I nuovi decadenti

 

Elisabetta Liguori

 

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Di solito leggo per farmi delle domande e, se posso, per creare legami. Di solito. Così sono mesi che assisto al ripiegarsi della narrativa italiana su se stessa, sull’intimità dell’io, sui misteri dell’inconscio, ancora una volta, sull’autobiografismo. Ci sono oggi schiere nutrite di giovani scrittori che, come Filottete, restano alle prese con le loro, solitarie, piccole ferite, certi che solo illuminando il proprio particolare, si possa far luce sulle ferite dell’umanità tutta: così diceva Antonio Pascale una sera del luglio scorso, interrogato, qui al sud, circa il senso dei suoi lunghi racconti esprimenti un apparente ossessivo minimalismo del sentire e degli eventi. Non aveva tutti i torti. Assistiamo ad un repentino ritorno al romanticismo, alle sue ossessioni o ad una nuova reazione alle stesse?  Parlerei senz’altro di una reazione. D’accordo: trionfa il singolo sentire, l’analisi spiriforme di un io arroventato, ma è un fenomeno solo italiano? Non credo.

Non che sia spiacevole, sia chiaro. Amo sentirmi a casa mia, quando leggo; riconoscere le strade e ritrovare il mio quotidiano nel quotidiano altrui. Fare della mia letteratura una galleria di specchi. Sentir parlare di me, me, me. Ma oggi, curioso fatto, molti specchi risultano opachi e tristi: riflettono il brutto. Il piccolo ed il brutto. E’ un raccontare quello degli ultimi anni che descrive il perdersi della bellezza: è una perdita che ci riguarda. E non mi riferisco soltanto a Pascale, al suo “Passa la bellezza” edito Einaudi Stile Libero 2005, o ad altri autori italiani della medesima generazione.

Faccio, anzi, altri due esempi precisi.  Penso ai personaggi descritti da Hornby nel suo ultimo lavoro- non il suo libro migliore questo “ Non buttiamoci giù” edito Guanda 2005, ma che sceglie un ritmo preciso – ; qui possiamo ascoltare  latrati di quattro strane creature, ironicamente brutte, dalla dialettica veloce, ma distonica. Le affianco all’uomo descritto da un giovane esordiente barcellonese  Pablo Tusset nella sua opera prima,  “Il meglio che possa capitare ad una brioche” edito da Feltrinelli nel 2002. Due esempi tra gli altri.  Di cosa parlano questi uomini? Come vivono? Quale è la loro sporca piccola ferita? Come mai si abbandonano sempre più spesso a viaggi lisergici, come quelli italiani di Pincio?

Ho trovato tra questi libri interessanti punti di contatto e forse qualche risposta.

Siamo tra i nuovi decadenti. Sembra, infatti, di assistere ad un rinnovato abbandonarsi letterario ad una sorta di deragliamento dei sensi indotto; qualcosa che ricorda il percorso anti parnassiano dei Baudelaire, dei Verlaine, dei Rimbaud, dei francesi maledetti, privo però della sua originale forza tragica, della sua ricerca estrema. Un precipitare lento ed inesorabile verso una verità relativa, fine a se stessa, privata ed inutile, arricchito da un gusto estetico tendente all’orrido. Qui, ora, nel terzo millennio. In assenza di regole e dinanzi al dissolversi di ogni passata certezza.

Lo sballarsi di Pablo, protagonista del libro di Tusset, tra droga, alcool e colesterolo, non sembra finalizzato al raggiungimento della conoscenza superiore, dell’intuizione della verità assoluta, come accadeva alla fine dell’ottocento. Sembra piuttosto espressione della delusa volontà di annullarsi. Lo dice lo stesso Tusset: la verità non è che un’altra menzogna, solo meglio pubblicizzata, e soltanto la scrittura consente all’uomo di indossare una maschera e, finalmente libero, raccontare il suo vero. L’unico possibile. Ed il vero oggi è, forse, la delusione.

La verità di questo personaggio aderisce a quella di un nuovo ribelle obeso ed alcolista, che veste camicie sgargianti, di seconda mano, che fa sesso stanco e guardingo, comunicando con il mondo solo attraverso un p.c., nella più totale dissolutezza e ricercando l’oblio. Un abbandono in cui quello che conta non è l’universo collettivo, la sua comprensione, ma la mera soggettività.

Quello di Tusset quindi è un canto solitario, volutamente stonato. L’alcool gli serve a dimenticare ed a creare il sogno.

E’ il contrario dell’esteta questo Pablo Miralles, questo è certo, ma c’è, per di più, nella sua sgangherata rivolta contro l’odierna borghesia, una qualche incertezza. Brutto e contento? eroe perché brutto? Un Donchisciotte davvero fuori dal sistema? Non fino in fondo, secondo me.

L’uomo di Tusset è un uomo isolato, deluso, ma nonostante ciò, ancora in parte lusingato dal sistema che critica.  Secondogenito di una famiglia molto in vista, cinico, sprezzante, arrogante nel linguaggio, dai modi scomposti, osceni, eppure in fondo attratto dal bello, dalla fortuna, dal glamour, dalla perfezione del fratello più grande, The First. E’ un uomo deluso ed invidioso, obbligato a scegliere l’eremitaggio.

Tusset è feroce in questa lucida descrizione umana e la conclusione scelta dall’autore per questo romanzo è ben riuscita. Il protagonista, alla fine di una serie isterica di avventure, ritrova il prezioso fratello, scomparso misteriosamente, e rimette insieme i fili di una vicenda colorata e grottesca, scegliendo un futuro a metà, tra il sogno e la veglia. Senza sangue. Sceglie, in sintesi, un’esistenza simile a quella già vissuta fino ad allora, vergandone il manifesto ufficiale solo nelle ultime pagine del libro. Alla fine, in questo modo, riesce a punire il fratello che invidia.

Sceglie nell’ordine: 1)un castello segreto, fuori dal mondo, variopinto ma cupo, alla Gaudì, 2) lo sviluppo libero di una filosofia on line, privatissima, 3) cibo a vagoni, 4) erba, 5) libri, 6) donne a ore, 7) morbidi divani e 8) solo una volta all’anno, una benigna e fulminea incursione nella realtà.

Nel testo ritrovo il pessimismo e i bisogni incerti di un Neo alla Matrix, malcostretto alla pugna, piuttosto che la follia e l’incanto ottimista di Cervantes.

Tutto questa in una splendida Barcellona postmoderna, con quella sua, già descritta da altri, incoercibile vocazione al dissenso, alla clandestinità. Fatta di panchine ferme al sole su cui riposare, di sbirri e di ladri con i loro segreti equivoci; di stupore e colori forti che fanno intuire che, sotto una crosta gioiosa ci sia sepolto, ben altro. E ben pochi individui che abbiano davvero il coraggio di scavare.

Hornby, dal canto suo, questa volta sceglie di dar vita e due uomini e due donne in un’unica orchestra dialogante. Progetto ardito, perché molto diversificato. I quattro attraversano la stessa sofferenza, gli stessi eventi, partendo da punti di vista però difformi, da esperienze culturali e sociali estremamente differenti, arrivando poi alla medesima conclusione: il riconoscimento della propria inevitabile mediocrità, in una Londra insudiciata. Ciascuno, è inevitabile, esterna il proprio dolore con il linguaggio che gli è familiare, ma, attraverso un dialogo a più voci, la storia di ciascuno si fonde con quella dell’altro, per osmosi. Linguaggio, idee, progetti, tutto appare, anche qui, ben lontano da qualsiasi nitore formale, dalla regola, dalla certezza, dalla bellezza.  La bruttezza dell’un personaggio si confronta, si riconosce, si consola, si spalma su quella dell’altro. Un libro stereofonico, quindi, sulla diversità e sul pessimismo anche questo.

Senza eroi. Per le creature di Hornby l’idea base del suicidio, per quanto ben più radicale dello sballo alcolico, ha  la stessa matrice: lo smarrimento di ogni certezza, l’inadeguatezza. Ma se per i primi decadenti l’arte, ed i suoi misteri, potevano dare conoscenza e dominare la vita, qui è ben chiaro che nulla può dominare la vita. Non più. Forse resta ancora il piacere di scandalizzare un po’, ma niente che abbia a che fare con il graffio rivoluzionario del decadente Wilde. Diciamolo: neppure stupire o stupirsi è possibile per questi uomini e l’autore lo sa bene.

Gli uomini di Hornby sono diventati più tristi e meno ironici, mi pare. C’è chi non tollera più il peso solitario e l’abbandono sociale e religioso che segue la nascita di un figlio gravemente disabile; c’è chi si sente martire dei propri desideri sessuali, chi è schiacciato da sogni più grandi del sognatore stesso e dall’inevitabile sconfitta, chi è vittima dell’assenza, del giudizio e del pregiudizio. Vittime, sì. Schiacciati da un mondo incerto, scelgono di andar via o di ripiegarsi su se stesse. Uniti nel disagio.

Ecco le ferite, ecco gli uomini a Londra. Come a Barcellona. Come a Napoli.

Questi uomini non sono guida, non sono profeti, non sono maghi, o poeti; sono individui che si rifiutano, tappandosi orecchie e occhi. Che non ce la fanno, come direbbe Paolo Nori e cercano altre vie per dimenticare. E, magari, parlano d’altro per salvarsi.

Oggi la scrittura sembra voler parlare proprio di queste solitarie, incerte, distrazioni, divagazioni, di questo nuovo decadere.

 

 

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