IL SACRO, LA VIOLENZA E LA LETTERATURA

Ciclo di conferenze

II

Sei narrazioni nell'orizzonte dell'espulsione

Fabio Brotto

Liceo A.Canova, Treviso

brottof@libero.it

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Nel precedente incontro ho iniziato con la citazione di un libro di un autore, Hersey, che non costituiva argomento diretto di indagine. Anche oggi comincerò il mio discorso con le parole di uno scrittore che sembrerebbe non avere, di per sé, un particolare rapporto con il nostro argomento: si tratta del polacco Gustaw Herling, morto da poco in Italia, dove ha vissuto a lungo, avendo anche sposato una figlia di Benedetto Croce. Intellettuale finissimo, amico di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, esponente di una critica forte dei miti della cultura marxista, e perciò quasi ignorato in Italia, per i noti motivi. Autore, anche, di uno dei più interessanti libri sul mondo dei lager, Un mondo a parte. Quest'opera avrebbe in realtà a che fare col nostro argomento, come si vedrà alla fine. Bene, Herling scrisse un diario, culturalmente ricchissimo, di cui, con il titolo Diario scritto di notte, Feltrinelli nel 1992 pubblicò un estratto. Alle pagine 25-27 Herling narra di aver visto a Napoli, nella certosa di S.Martino, un quadro di Micco Spadaro, Episodi della peste del maggio 1656 al Largo Marcatello. Spadaro fu un testimone oculare di quella peste, che descrive con i tratti - anche se qui pittorici - che appartengono a tutte le grandi descrizioni di pestilenze. Anzitutto emerge ciò che, secondo la lezione di Elias Canetti, possiamo chiamare la formazione della massa, ovvero, seguendo René Girard, l'ammassarsi della folla dei linciatori, che cercano di impedire il dilagare dell'indistinzione con la pratica del capro espiatorio. Ecco le parole di Herling.

"Avvicinandosi alla tela torna in mente il suo vero soggetto: episodi della peste napoletana visti nel maggio del 1656 in diversi luoghi della città e riportati più tardi sull'unica scena di largo Marcatello. Per quanto sia facile individuare ogni episodio e osservarlo separato dagli altri, si ripresenta continuamente la visione di una massa che assorbe e soffoca, e senza dubbio era questa la cosa che più premeva all'artista: se guardiamo a lungo il suo quadro, alla fine, come attraverso una botola aperta all'improvviso, tocchiamo il fondo di un mondo costruito sulla disperata nullità della vita. Cumuli di cadaveri sotto i muri, sui carri, sulle barelle abbandonate, sulla nuda terra; in mezzo a loro degli spettri umani semivivi, che trascinano per le braccia o per i piedi quelli che sono appena morti; ecco un uomo che, con la bocca e il naso coperti da un fazzoletto, porta una piccola bara; eccone un altro che, in ginocchio, alza le braccia al cielo trafitto da un grido non di supplica ma di maledizione; ecco due corpi nell'ultimo abbraccio; ecco un bambino che succhia il seno di una donna morta. E di nuovo, senza neppure dover spostare troppo la testa, quella massa informe, la cui unica espressione è la mancanza di qualsiasi espressione. Senza darsi troppo pensiero delle condizioni imposte dalla realtà, Orcagna dipinse il suo Trionfo della morte in modo ben diverso. Il suo era un monito, questa è una sentenza. "

Quello che poi Herling annota non sorprenderà un conoscitore della teoria di René Girard, ma neppure un lettore di Manzoni, che sappia della caccia all'untore e della Colonna Infame. Del resto, anche il Leopardi della Ginestra è ben consapevole dell'umana tendenza a ricercare, per ogni sventura, i responsabili umani. E una consapevolezza simile potremmo trovare in moltissimi altri autori della grande letteratura.

"Per quanto riguarda il numero dei morti di peste, le cronache oscillano fra trecento e quattrocentomila, in una città che, con mezzo milione circa di abitanti, era una delle più grandi dell'Europa di allora. In generale si riteneva che la causa dell'epidemia fossero 'le polveri velenose'seminate dai 'nemici di Napoli', non necessariamente stranieri." Anzi, diciamo noi, la tendenza più forte è quella della ricerca del nemico interno. Lo vediamo anche in questi giorni in Palestina, con il linciaggio dei collaborazionisti. "Si vedevano colpevoli dappertutto: se a uno veniva fatto di buttar via qualche rifiuto per la strada, o si scuoteva la polvere dai vestiti, questo bastava perché la folla linciasse senza pietà il 'seminatore'. A dir la verità le cronache presentano il quadro di due pesti: l'una reale e l'altra psicologica. Più era inefficace la lotta contro la prima, e più erano grandi le devastazioni della seconda. Si celebravano le messe nelle chiese, si moltiplicavano le processioni delle rogazioni, notte e giorno le guardie di ronda del viceré facevano tintinnare le loro armi, ma non c'era niente in grado di impedire la lenta agonia delle leggi umane e divine. 'Poiché tanto dovevano morire', nota un cronista, 'si saltavano alla gola l'uno contro l'altro.'"

Nelle situazioni di forte stress sociale, quando la tensione è al culmine, si innesca e dilaga la proliferazione dei doppi. E' questa la reciprocità violenta, che porterebbe rapidamente alla dissoluzione della comunità se non si trovassero quanto prima dei capri espiatori. Ora, bisogna fissare subito due punti: anzitutto il capro espiatorio ebraico, proprio come il suo corrispettivo nel mondo greco, il pharmakós, è oggetto di una vera e propria espulsione, cioè viene mandato fuori, allontanato dalla comunità. Su questo concetto di espulsione torneremo, perché è il nostro argomento di oggi. In secondo luogo, nel contesto storico del quadro, nel Seicento, dopo tanti secoli di cristianesimo, non ci troviamo più entro la sfera del mito, che sacralizza la vittima, senza però che ne risulti mai la condizione di innocenza precedente al sacrificio. Il cristianesimo ha imposto l'idea della vittima innocente, e infatti le autorità perseguono coloro che spontaneamente linciano, espellendoli a loro volta, il che non è propriamente nello spirito del cristianesimo. E' un'espulsione degli espulsori, per così dire. In verità, si tratta di una spirale dalla quale anche le società contemporanee, anche quelle che ci appaiono le più evolute, sono ancor lungi dall'essere uscite, come potete facilmente constatare. Se uno delinque, infatti, va incontro ad una qualche forma di espulsione, che nel caso più grave si configura come un allontanamento dal mondo dei viventi, mediante la pena di morte.

"Negli atti di una confraternita religiosa ho trovato per caso la storia di un robivecchi di venticinque anni: Agostino Lanzuolo. Il 29 maggio fu arrestato dalle guardie come uno della 'spaventosa folla' che aveva fatto a pezzi una vecchia venditrice sospettata di fare la seminazione delle polveri velenose. Il mattino dopo fu portato in piazza del Mercato dove si trovava la forca. Rifiutò di confessarsi, non volle inginocchiarsi davanti all'altare, respinse il crocifisso che il cappellano della confraternita gli porgeva. Aveva un comportamento spavaldo, faceva fretta al boia, continuava a ripetere con 'diabolica ostinazione': voglio morire, andiamo presto alla morte. Il cappellano ottenne che l'esecuzione venisse rimandata e corse a cercare aiuto dai confratelli. Ne vennero quattro: lo scongiurarono, pregarono, piansero, accesero addirittura un fuoco 'per rendergli meglio sensibili i tormenti dell'inferno'; senza alcun esito. Verso sera, quando ormai non era più possibile rimandare ancora l'esecuzione, un funzionario dette il segnale. Agostino scoppiò in una sonora risata, salì baldanzoso sul patibolo e, come gli furono sciolte le mani, afferrò il cappio 'per metterselo al collo da sé'. A un tratto avvenne qualcosa che la relazione dei fraticelli definisce 'un visibile intervento del Cielo': Agostino scrutò la folla silenziosa in piazza del Mercato, l'osservò con tale concentrazione e con 'tale sofferenza sul volto sbiancato' che intorno a lui tutti raggelarono. E chiese di confessarsi. C'era poco tempo, perciò si confessò velocemente 'piangendo abbondantemente e battendosi il petto numerose volte'. Piangevano e si battevano il petto anche molte persone tra la folla e subito dopo salutarono l'impiccato con grida di gaudio universale."

Su tutto questo pezzo di Herling potremmo aggiungere svariate considerazioni, ma ci trattiene la brevità del tempo a disposizione. Fondamentalmente, oltre che per ribadire la forza ermeneutica dei principî girardiani, questa lettura mi ha consentito di iniziare a delineare la tematica dell'espulsione. Per farlo, ricorrerò anche ad Eric Gans e alla sua originary scene. Ora, vorrei subito dire che noi non possiamo assolutamente concepire la vita senza espulsione. Essa infatti è anzitutto una funzione del nostro organismo, dato che noi espelliamo le scorie del nostro cibo, delle nostre bevande, ma espelliamo anche in generale tutto ciò che l'organismo avverte come estraneo: pensate al rigetto di cui si parla in medicina. Come abbiamo detto, le società umane praticano, e hanno sempre praticato, espulsioni di diverso genere e su scala variabile. Pensate anche alla vostra esperienza, personale e di gruppo, a come epiteti legati all'espulsione delle scorie dall'organismo siano continuamente impiegati a sanzionare espulsioni più o meno simboliche. Quando uno è emarginato da un gruppo non lo si definisce uno s., una m.? Questo turpiloquio a cui siamo avvezzi non deve sembrarci così inoffensivo. Esso invece è indice di una universale tendenza umana all'abbassamento del non omogeneo, "di chi non è come noi". Questo abbassamento precede sempre lo scatenarsi della violenza, anche se non sempre vi giunge. Nel Novecento noi abbiamo assistito alle espulsioni più numerose e gigantesche che siano mai state concepite e realizzate: da quelle degli Armeni da parte dei Turchi, con l'estirpazione di popolose comunità e la famigerata marcia senza ritorno nel deserto, alle numerose "liquidazioni" operate dai regimi comunisti, e in particolare da quello sovietico (contadini, Ucraini, trotzkisti, ecc. ecc.), a quella degli Ebrei da parte del nazismo, e così via. Anche la Palestina e Israele, nella loro dialettica, appaiono leggibili in termini di reciproca espulsione.

Oggi parlerò dei sei libri, che, in numero di due per anno, costituiscono il programma di letteratura comparata che ho ideato per il mio triennio liceale. Sono Cuore di tenebra di Joseph Conrad, La condizione umana di André Malraux, Professor Unrat di Heinrich Mann, Il Signore delle Mosche di William Golding, Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. Sono testi assai diversi tra loro, ma li ho scelti in un'ottica unitaria, che non era originariamente quella qui adottata, bensì quella del nichilismo. E' questa una tematica niente affatto slegata da quella dell'espulsione, ma avente peraltro una sua autonomia. Noi possiamo distinguere, seguendo W.Weischedel, due forme di nichilismo: uno ontologico ed uno noologico. Il primo si fonda sull'affermazione che nulla propriamente esiste, ed è una delle forme estreme del filosofare, il secondo sostiene che nulla può essere affermato come vero, che l'essere umano non può mai approdare ad alcuna verità, ed è dunque un radicale relativismo. Come tale, costituisce la sensibilità più diffusa nel ceto intellettuale dell'Occidente contemporaneo, ed anche tra i romanzieri. Mi riprometto di studiare, nel prossimo futuro, i rapporti tra il nichilismo, la negazione del sacro, e il ritorno del sacro stesso. In effetti, i sei libri sono sei narrazioni nell'orizzonte del nichilismo, ma anche in quello dell'espulsione, sono sei narrazioni di espulsione. Esaminiamole sommariamente.

Cuore di tenebra. Da Lord Jim a Un reietto delle isole a Vittoria noi potremmo collocare tutta la narrativa di Conrad, o quasi, entro l'orizzonte dell'espulsione. Dobbiamo rifarci a Eric Gans e alla scena originaria, che costituendo un centro e una periferia, colloca nel centro la presenza reale dell'oggetto del desiderio. E' anzitutto il sottrarsi dell'oggetto centrale alla brama di possesso da parte della periferia che genera il risentimento originario. Siccome nell'ipotesi gansiana l'oggetto centrale è ciò che viene chiamato, col primo segno, Dio, la prima forma di risentimento è perciò, in un certo senso, teologico-religiosa, la madre di tutte le varie forme di risentimento indirizzate al divino. Ad esempio, quella di un padre che, rivolgendosi a Dio nell'occasione della morte di suo figlio in un incidente gli chiede: "Perché questo? Perché non l'hai salvato?". Risentimento che in qualche modo contiene la percezione di una propria superiorità morale su Dio, che viene giudicato, che risulta inferiore alle attese: se io fossi Dio certe ingiustizie e certe sofferenze non ci sarebbero… Ed essendo di Dio, il centro tende a divenire il luogo in cui ogni membro della periferia vorrebbe collocarsi. La sua occupazione da parte di un altro genera un'ulteriore forma di risentimento: perché il centro è occupato da uno che non è tanto degno di quella posizione quanto lo sono io? E quindi: perché lo occupa quello e non quest'altro, in cui io mi identifico? Perché al centro c'è, poniamo, Berlusconi, e non invece Bertinotti, che ne sarebbe più degno? Il risentimento girardianamente lo possiamo definire come l'immaginazione che il vero essere, la vera felicità, la vera realizzazione, stiano presso un altro, e non presso di me, che ne sono più meritevole. Il re sacro è la prima incarnazione umana del centro. Il re sacro di cui ci parla l'antropologia culturale a partire da James Frazer e dal suo Ramo d'oro, che Conrad conosceva, è assolutamente al centro del proprio gruppo umano, anzi ne costituisce propriamente il centro sacro. Da quel centro si irradia la sua forza sacra, che rende feconda la terra, gli uomini e gli animali. In cambio gli sono dovuti riti, che spesso presentano il carattere della violenza, e che Conrad chiama indicibili. Se il re sacro si indebolisce, va sostituito, perché il centro sacro deve essere sempre attivo e potente. La sua sostituzione avviene nella forma dell'espulsione, la più radicale, la morte. Kurtz, colui che il protagonista della narrazione conradiana va a ricercare nel cuore nero dell'Africa, è come lo stesso Marlow, un soggetto marginale nella società borghese occidentale da cui proviene, ma gli è data l'occasione di raggiungere la posizione centrale, che nella vita di un paese civile non avrebbe mai conseguito, tra i primitivi. La loro marginalità spinge, con movimento centrifugo, prima Kurtz e poi Marlow fuori dalla civiltà. E' una forma di espulsione "soffice" ma efficace che l'Occidente ha massicciamente realizzato, fin dagli albori del mondo borghese, e che ha contribuito non poco al suo predominio mondiale. Il tipo d'essere umano intelligente e attivo, pieno di idee, che non trova adeguato riconoscimento nel luogo d'origine, e che cerca quindi un altrove in cui poter manifestare il proprio valore, in cui poter occupare un centro: questo è Kurtz. Egli è disposto a pagare il prezzo più alto per acquisire la posizione centrale, e in breve tempo ripercorre a ritroso il cammino della civiltà, e si ritrova presso il sacro originario, il sacro dell'orrore del sacrificio umano. Così Kurtz era divenuto il re sacro del cuore dell'Africa, e, lui morto, Marlow, il suo soccorritore, avrebbe potuto sostituirlo. Il fascino che quel centro sacro sprigiona è tale che Marlow fatica ad allontanarsene. Il sacro che l'Occidente ha espulso da sé è sempre pronto a ritornare, ma in realtà non si è mai allontanato, proprio perché il sacro è l'espulsione. La città sembra a Marlow sepolcrale, gli appare come un sepolcro imbiancato, che è la negazione del proprio contenuto. Dopo l'esperienza di una violenza senza limiti, se non quelli della violenza stessa, egli dice: "E per un momento mi parve di trovarmi anch'io seppellito, in una grande tomba piena di segreti indicibili". E' andato oltre l'imbiancatura del sepolcro, dall'altra parte, ha visto ciò che il sepolcro contiene. La civiltà ha espulso questa rivelazione, ma essa rimane annidata nel suo cuore.

La condizione umana di André Malraux ci interessa qui non tanto per il nichilismo evidente di alcuni personaggi, quanto perché nella narrazione, in cui la religione in senso tradizionale non occupa molto spazio, emergono alcuni comportamenti umani molto tipici del Novecento, che ne delineano la forma di espulsione di massa più caratteristica: la liquidazione degli avversari politici o presunti tali, ovvero l'omicidio di massa. Qui sono i comunisti cinesi degli anni Venti a fare la fine che i loro compagni russi avevano fatto fare ad altri, e che agli altri, ora qui vincenti, i loro successori faranno a loro volta fare dopo il 1949. Si tratta di un'esecuzione di massa senza processo, assai praticata dai regimi totalitari. Nella narrazione di Malraux vengono a contatto differenti tipi umani, tipi ricorrenti nel nostro secolo: dal terrorista Tchen, animato da un sinistro cupio dissolvi, a Kyo, che ricerca nell'azione politica il senso della vita e della dignità umana, all'avventuriero Clappique, che vive con leggerezza giorno per giorno, perché la vita non ha senso, al vecchio Gisors, che non riesce a trovare quell'unità interiore di cui avrebbe bisogno. Nel vortice degli avvenimenti storici questi tipi umani si inseriscono in modo diverso, con differente grado di comprensione del senso del tutto. Poiché il tempo non è molto, mi limiterò a citare il vecchio Gisors, che comprende una cosa fondamentale, che mi pare anche legata al senso globale del testo di Malraux: molti uomini avvertono un disperato bisogno di essere nel centro. Questo desiderio di centralità si declina come volontà di potenza, ed è invece una volontà di sfuggire alla condizione umana, alla sua essenziale perifericità. Essa si può comprendere solo, negativamente, come condizione non-divina. L'essere umano non riesce ad occupare stabilmente il centro, non riesce ad essere Dio. "La malattia chimerica, di cui la volontà di potenza è solo la giustificazione intellettuale, rimane sempre il desiderio di divinità: ogni uomo sogna di essere dio". E in ciò risulta sempre frustrato, risentito, aperto alla violenza.

Con Professor Unrat di Heinrich Mann ci collochiamo in un contesto meno esotico. Non in Africa né in Cina, ma in una tranquilla città della Germania guglielmina: la struttura dell'umano essendo però la stessa, ed essendo il periodo storico il medesimo, anche le nostre categorie di interpretazione rimarranno stabili, e noi continueremo ad usare quella gansiana del rapporto centro-periferia. Cosa c'è infatti, direte voi, di più periferico di un professore di liceo? Poco, e infatti tutti i professori di liceo avvertono se stessi come socialmente periferici, cioè lontani dal centro, disistimati e incompresi nel loro valore e nella loro utilità sociale. Tutti gli insegnanti saranno dunque, se pur in misura differente, affetti da risentimento. E colui che è chiamato il professor Unrat lo è in misura sovrabbondante. Egli comprende se stesso come un espulso e questa sua comprensione si tradurrà in un risentimento tanto più feroce quanto più l'espulsione stessa da simbolica diverrà reale, a causa del rapporto, e poi del matrimonio, con una marginale - rispetto all'etica borghese cittadina -, con la canzonettista Rosa Frölich. Sorvolo qui sulle vicende di quest'amore: pensate al soprannome Unrat. Significa immondizia. L'immondizia, la spazzatura, il luridume, sono tutti termini evocanti l'urgenza di un'azione di espulsione. Appellare una persona con un termine del genere - torniamo a quanto avevamo accennato prima - non è un atto innocente, è un atto di espulsione, in primis verbale. Unrat appartiene, benché in posizione marginale, al ceto intellettuale, come vi appartengono i professori di liceo, anche ora in Italia, nonostante, la tendenza a farne dei meri impiegatucci. In quanto egli è un intellettuale, il grado di autocoscienza - se vogliamo di presunzione, ma distinguere tra le due non è mai agevole - di Unrat è elevato. In Unrat convivono un fortissimo desiderio di centralità e un fortissimo risentimento per il fatto che quella centralità cui avverte di avere diritto gli è sottratta. Mann scrive che Unrat "era povero e misconosciuto". Nella società borghese del denaro chi è nel centro ha anche il denaro, e misconoscimento del valore e scarsa disponibilità di denaro vanno di pari passo. Qui occorrerebbe fare una bella digressione su Balzac, ma il ritmo di questa conferenza non me lo consente. Mann nello stesso luogo aggiunge che "L'importanza del lavoro che portava avanti da un ventennio veniva ignorata". Ed essere ignorati quando si sente di valere è fonte del massimo risentimento. Teniamo presente peraltro che proprio nell'ambito della cultura romantica tedesca si è avuta la massima espressione del contrasto tra l'intellettuale-poeta, portatore delle ragioni dell'Amore e dell'Ideale, e la società borghese-filistea. Il poeta romantico culla in sé il senso della propria superiorità spirituale, compensando così la marginalità della propria posizione sociale e la propria impotenza storica, e comunica questa compensazione ai suoi lettori, che con lui si identificano nello stesso momento in cui lo costituiscono come il proprio centro nella sfera eterea del sentimento poetico. Di questo contrasto in un certo senso Unrat è, letteralmente, il residuo degradato. Vedendo i propri colleghi in un locale, Unrat sente di non avere "nulla in comune, proprio nulla" con loro. "Quelli là si riunivano tra amici e avevano una vita normale e ordinata: lui, invece, si sentiva in una certa misura problematico e per così dire reietto". Percepirsi come reietto, in un contesto post-romantico, può essere motivo di soddisfazione, di autocompiacimento. Qui si potrebbe aprire un vasto spazio sulla tematica del culto del reietto nella cultura dell'ultimo secolo, dall'erede del romanticismo alla rock-star…

Il Signore delle Mosche di William Golding ci riporta nell'area del confronto vita civile-vita selvaggia. L'espulsione di un gruppo di ragazzini dall'ambito civile è realizzata dall'abbattimento dell'aereo che li trasporta, che cade su un'isola deserta. Là Golding - che delle dinamiche mimetiche e distruttive all'interno di un gruppo di adulti è sottile investigatore nella sua Trilogia del mare, e in particolare nel primo romanzo di questa, Riti di passaggio - pone in essere una serie di azioni e reazioni che infine configurano l'instaurarsi di un meccanismo sacrificale. Inizialmente i preadolescenti cercano di mantenere in vita una specie di copia dell'ordine civile-borghese-parlamentare, istituendo una sorta di assemblea democratica, ma la necessità di avere un leader innesca una competizione tra i due individui eminenti, Ralph e Jack, competizione che diventa rivalità, e infine degenera in un vero conflitto di doppi. Il richiamo della violenza scatenata affascina un numero sempre crescente di ragazzi, fino a che colui che, direbbe Girard, presenta su di sé i più accentuati tratti vittimari - è Simon, la cui epilessia, il morbo sacro, che gli conferisce una particolare sensibilità e capacità di intuire la verità, lo rende anche disomogeneo rispetto al gruppo. Egli viene scambiato con la Bestia, una misteriosa creatura della cui esistenza un po' alla volta quasi tutti si convincono, e che in realtà è la proiezione dell'angoscia della comunità, fantasma ancestrale in cui si incarna la tensione, e che assume gradualmente i caratteri del sacro, del sacro violento. Simon viene ucciso in un'esplosione collettiva di frenesia aggressiva, e nello stesso tempo gli uccisori pensano di non avere ucciso un loro compagno, ma di aver colpito una manifestazione della Bestia. Notate: in dono alla Bestia, il "Signore delle mosche" cioè dei cadaveri, piantano un bastone con una testa di maiale ucciso; nello stesso tempo assalgono in massa colui che scambiano per la Bestia stessa. Non c'è contraddizione in questo, tuttavia, se applichiamo l'ermeneutica girardiana, in quanto è sempre la vittima che, a causa del beneficio che il gruppo avverte dopo il linciaggio, viene divinizzata come colei che conferisce il benessere stesso. E' quindi una catena senza fine, poiché il sacro è espulsione violenta, che chiede sempre di essere ripetuta, e che viene di fatto ripetuta, perché in essa sta la maggior potenza mimetica. Baal-zebub, il Signore delle mosche in lingua siro-cananea, è il dio supremo del pantheon dei popoli vicini all'antico Israele. Dio che scende agli inferi nella stagione secca, in cui abbondano le carogne di animali coperti di mosche, e che ritorna in cielo con le prime piogge. E' il dio che nella tradizione ebraica si identifica con satana, da cui deriva appunto il nome Belzebù usato come appellativo del diavolo. Per Girard il diavolo non è un ente personale, ma la mimesi stessa, nel suo aspetto sacro e violento, quella che tende alla proliferazione dei doppi e non ha via d'uscita se non nel sacrificio cruento.

Pensate ai romanzi che conoscete. In quante di quelle narrazioni è presente una vittima? Certo, non sempre la storia di un romanzo finisce con la morte del protagonista così come avviene nella tragedia greca. Ma la cosa è poi molto diversa? Bisogna rispondere che sì, la cosa è molto diversa. Da un lato solo però, perché, ripetiamolo, nella modernità è di solito presente il senso dell'innocenza della vittima, e questo fa sì che il mondo del romanzo differisca radicalmente da quello dell'epica e della tragedia. Non ha senso chiedersi se Turno sia innocente, ha senso chiedersi quanto colpevole sia don Rodrigo. In ogni caso, anche la storia del romanzo è costellata di vittime, e pone la questione della retribuzione, cioè della responsabilità e della punizione, e in definitiva, se posso dirlo, della teodicea, e questo anche quando gli autori sono atei. Pensate alle sofferenze dell'eroe e dell'eroina romantici. La letteratura del romanticismo, e mettiamoci dentro anche il melodramma, è piena di personaggi femminili sacrificati. Naturalmente non ad un dio pagano, ma a meccanismi sociali che sono espressione del sacro, nella loro irrefrenabile tendenza all'espulsione. Il sacrificio umano richiede in particolare vittime femminili, e le belle sono specialmente gradite. E però il romanticismo glorifica l'espulso, non l'espulsore. Mi sembra che qui stia bene la citazione del Winterreise, il viaggio d'inverno, di Schumann, in cui il giovane innamorato infelice è costretto ad abbandonare il villaggio, e cammina da solo in mezzo alla foresta deserta, ed è certo che morirà…quasi un capro espiatorio classico. Ma la voce che parla, che dice io, è quella dell'espulso, e dalla sua parte stanno lo scrittore e il musicista. Lo scrittore si identifica con la vittima, si schiera dalla sua parte. E' cominciato nel romanticismo quel processo di formazione della sensibilità vittimistica che raggiungerà il suo culmine nel periodo successivo all'Olocausto degli Ebrei, ovvero nell'epoca presente. Guardatevi intorno: anche la lotta politica, a tutti i livelli, implica sempre il tentativo di presentare la propria parte come la vittima, poiché figurare come vittime è vincente nella dialettica contemporanea. Guai a essere visti come i carnefici. Questo fatto dovrebbe renderci molto accorti e poco inclini all'emotività, per evitare di essere tratti in inganno. Il protagonista di Berlin Alexanderplatz, che vive agli albori del Terzo Reich, si colloca nel sottile discrimine tra la vittima e il carnefice, tra l'espulso e l'espulsore. All'inizio del romanzo lo vediamo appena uscito dal carcere, dove ha scontato una pena detentiva (è quindi stato espulso dalla società civile) per aver massacrato di botte la sua donna. Franz Biberkopf cerca un lavoro onesto, si barcamena, ma alla fine sente il fascino irresistibile di un criminale, tra l'altro psicopatico, che diventa il suo idolo, il suo modello, cosa che lo porterà alla rovina. Franz vivrà da criminale fino al momento della sua quasi-morte e del suo annientamento come individuo. Vorrei qui ricordare, di questo grande romanzo, soltanto la scena centrale, quella del macello, una scena che contiene un inserto il cui protagonista è Giobbe (e ricordiamo anche che il libro di Girard L'antica via degli empi si occupa di questo personaggio biblico sub specie expulsionis). La macellazione giornaliera di maiali e bovini in un macello come quello di Berlino è descritta con grande potenza espressiva, espressionisticamente. Si potrebbe vedere nell'insieme una profezia del massacro degli Ebrei, un massacro tecnicizzato e freddo nei modi della sua realizzazione, ma interpretato dai capi delle S.S. in un modo assai prossimo alla dimensione tradizionale del sacro. Si può senz'altro vedervi il rapporto tra l'umano moderno e gli animali di cui si alimenta, rapporto da cui il sacro è stato apparentemente espulso, lasciando aperto il campo alla pura tecnica e al puro orrore. Cioè ad un sacro puro, senza rivestimento mitico tradizionale. Come dire: non si può uccidere laicamente, ovvero il sacro fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra, perché il diavolo, la mimesi, proprio in quanto tale può assumere tutte le forme.

Concluderò con qualche parola sull'ultimo di questi sei testi, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. Si tratta di racconti, una grande raccolta di racconti ambientati in una delle realtà più abissali che gli umani siano riusciti a creare, cioè l'universo concentrazionario sovietico, avente nella regione di Kolyma, in Siberia, la sua punta di diamante, cioè il suo punto più infernale. E'un Cocito gelido, in cui d'inverno si può giungere a sessanta gradi sotto zero, e l'urina si gela prima di raggiungere il suolo. Nei campi di lavoro gli espulsi dalla nuova società socialista devono lavorare per morire. La condizione umana vi è negata nei suoi fondamenti minimi, non c'è un'ombra di diritti civili ed umani, che peraltro sono giudicati dal potere dominante meri residui dell'ideologia borghese. Il sommo miracolo di Šalamov è stato quello di riuscire a fare della letteratura - ma quanto spoglia, quanto scheletrita - su un tipo di esperienza che di per sé la negherebbe. Perché questi milioni e milioni di espulsi dalla vita, di vivi-in-morte nei lager? Le radici non sono solo in Stalin, e nemmeno solo in Lenin, ma vanno ricercate nella fonte che di tutto questo orrore si vorrebbe da parte di molti "scagionare", cioè nel pensiero dello stesso Marx. Come Cesáreo Bandera mette in luce, la logica che sta alla base delle previsioni di Marx sullo sviluppo storico dell'umanità non ha molto a che fare con la logica della investigazione scientifica, che è spassionata, ma è piuttosto quella che ha sempre governato le operazioni collettive del meccanismo sacrificale. Marx pretende che dall'umanità sia espulso il sacro, inteso come "ideologia", ma questa espulsione non differisce da ogni altra forma di espulsione sacra, per quanto primitiva essa sia. La crisi finale del capitalismo, da cui dovrà sorgere la società comunista, presenta degli evidentissimi caratteri mimetici e sacrali: al centro il capitalismo, come bestia morente, intorno la vastissima e circolare periferia degli impoveriti, che attendono la morte dell'agonizzante, da cui deriverà la loro perfetta uguaglianza nella realizzazione della universalità della specie umana. Ma questo non è che mito, mentre il rituale effettivo, per essere benefico, deve essere ripetuto. Nella realtà concreta dello stato rivoluzionario, ad espulsione non può che succedere espulsione, a sacrificio sacrificio. E nessuno di coloro che hanno voluto seguire le teorie di Marx sul piano delle realizzazioni storiche si è mai potuto allontanare dall'"antica via degli empi". Di questo nella letteratura Herling, Solženicyn e Šalamov sono le testimonianze più sconvolgenti, testimonianze da tenere sempre davanti agli occhi.

4 aprile 2002