risorse della scrittura e della lettura del futuro, sia per le penne
maschili, sia per quelle femminili. Lo dicono in molti. Un mondo ancora da
decodificare, il nostro, ma ricco; uno sguardo obliquo
che, pur agendo, come nel caso di questo Desiati,
sotto un’aura tradizionalmente magica, si confronta (e si scontra) fertilmente con la crudezza del quotidiano, della terra,
della materia. Le donne di Desiati sono una possibile
risposta alla nota intuizione demartiniana sulle
nevrosi femminili del primo novecento, nuove tarantolate:
sogno tormento e azione. Annalisa per prima. La donna -
animale che affascina i due giovani protagonisti. Lei è la vendetta di tutte, regina tra le spose infelici e suicide, che con il
proprio sacrificio, offre il collettivo riscatto dall’insoddisfazione, dalla
malattia, dall’incomprensione. Lei è ossessione sessuale, lei è estetica pura,
lei è donna già matura in un universo di bambini, lei è quello schiaffo in
pieno viso che tutti si aspettavano di ricevere perché è l’unica a possedere la
verità che agli altri è negata. Un paesaggio meridiano, anche lei avvelenata e
assassina come e più di Taranto, struggente e psichedelica, destinata a perpetuarsi
ed ingigantirsi nel tempo con grande forza visiva e
morale per tutti coloro che il destino ha voluto lontani, colpevoli o
innocenti, comunque perduti.