Anthropoetics III, no. 1 (Spring/Summer 1997)

Celso, il primo Nietzsche:

il risentimento e la tesi contro il cristianesimo

Thomas F. Bertonneau

Department of English
Central Michigan University
Mount Pleasant MI 48859
3e4kkhr@cmuvm.csv.cmich.edu

Traduzione dall’inglese di Fabio Brotto

 

Il cristianesimo condivide con l’ebraismo la capacità di provocare risentimento contro la propria stessa costante erosione del risentimento. Nulla fa infuriare i critici dell’ebraismo e del cristianesimo – ma specialmente del cristianesimo – più del mite invito a porgere l’altra guancia. Come l’intruso dai piedi gonfi [Edipo, nota del tr.], la religione biblica diventa una calamita per ogni possibile immaginabile accusa, ispirando un voluminoso Schimpflexicon di calunnie e oltraggi.

Quindi, mentre il mio tema principale è il risentimento come risposta al giudaismo e al cristianesimo, con particolare enfasi sul cristianesimo, desidero tuttavia cominciare richiamando una forma specifica presa dal risentimento: la diffamazione, il gettar fango, che, anche se primitiva, tuttavia ha un rapporto sia con la filosofia che con la poetica. Una continuità notevole nella diffamazione anti-biblica unisce neoplatonici imperiali del secondo secolo ad antiplatonici tedeschi del diciannovesimo, ed entrambi con gli studiosi accademici del Gesù cosiddetto storico o pre-evangelico del tardo ventesimo secolo. In tutte le fasi di questa continuità, identici luoghi comuni prestano la loro forza di articolazione all’argomentazione (cioè che il giudaismo e il cristianesimo distorcono una qualche dottrina vera, e che noi dobbiamo considerarli come esempi di plagio di qualità inferiore, o che gli ebrei e i cristiani stessi agiscono in base al risentimento) e l’identico animus rende cieco colui che argomenta così alle sue proprie limitazioni e ai suoi pregiudizi. Ma tali autoinganni sembrerebbero inevitabili data la logica interna dell’accusa arbitraria, e soltanto colui che è senza peccato dovrebbe correre il rischio di scagliare le pietre, anche quando le pietre sono soltanto verbali.

In virtù della sua natura paradossale, naturalmente, la diffamazione fa invariabilmente di ciò che desidera soffocare o espellere il centro della propria attenzione; un insensato gettar fango assegna importanza precisamente là dove desidera negare importanza; e il diffamatore denuncia inevitabilmente la debolezza (la sua propria) che desidera mascherare sotto l'apparenza di forza. La diffamazione non può sfuggire al marchio di un ingaggio in una competizione, e una competizione implica sempre un concorrente, un rivale, la cui presenza richiede attenzione e sembra imporre l'azione. Alla radice della diffamazione, che porta tutti i contrassegni di una procedura rituale, si trova il risentimento: l'intuizione che si sia manifestata l’intrusione di un proprio pari, la cui presenza interrompe una stabilità esistente ed in questo modo minaccia un conflitto.

"Questa città non è abbastanza grande per tutti e due" è la formulazione soggettiva usuale del problema, ed in essa lo sfidante ammette la sua rivalità nei confronti di quello che la sua retorica vorrebbe ridurre, in anticipo, alla capitolazione. Nella misura in cui qualsiasi espulsione di un intruso richiede la cooperazione dei propri vicini, tuttavia, l'espressione retorica del problema deve tutto d'un tratto porre in cattiva luce l’intruso stesso, e reclutare una massa che aiuti a cacciarlo fuori, non essendo garantita la capitolazione automatica del rivale. L'espressione pubblica, intesa a persuadere, deve quindi celare l'uguaglianza implicita dell’accusatore e del difensore divulgata involontariamente dall'intuizione, di modo che ciò che si dice alla fine, nell’ammassamento che prelude al linciaggio, è che " qui non c’è posto per i furfanti", un sentimento con cui è difficile non essere d'accordo.

Questa transizione dalla frase che un soggetto prepara silenziosamente per sé a quella che rivolge ai suoi compagni di linciaggio può, inoltre, essere analizzata ulteriormente, perché la seconda frase, quella circa i furfanti, non è una frase affatto, ma un tipo di ostensivo. Furfante non è una categoria esplicativa; è, piuttosto, un puro additare-con-disgusto, o allarme, il cui seguito pragmatico è conosciuto quasi istintivamente dalla massa linciatoria, che può porlo in atto abbastanza prontamente, ogni qual volta se ne presenti il bisogno. Diffamazione, come risulta, è semplicemente un’altra parola per mito, proprio come il mito a sua volta serve da sinonimo per accusa. Un mito è un’accusa. Si consideri, per esempio, Edipo, quel potente intruso, che assassina suo padre e dorme con la propria madre e porta la peste a Tebe: Tiresia e Creonte entrambi inizialmente argomentano, in due stichomythiai paradigmatiche con il loro avversario, che "questa città non è abbastanza grande per tutti e due". Tuttavia infine si scende alla pretesa riduttiva che Edipo sia un furfante (patricida, incestuoso, portatore di peste, ecc.). Neppure lo stesso Edipo, a quel punto, può dissentire dalla solidarietà richiesta dal ruolo di pharmakós: "Portate via, amici miei, me, il grandemente miserabile,/ Il più maledetto, che anche Dio odia, / Sopra tutti gli uomini sulla terra", come gli fa dire Sofocle. Similmente, in Shakespeare, Bruto riguardo a Cesare deve prima "pensarlo come un uovo di serpente,/ Che, schiuso, crescerebbe malefico come la sua stirpe", dopodiché decide di "ucciderlo nel guscio". Bruto grida serpente! E un serpente è, naturalmente, un furfante.

L’accusa di furfanteria, se mi è concesso di chiamarla così, è mossa in forma esplicita, contro i cristiani e gli ebrei insieme, nel Libro IV del celsiano Alethes Logos, o Vera dottrina o Discorso vero, che critica principalmente il cristianesimo, ma anche il giudaismo, attribuito ad un autore filosoficamente eclettico (ora platonico, ora epicureo) degli anni ottanta del secondo secolo. Scrive Celso: "La stirpe dei Giudei e dei Cristiani si può paragonare a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolino fangoso: che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole" [traduzione di G. Lanata, Adelphi, Milano 1991, p.96]. Data la caratterizzazione sociale e filosofica dei cristiani che Celso ha dispiegato nelle prime tre parti del suo discorso, il suo improvviso grido di verme! non ci sorprende. La fede dei cristiani corrisponde ad una mera "speranza da vermi" [p.108], secondo Celso. E ai seguaci di Cristo egli applica la qualificazione di simili a vermi [p.96], stimandoli ancora più detestabili degli ebrei, che definisce semplici "schiavi fuggiti dall’Egitto" [ibidem]. I cristiani, secondo il ritratto che ne dà Celso, dimorano negli spazi sotterranei del mondo civile, proprio come i lombrichi vivono nel suolo, sotto una pietra, una vita segreta e nascosta. Il miasma cristiano minaccia di contaminare il più ampio ambiente in cui esso si insinua.

Nel Libro VI del Discorso vero, Celso richiama per gli adoratori di Gesù la figura dell’uomo che "si umilia in modo indecoroso e sciagurato, gettandosi a terra in ginocchio e prosternandosi, vestendosi di cenci e cospargendosi di cenere" [p.120]. Nella sua ricerca della metafora diffamante più appropriata, Celso scarta le formiche e i pipistrelli, scegliendo infine i vermi che scavano e strisciano. Altrove, invero, Celso riconosce alle fortunate formiche coscienza civica e scienza. Si sa bene, fa notare, come le formiche abbiano un’intelligenza pienamente sviluppata, e pare che esse abbiano parimenti una nozione chiaramente definita di certe leggi universali, e persino una voce per rendere noto alle altre appartenenti alla loro specie quello che hanno imparato [p.104]. Paragonate al popolo dei Vangeli, le formiche si rivelano una forma di vita superiore, dotata delle stesse virtù che sono proprie della vera cittadinanza imperiale, il cui ordine sociale Gesù e i suoi seguaci minacciano di corrodere dall’interno. Il pensiero che le formiche abbiano parte in una conoscenza delle "leggi universali" ne fa persino un tipo di cittadinanza platonica ideale, e così l’ordine del formicaio contrasta positivamente con il cieco e degradato scavare dei vermi. L’animosità di Celso contro i cristiani è naturalmente grande, e la sua altezzosità lo è altrettanto, e mentre il verme, disgustoso e non senziente, è la sua metafora centrale per trattare di loro, la sua ira cerca altre figure, egualmente miasmatiche.

Un catalogo renderà un’idea dell’ampiezza della diffamazione che Celso dispiega intorno alla sua centrale ed essenziale immagine vermicolare. Celso dipinge i Cristiani come "feccia"; "nient’altro che sterco"; "di classe infima, volgari, ignoranti"; pieni di "ipocrisia"; "creduloni"; "ridicolmente fuorviati"; "chiacchieroni scemi"; gente che abbandona la "naturale inclinazione" a credere negli dèi tradizionali; "totalmente legati alle preoccupazioni per il loro corpo"; escogitatori di "una dottrina di eterna ricompensa e punizione assolutamente assurda"; "ciarlatani che promettono di riportare la salute ai corpi malati"; persone che "si detestano a vicenda profondamente" e "si denigrano costantemente l’un l’altra con le più basse forme di offesa"; gente che "si rifiuta ai propri doveri religiosi, buttandosi a capofitto ad offendere l’imperatore e i governatori e richiamando la loro collera"; e, finalmente, gente che si comporta come se disponesse di qualche profonda rivelazione in grado di conferirle il diritto di abbandonare amici e connazionali col pretesto che ha conseguito un più alto livello di devozione.

Celso presenta anche una critica di Gesù, che a suo modo di vedere è un "semplice uomo"; "arrogante"; "un malfattore"; "uno stregone"; "un cospiratore"; il figlio di una donna "colpevole di adulterio"; un "cosiddetto salvatore"; "un codardo e un mentitore"; "un carattere infimo"; e un "promotore di insurrezione": la storia della sua vita non è null’altro che "una mostruosa finzione".

Quanto all’unione del popolo cristiano e del suo dubbio Dio nell’istituzione della Chiesa, Celso la mette così:

"I Cristiani stringono tra loro in segreto dei patti che violano le istituzioni tradizionali. (…) La cosiddetta agape dei Cristiani nasce dal pericolo comune, e vale assai più dei giuramenti. (…) I Cristiani praticano e insegnano le loro opinioni in segreto. Ed agiscono così per buoni motivi, in quanto cercano di stornare la pena di morte che incombe su di loro" [p.61].

Celso vede il cristianesimo, di conseguenza, come una manifesta e detestabile specie di fuga interna dall’ordine e dalla realtà del grande mondo civile, così che si potrebbero facilmente trovare i suoi aderenti furtivamente appostati negli angoli oscuri della casa del mondo, simili a roditori o a vermi. Reticente in modo cospiratorio, il cristianesimo fa pensare ad una effettiva quinta colonna, e di fatto esso è già caduto sotto proscrizione legale da parte di un editto di Nerone, a seguito dell’incendio che ha distrutto alcuni quartieri di Roma, incendio del quale l’imperatore ha attribuito la responsabilità a giudei, cristiani, e altri residenti stranieri. L’espressione celsiana "sentenza di morte" in ogni caso sembra implicare che i cristiani, al tempo in cui scriveva Celso, fossero predestinati alla persecuzione, se non erano proprio allora l’oggetto di una vessazione diffusa e organizzata. Sappiamo che, verso la fine del secondo secolo, l’atteggiamento ufficiale verso il cristianesimo si fece più duro: persino sotto la stoica indifferenza di Marco Aurelio alcune significative persecuzioni avvennero nelle regioni di Cartagine e di Lione (rispettivamente nel 177 e nel 180 d.C), facendo presagire la repressione universale e variamente articolata della prima metà del terzo secolo, il cui momento più importante fu l’editto di Decio (promulgato intorno al 240). La maggior parte dei martiri cadde nel terzo secolo.

Nell’ottica di Celso, la continua presenza di un proletariato sovversivo costituisce per l’ordine imperiale una minaccia, non tanto di un’azione diretta o immediata, quanto di uno sconvolgimento che avviene per il tramite più pauroso di una mimesi strisciante, poiché, come dice Celso, "se ognuno adottasse l’atteggiamento cristiano [di ostilità verso le forme rituali della vita imperiale] non ci sarebbe alcun imperio della legge: l’autorità legittima sarebbe abbandonata [e] la realtà del mondo ritornerebbe al caos e finirebbe nelle mani dei barbari selvaggi e senza legge". E il pericolo non è lontano. Celso intende il cristianesimo come un movimento di insurrezione ansioso di aumentare i propri effettivi attraverso un reclutamento attivo e di moltiplicare mediante questo il numero degli scontenti che accusano il sistema dominante. "Radicata nelle classi inferiori," scrive Celso, "questa religione continua a diffondersi nel volgo: o piuttosto si potrebbe dire che essa si diffonde in forza della volgarità e della rozzezza culturale dei suoi aderenti". Secondo una variante teologica della legge di Gresham, la fede cattiva scaccia la buona, e una coniazione teologica svilita minaccia l’ecumene. Il nostro critico del cristianesimo rinfaccia ai cristiani il fatto che essi pescano tra gli incolti e i marginali, così che "dovunque si trova un gruppo di ragazzi adolescenti, una massa di schiavi, o una compagnia di scervellati, là ci saranno anche i maestri cristiani", a svolgere il loro traffico di subornazione e di inganno su coloro che non hanno la capacità di smascherarlo. Questi maestri, inoltre, sono scopertamente maliziosi: essi sfacciatamente proclamano che "loro soltanto sanno come si deve vivere; e se i ragazzi si lasceranno convincere, saranno contenti loro e renderanno felice la loro casa" [p.88]. E’ Celso, naturalmente, che conosce il giusto modo di vivere, perché la vera dottrina è la sua. Ancora una volta, ci troviamo ad essere testimoni di una sottile stichomythia, uno scontro tra rivali.

Celso lamenta che i cristiani non solo confondano i ragazzi raccontando loro storie assurde e accampando pretese eccentriche, ma attivamente li facciano rivoltare contro i loro genitori, obbligandoli a mantenere il segreto nelle loro case circa la loro nuova credenza, persino quando disprezzano in silenzio i culti tradizionali della dimora paterna; i cristiani giungono a incoraggiare i ragazzi a ribellarsi contro i propri genitori in modo attivo, il che, in un’ottica romana, rappresenta la più ignobile rottura del più sacro di tutti i vincoli sociali. Qui ancora, per Celso, i cristiani ricoprono il ruolo di corruttori interni che agiscono sul corpo sociale da dentro, distruggendolo proprio come dei vermi consumano un organo infetto o, alla fine, un cadavere. Robin Lane Fox ci ricorda che "veniamo a sapere di cristiani in posizioni sociali più eminenti [di quelle occupate in precedenza] negli anni successivi al 180, e pare che vi sia stato un aumento del numero di tali persone a Roma, Cartagine e Alessandria" (Pagans and Christians 272). Così, a dispetto della loro riservatezza, i seguaci di Gesù debbono essere apparsi a Celso come gente che lancia una sfida deliberata e sempre più forte all’ordine costituito. La parola ribelle si addice loro secondo il modo rozzo che è loro proprio, poiché essi rifiutano di riconoscere i riti e i doveri comuni, e in questo senso costituiscono un pericolo del tipo di quello che si vede rappresentato negli esempi storici della ribellione degli schiavi di Spartaco e della congiura di Catilina. L’evidenza stessa della evidente secessione interna dei cristiani, unita al loro baldanzoso reclutamento, costituisce un illecito che può facilmente diventare un’enormità, trascinando l’ordine nel caos e aprendo la strada ai barbari.

 Trovo interessante, sul piano argomentativo in quanto opposto a quello dispregiativo della requisitoria di Celso contro il cristianesimo, che Peter Brown, nei suoi scritti sul mondo tardoantico, si riferisca al periodo nel quale troviamo Celso come ad un’età di philotimia, o "ambizione", la quale nello stesso tempo riconosce nell’ambizione stessa uno dei suoi più grandi problemi. Citando uno dei discorsi del protagonista della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, Brown sottolinea che la gente del secondo e terzo secolo avvertiva come l’equilibrio del suo ordine ecumenico si mantenesse precariamente, e come la più grande minaccia alla sua stabilità provenisse dalle forze stesse che l’avevano generata: zelo, spirito di competizione, brama di conquista e ostentazione di orgoglio. Gli atteggiamenti arcaizzanti o conservatori che gli storici associano con l’età antoniniana, scrive Brown, germinarono dal complesso di strumenti sociali miranti ad esercitare il controllo su "le destrutturanti forze della philotimia" (The Making of Late Antiquity 34) emersa con la solidificazione della società del mondo romano operata da Antonino. In questo modo il "modello di parità sociale" sviluppato dalle élites antoniniane per mantenere la coesione sociale corrispondeva a "fissare dei limiti verso l’alto alle aspirazioni degli individui" (p.35), estesi non soltanto all’ambizione economica e politica, ma anche alla capacità di farsi valere sul piano della teologia. Un’eccessiva santità, secondo l’interpretazione di Brown, può essere tanto destabilizzante quanto un’eccessiva ricchezza:

  "Uomini presi da una costante competizione entro un ‘modello di parità’ sicuramente non consentiranno ad alcuno dei pari grado di attingere abbondantemente a fonti di potere e prestigio sopra le quali essi non esercitano alcun controllo. Per essere accettabile, il richiamarsi all’altro mondo come fonte di status speciale in questo mondo deve essere tenuto entro limiti strettamente convenzionali. Plutarco sapeva di cosa stava parlando quando rigettava coloro che al fine di ‘essere stimati favoriti del cielo e fuori del comune, rivestono ciò che fanno del carattere della santità’(p.35). 

Il sincretismo, con chiarezza, nella spiegazione di Brown acquista una nuova comprensibilità. Pragmaticamente legati al relativismo nella sfera religiosa, politici, sacerdoti ed intellettuali dovevano insistere sul concetto che un dio era equivalente ad un altro, eccetto nel caso che i suoi fedeli si ostinassero a dire che esso era migliore di ogni altro, o perfino il Dio unico, a detrimento degli altri. Per almeno un imperatore, Alessandro Severo (222-235) questo fu materia di politica cosciente: "Nella sua cappella domestica", riferisce Gibbon, "pose statue di Abramo, Orfeo, Apollonio e Cristo, come onore dovuto a quei venerabili saggi che avevano istruito l’umanità nei diversi modi di indirizzare l’omaggio alla divinità suprema e universale" (in Toynbee [V 549]). E tuttavia, come il multiculturalismo moderno, il sincretismo di tipo severiano potrebbe essere stato soltanto un pezzo di propaganda ufficiale, o al massimo una fiacca posa delle élites, dal momento che gli aderenti a molti culti rimasero chiusi nella loro particolare prospettiva. Quelli che veneravano Abramo non veneravano anche Orfeo e Apollo, né i seguaci di Cristo onoravano anche Apollonio, che, stando alle parole di Filostrato, per essere un saggio era alquanto sensibile alla rivalità.

In un’età di ambizione minacciata dall’impulso distruttivo derivante dalla sua stessa caratteristica principale, la philotimia, il relativismo epistemologico non opera tanto come una spiegazione del pluralismo religioso di fatto esistente nell’impero, quanto piuttosto come una prescrizione dogmatica che previene il coagularsi di un consenso troppo grande intorno a una particolare divinità o ad una particolare rivelazione. L’autorità che sta dietro la tolleranza di tutti i culti è, dopo tutto, il Faustrecht dell’imperatore. Celso mantiene una posizione di convinto relativista (se ciò non è una contraddizione in termini) e parte della sua animosità contro il cristianesimo coinvolge proprio le pretese rigidamente esclusive – e pertanto non relativistiche – del cristianesimo. Su di un piano, questo concerne il particolarismo delle scritture giudaico-cristiane. Esiste una sorta di philosophia perennis et universalis i cui tanto numerosi sviluppi secondari e locali costituiscono quella pletora di dottrine particolari caratteristica del mondo ecumenico noto a Celso. O così pensa Celso. Quindi, ad esempio, la storia mosaica è solo una tra molte, e quelli che si sforzano di universalizzarla, o di contraffarla parzialmente col trattare i libri di Mosè in modo allegorico [per quanto più saggi di coloro che prendono simili descrizioni alla lettera] sono condotti fuori strada e ingannati. All’"una tra molte" non deve essere consentito di arrogarsi l’innalzamento ad "unica" indivisa e dominante, in paragone alla quale le altre crollerebbero nell’insignificanza: ciò eserciterebbe un’eccessiva pressione sul "modello di parità" browniano e solleciterebbe una mimesi conflittuale incontrollabile.

Ancora, dice Celso, se noi leggessimo la letteratura di un solo popolo, concluderemmo che vi è stato un solo diluvio, una sola conflagrazione, una sola rottura dell’ordine del creato. Al contrario, "sempre, dall’inizio dei secoli, vi sono state molte conflagrazioni e molte inondazioni; tra i diluvi, il più recente è quello verificatosi or non è molto, ai tempi di Deucalione; tra le conflagrazioni, quella dei tempi di Fetonte" [p.64]. Sia i giudei che i cristiani, allora, suscitano la giusta ira delle altre genti con l’insistere sul valore unico delle loro peculiari storie sopra tutte le altre, sconvolgendo la parità che rende il diluvio greco tanto significativo nel suo campo quanto lo sono nel loro quello babilonese o quello egiziano. Allo stesso modo, i miracoli di Esculapio dovrebbero essere onorati tanto quanto quelli di Gesù, se ne ha realmente fatto qualcuno, ma i cristiani ignorano capricciosamente quelli di Esculapio, propagandando quelli di Gesù come se non ce ne fossero altri. E neppure la resurrezione di Gesù, se c’è stata, distingue il Cristo da Zalmoxis, Pitagora, Rampsinito, Orfeo, Protesilao, Eracle o Teseo [p.79], perché anche ciascuno di questi ha beneficiato di una resurrezione dai morti o almeno lo ha affermato. Celso sostiene che l’universale diffusione di temi fondamentali nel mito e nella teologia è spiegata dalla loro complessiva fondamentale derivazione da una fonte antica e primordiale, che può essere colta dietro la loro somiglianza nella molteplicità.

Ma il relativismo sincretistico celsiano non si arresta al livello di obiezione ad un tentativo di monopolio narrativo (nel quale una storia vuol prevalere sulle altre); esso include altresì la sfera delle percezioni morali. Infine, esso entrerà nelle profondità dell’epistemologia e dell’ontologia.

Mi si consenta di esaminare il problema della percezione morale e del cristianesimo entro l’argomentazione celsiana. E’ qui che Celso comincia a suonare come un relativista moderno, o addirittura contemporaneo, o come uno dei nostri sostenitori del rispetto obbligatorio nei confronti di tutto e di qualsiasi cosa. Celso prende nota dell’asserzione cristiana – nel suo pensiero altamente contro-intuitiva – che gli uomini vivono in una crescente marea di male. In quanto il mondo deriva da una singola istanza di creazione e non può subire alterazione, nessuna parte di esso, materiale o morale che sia, può crescere o decrescere rispetto alle altre. Pertanto, argomenta Celso, c’è una specie di arroganza nell’assunto cristiano che il male stia crescendo. "Anche se una cosa ti sembra cattiva, non per questo consta che sia cattiva: perché tu non sai cosa è utile a te, o a un altro, o a tutto"[p.101].

L’accusa è parallela a quella, citata sopra, ai cristiani di assumere un ingiustificabile atteggiamento di maggiore santità rispetto ai loro concittadini. Nessuna conoscenza eccede il meramente parziale e qualunque pretenda di superarlo offende il decorum così necessario per il mantenimento dell’armonia tra le interpretazioni morali in reciproca competizione. Pur dipendendo dall’impero ed essendo gente dell’ordine più basso, che dovrebbe essere grata di non star peggio, i cristiani come li vede Celso esibiscono una rozza inclinazione ad un’hybris edipica. Brown ci ricorda che, in un’epoca di ambizione, "risentimenti silenziosi" tendevano ad accumularsi contro ogni individuo o gruppo il cui orientamento o comportamento "cozzasse contro l’ideale di relazioni spontanee, discrete e non manipolatorie corrente tra i suoi vicini". L’insistenza ciarliera dei cristiani su di una descrizione del bene e del male unica ed ortodossa inevitabilmente colpisce Celso come una turbolenza antifilosofica davvero esasperante. Gli insegnamenti cristiani accumulano "assurdità" sopra "suggestioni insensate" sopra "favole molto stupide", in un modo aggressivo ed offensivo[vedi Libro III, passim]. Mentre Celso non si appella mai per nome alla categoria di superstizione propria della tarda antichità, egli nondimeno ne fa un uso implicito qui e in altri luoghi della sua tesi.

Origene definisce Celso un epicureo. Il termine superstitio ricorre in modo cospicuo nel poema epicureo di Lucrezio De rerum natura, ove si riferisce a rozze credenze, di carattere magico o sacrale, le quali impediscono l’esercizio della ragione e tengono gli uomini alla mercé di una tradizione priva di senso e spesso degradante. Nel Libro secondo del suo poema, per esempio, Lucrezio evoca quelli che chiama "i terrori della superstizione"; più avanti nello stesso libro egli si riferisce alla turpi religione. Ancora più avanti, nel Libro quinto, egli caratterizza la superstizione come il degradante prostrarsi al suolo con le palme protese davanti agli altari degli dèi, richiesto da quelli che egli vede come irrazionali culti della potenza. La superstizione è un errore circa la natura della realtà, e prostrarsi davanti a un errore equivale a rinunciare alla propria umanità. Ora l’ultimo di questi irati rifiuti trova un’eco nel Discorso vero, nell’immagine celsiana del cristiano che si schiaccia nel fango come un verme, una figura su cui ho già richiamato l’attenzione. Brown, dal canto suo, definisce la nozione antoniniana di superstizione come rivolta non all’intensità con cui un uomo crede, quanto piuttosto alla presenza o alla mancanza di raffinatezza nella sua espressione di fede. Così, secondo Brown, l’uomo superstizioso era come uno stregone del tipo vistoso dipinto da Luciano nelle sue satire; e un uomo del genere seguiva la propria philotymia senza riserve al fine di attrarre clienti alla sua causa e accumulare il potere di un demagogo. Tale mala condotta scandalizzava la pietà antoniniana, in parte perché essa replicava le effettive strutture di potere dell'impero in modo troppo scoperto, suscitando quindi la consapevolezza del risentimento in modo generalizzato, e provocando il conflitto che inevitabilmente scaturisce dal risentimento.

Celso enfatizza sia la stregoneria, quindi la superstizione, dei cristiani che il loro frazionismo conflittuale interno. "I Cristiani sembrano dotati di poteri ottenuti invocando i nomi di taluni demoni. Anche Gesù riuscì a compiere i miracoli a lui attribuiti in forza di arti magiche" [p.62], scrive Celso; e mentre gli uomini che egli chiama "i guaritori cristiani" hanno davvero la capacità di produrre effetti suggestivi, "sono cose analoghe a quelle compiute dagli stregoni, che ne promettono di più mirabolanti, e a quelle compiute dai discepoli degli egiziani che per pochi soldi svendono in mezzo alle piazze gli arcani della loro scienza" [p.69]. Sregolate esibizioni di questo genere galvanizzano gli illetterati e li spingono non semplicemente contro la società nel suo insieme ma anche gli uni contro gli altri. L’ostentazione conduce alla mimesi, e questa a sua volta al conflitto. Celso sa che tra coloro che si denominano cristiani si possono trovare molte sette o culti profondamente separati, molti dei quali si guardano a vicenda con intensa ostilità.

"E nessuno pensi che io ignori che alcuni di loro sono disposti ad ammettere di avere lo stesso Dio dei Giudei, mentre altri pensano di averne un altro, a cui il primo è contrario: e il figlio sarebbe venuto da lui. So che ne esiste anche una terza specie, formata da quelli che chiamano alcuni ‘psichici’, ed altri ‘pneumatici’; e che ve ne sono taluni che si proclamano Gnostici, talaltri che accettano Gesù, ma vogliono continuare a vivere secondo la legge giudaica come la maggioranza dei Giudei; e che vi sono anche dei Sibillisti. So poi che vi sono dei Simoniani i quali, per il fatto di venerare Elena o Eleno come maestro, vengono chiamati Eleniani; che vi sono dei Marcelliani discepoli di Marcellina, dei Carpocraziani discepoli di Salomè, e altri discepoli di Mariamme o ancora di Marta; e dei Marcioniti, che riconoscono come capo Marcione" [p.114-115].

L’affronto, per Celso, nasce meno dal mero accumularsi di sette in competizione sotto il comune nome di cristiani che dal fatto che, al suo interno, questa molteplicità riproduce la stessa intollerante separazione che tiene testardamente divisi i cristiani dai loro concittadini, operando così una frattura nell’edificio sociale. Celso riferisce che i cristiani hanno iniziato a condannarsi reciprocamente, cosicché, a dispetto del loro attaccamento al nome che hanno in comune, sono in disaccordo su molte questioni. Il conflitto interno acquista quindi, nella critica di Celso, pericolosità, tal quale lo scoppio di un’epidemia che potrebbe facilmente diffondersi dall’oscurità delle conventicole cristiane al mondo intero. Tale mimesi è già in corso, perché Celso deve ricorrere ad espressioni quali "sistematica corruzione della verità" da parte dei cristiani, che egli vede come coloro che la pervertono: un’offesa che va a colpire la stessa base noetica dell’ordine ecumenico. Sia il diniego del relativismo teologico, in cui i cristiani insistono con il loro spirito anticivico, sia la loro ipocrita tendenza al frazionismo, minacciano di comunicare a chi sta loro vicino una confusione nel modo di percepire e comprendere le cose.

L’ostinazione dei cristiani inoltre rivela quello che Celso vede come il gioco di potere che sta dietro il loro comportamento apparentemente da sempliciotti. "Non è precisamente la specie di cosa", scrive Celso rispetto alla posizione dei cristiani secondo cui soltanto il loro Dio fa un bene genuino, "che ci aspetterebbe di sentire da un mago, da uno stregone che opera soltanto per il suo proprio guadagno e insegna che i maghi suoi rivali fanno i loro prodigi grazie al potere del male, mentre lui e lui solo rappresenta il potere del bene?". Ancora, è la petulanza e la brama di potere che sembra determinare le azioni del Dio cristiano, e per estensione dei cristiani stessi. Se la fastidiosa pretesa dei cristiani di possedere le uniche intuizioni corrette nella comune sfera del bene e del male viola quelle forme esteriori di convenienza cui il mondo antoniniano, secondo la descrizione che ne fa Brown, annette tanta importanza, d’altra parte la prontezza che dimostrano nel "mutilare" idee necessarie attacca l’ordine stabilito nella sua stessa sostanza noetica.

III

Fin qui mi sono dedicato a quello contro cui Celso si autodefinisce. Ma che dire circa le sue credenze positive, la sua dichiarata vera dottrina? Celso mantiene la visione platonica del divino. Dio è il Bene assoluto del Simposio o l’Intelligenza che sta oltre il Demiurgo del Timeo; Dio è il Logos simile al sole, nella cui luce tutte le cose diventano differenziate e intelligibili. Il letteralismo cristiano, sostituendo figure grossolane a concetti attentamente differenziati, svia ogni sottigliezza filosofica. "Come il sole illuminando tutte le altre cose mostra per primo se stesso, così avrebbe dovuto fare il figlio di Dio" [p.75]. Se i cristiani avessero insistito soltanto sul fatto che Gesù era il figlio di Dio, o piuttosto di un dio, non avrebbero oltrepassato i confini del mito tradizionale quanto a plausibilità o decoro.

La dottrina cristiana, tuttavia, confonde offensivamente i vocabolari del mito e della filosofia, e laddove la superstizione è una minaccia che può essere tenuta a bada solo dalla filosofia – un principio comune al platonismo e all’epicureismo, così che infine non fa differenza a quale dei due campi Celso appartenga – questo può essere interpretato solo come pronostico di un disastro epistemologico. "Ragionate in modo sofistico quando dite che il figlio di Dio è il logos stesso: ma pur annunciando che il logos è figlio di Dio presentate non un logos puro e santo, ma un uomo arrestato e crocifisso nel modo più ignominioso" [p.75]. Secondo Celso, la dottrina cristiana conduce ad una generale follia di credenze. I riti cristiani, come i Baccanali soppressi durante la repubblica, o come i più recenti ed egualmente turbativi riti di Cibele, eccitano i partecipanti fino alla frenesia con la musica dei flauti, mentre riempiono le loro orecchie con impossibili stupidità e idee seduttrici. Discutendo l’origine della dottrina cristiana nel mito giudaico (volendo dimostrare che il cristianesimo non è originale), Celso cita quella che per lui è l’assurdità del serpente nel giardino "che si dimostra superiore al volere di Dio". L’intento di Celso sembra essere quello di mostrare che i cristiani stessi sono come serpenti, oltre ad essere simili a vermi, in ciò che essi seducono la gente, e specialmente le donne, a credenze false e distruttive.

Ed è proprio il suo platonismo, che deriva direttamente dal Timeo, a spingere Celso alla sua obiezione filosofica centrale alla dottrina cristiana. Nessun Dio-logos potrebbe esser mai disceso dall’Empireo entro la grossolanità del mondo sublunare:

"Dio è buono, bello, felice e nello stato più bello e più buono. Se scende davvero sulla terra, e in mezzo agli uomini, deve subire un mutamento, e un mutamento dal bene al male, dal bello al brutto, dalla felicità all’infelicità, e dall’ottimo al pessimo. Ora, chi vorrebbe scegliere un mutamento del genere?" [p.95].

"Tutto proviene da Dio. Dio non proviene da nulla. Dio è inaccessibile al linguaggio e non può essere nominato, perché non sperimenta nulla che possa essere fissato con un nome. Dio è al di fuori di ogni esperienza passionale" [p.132].

Sostituendo il mutamento antropomorfico all’immutabilità filosofica, i cristiani dissolvono la categoria ontologica sulla quale si basa l’esistenza della civiltà. Derivare Gesù, tramite lo Spirito Santo, da Dio Padre; proiettare la divinità nella mondanità; assegnare attributi a ciò che non ne può ricevere; e infine assimilare la tranquilla contemplazione alla frenesia emotiva: tutto questo sovverte un logos concepito come un accordo metafisico per mezzo del quale le molte e distinte manifestazioni della philosophia perennis et universalis che si manifestano nel pullulante mondo imperiale possono essere riconciliate come differenti declinazioni di un’unica espressione antecedente. E’ da notare che tutti i comportamenti, pragmatici e noetici, che Celso condanna negli atti e nel pensiero dei cristiani corrispondono a classici crimini di sacrilegio. Essi sono profanazioni e adulterazioni. E’ da notare anche che per Celso il logos offeso dal rozzo pensiero cristiano funge da fondamento su cui sono state costruite le strutture della vita politica universale.

Come Prometeo allungò le sue mani furtive sul fuoco olimpico, così i cristiani hanno rapito il termine centrale della tradizione che Celso desidera sostenere e che deve perciò difendere. Appropriandosi di questo termine centrale e mutilandolo, i cristiani hanno replicato la vergognosa impresa di Odisseo che rubò il Palladio o di Crono che assalì il padre Urano con intento parricida. Ovviamente, i cristiani non possono realmente rubare il logos filosofico, che resta proprietà noetica dei filosofi; ma essi possono compiere qualcosa di molto peggiore se considerato nella prospettiva di una società ancora immersa in categorie sacrali, come è la società di Celso: possono raddoppiare il logos, marchiandolo in questo modo proprio col conflitto che si suppone esso debba differire. E’ questa azione di raddoppiamento che colpisce Celso come intollerabile e che, secondo il suo punto di vista, fa presagire un’enormità. Nelle sue diffamazioni così come nelle sue argomentazioni, Celso in realtà dice all’emergente doppio di quel logos filosofico del quale lui è portavoce: "questa città non è grande abbastanza per tutti e due". Egli sta tentando di bloccare una stichomythia sul nascere, ma naturalmente nessuno è in grado di farlo, perché quando si tenta si è già pienamente in mezzo alla stichomythia stessa.

Brown ha scritto del modo in cui le forme di accordo e di limitazione proprie della società antoniniana inibivano un’esplosione distruttiva della philotimia; egli ha anche sottolineato come il decorum tra i membri dell’élite di quella società servisse a mascherare l’effettivo dominio su tutte le componenti minori da parte di un’unica componente maggiore, segnatamente quella del Cesare regnante. Il controllo della philotimia richiedeva, in altre parole, da parte di tutti i membri del corpo sociale la tacita negazione del fatto che un modello primario di philotimia esisteva e che ognuno doveva automaticamente inginocchiarsi davanti ad esso; noi controlliamo le nostre, per così dire, affinché l’imperatore possa esercitare la sua. Il logos dei filosofi, lodato da Celso, è realmente in ultima istanza il logos dell’impero, e come tale è il logos coercitivo che tiene sotto controllo i diversi tramite l’intimidazione e la violenza. E’ un’istruttiva coincidenza che il Cesare regnante quando Celso scriveva la sua diatriba fosse probabilmente Marco Aurelio, lo stoico autore dei placidi Ricordi e pacificatore dei territori germanici. Che l’intento del Discorso vero fosse quello di persuadere l’imperatore filosofo? Marco Aurelio non promulgò alcun editto di persecuzione, che certamente gli sarebbe stato attribuito, ma espresse irritazione nei confronti dei cristiani. I suoi successori si mostrarono meno tolleranti rispetto alla fede emergente, forse in risposta alle tesi di Celso o ad altre analoghe. Commodo, figlio di Marco e suo immediato successore, fu un sociopatico che coglieva ogni pretesto per uccidere gente. La confutazione di Celso da parte di Origene, a metà del terzo secolo, indica che Celso a quel tempo era ancora assai letto, e che era piuttosto autorevole.

IV

Che per Celso la discussione come tale si riduca infine ad una questione di decorum è indicato dalla sottolineatura, posta all’inizio del Discorso vero, che i cristiani vivono sotto una condanna capitale momentaneamente procrastinata, e ancora dal suo palese appello alla violenza (che nessuno di essi viva fino a potersi sposare o procreare!) nella sezione conclusiva della sua trattazione. Il sillogismo comincia filosoficamente e termina nel Faustrecht:

"I sapienti greci affermano che i demoni hanno avuto in sorte l’anima umana fin dalla nascita".

"Oppure si vuol credere che un satrapo o un governatore o un generale o un procuratore del re di Persia o dell’imperatore romano, o magari anche i titolari di cariche o uffici o servizi meno importanti, abbiano il potere di arrecare danni gravi quando sono trascurati [come i cristiani trascurano gli dèi], mentre i satrapi e i ministri dell’aria e della terra ne farebbero solo di lievi, se venissero oltraggiati [come fa la nuova setta]?" [p.151-152].

Celso, che sembra possedere una valida competenza retorica, è attento a sovrapporre parzialmente le sue categorie. Ciò che è insidioso nel passo appena citato è il modo in cui esso rende ambigua la distinzione tra poteri celesti e poteri terreni. In pratica, non c’è alcuna distinzione. Celso insiste sul concetto che, dopo tutto, l’imperatore stesso è un dio, e ciò che si riceve nella vita, lo si riceve da lui. In un mondo simile, la forza è diritto nel modo del post hoc ergo propter hoc: così "quelli che hanno torturato e punito il tuo Dio in persona non hanno subito alcuna conseguenza di queste azioni nemmeno in seguito, nel corso di tutta la loro vita" dice Celso rivolgendosi direttamente ai cristiani [p.152]. La dimostrazione è pragmatica, e la teoria segue i pragmata. I cristiani asseriscono, dice Celso, che il loro Dio ha sofferto umiliazione e tortura perché lo ha voluto; ma sarebbe stato altrettanto agevole asserire, e davvero è cosa più plausibile, che furono gli dèi tradizionali, non Gesù stesso, a volere l’arresto e l’esecuzione di quel villano rivestito che egli era. A considerare le cose con obiettività, risulta evidente come gli antichi dèi siano molto più efficienti nel punire i blasfemi di quel che è il dio dei cristiani, e come quelli che offendono i primi siano solitamente presi e puniti. Infine Celso rivela la realtà brutale che i cristiani debbono assimilare se non vogliono patire le conseguenze del loro rifiuto:

"Se disdegnano di onorare come si conviene chi presiede alle attività della vita di tutti i giorni, allora non raggiungano l’età virile, non prendano moglie, non allevino figli, non facciano nient’altro nella vita, ma se ne vadano da qui a tutta velocità senza lasciarsi dietro neanche un discendente, di modo che una razza del genere scompaia totalmente dalla faccia della terra. Se invece prenderanno moglie, faranno dei figli, mangeranno i frutti degli alberi, prenderanno parte alle cose della vita e sopporteranno i mali che ci sono imposti […], allora dovranno tributare il debito rispetto a chi è stato incaricato di queste cose, e prestare alla vita tutti i servizi dovuti finché non si siano liberati dalle catene. Perché è ingiusto che chi è messo a parte di ciò che gli dèi possiedono non paghi loro alcun tributo" [p.156].

Celso qui ingiunge: smettete di differenziarvi da tutti gli altri in maniera così appariscente; ponete fine al vostro sdoppiamento della società esistente, pericoloso perché inevitabilmente conflittuale, e simboleggiato dal vostro sdoppiamento di quel termine-chiave della società, "Logos"; e fatelo con l’imitare, almeno a livello verbale, le forme costituite che significano accordo e subordinazione. Per giunta, fatelo, o andrete incontro alla decisa disapprovazione della comunità, con un esito funesto. Nel richiedere simultaneamente ai cristiani di imitare la norma sociale e di smettere di imitare la norma sociale, il Discorso vero espone il grande limite cognitivo del pensiero antico, l’incapacità di comprendere la mimesi in un modo determinato, e il conseguente imprigionamento del pensatore entro un sistema di violenza coercitiva del tipo che René Girard ha individuato come meccanismo del capro espiatorio.

Dovrò soffermarmi su ciò che Girard intende come "meccanismo del capro espiatorio", ma posso iniziare col richiamare l’attenzione sul fatto che i cristiani di Celso sono un capro espiatorio, nel senso che è comunemente inteso, e in un modo che è reso chiaro dalla discussione browniana della philotimia.

La tesi celsiana si riduce a questo: i molti diversi popoli danno al presunto unico Dio i loro nomi, molti e in concorrenza tra loro, e ci sono molti culti entro l’impero; tutti sono potenzialmente in conflitto tra loro, a meno che non si trovi un Logos, un’equivocazione retorica, che li possa riconciliare nel concetto della loro equivalenza. Nondimeno, la philotimia intrinseca a ciascuno permane ed è fonte di pericolo. Quella stessa philotimia potenzialmente esplosiva può essere tuttavia resa produttiva incanalandola, e lo si può fare attraverso l’evocazione sulla scena sociale di un vistoso singolo culto che all’improvviso si vanta della propria superiorità su tutti gli altri, mentre è dimostrabile, in riferimento a quanto tutti sanno, la sua inferiorità nei loro confronti. I culti troveranno una spinta all’unità attraverso la loro comune ostilità al cristianesimo. La diffamazione celsiana del cristianesimo ci consente di connettere questa strategia filosofica e sociale ad una linea di pratiche sacre fondamentali, le cui radici sono preistoriche. Poiché nel caratterizzare i cristiani come un’infestazione, come stregoni, avvelenatori, spogliatori di tombe, ecc., Celso fa uso di un vocabolario primordiale di esecrazione che, nel mito e nel rituale, invariabilmente anticipa un’espulsione o un atto sacrificale.

Celso giunge ad insinuare che Gesù fosse brutto, una caratteristica tipicamente attribuita a coloro che sono predisposti ad essere sacrificati. Invero, oggi si potrebbe dire che il Discorso vero abbia posto le basi teoriche per le persecuzioni del terzo secolo, notevoli anche se non compiutamente di massa, proprio come il Mein Kampf ha posto le basi teoriche per l’Olocausto, e proprio come i voluminosi scritti di Lenin posero le basi teoriche per lo sterminio dei kulaki. Un capro espiatorio, secondo Girard, è un altro interno, pre-differenziato, scelto arbitrariamente, la cui espulsione o immolazione serve in una società a polarizzare il conflitto generale e a ri-stabilirla come solidarietà. Nei casi in cui la rottura che necessita di essere ricomposta deriva da uno scontro di parti rappresentate da agenti chiaramente individuabili, o doppi, è probabile che uno dei doppi diventi il capro espiatorio. (Se non Tiresia o Creonte, allora Edipo; se non Cesare, allora Pompeo). Paradossalmente, se lo si esamina dall’esterno del modo di pensare sacrificale che lo condanna, chi è vittima appare non come estraneo a quelli che lo immolano, ma come loro simile. L’intento della diffamazione, o del mito considerato come atto di accusa, è quello di nascondere la somiglianza in modo tale da facilitare il linciaggio.

Si potrebbe sottolineare che persino quando pronuncia durissimi giudizi di condanna e minaccia un massacro, Celso non lascia trapelare alcuna consapevolezza del fatto che sta colpendo il suo stesso ideale di convivenza pacifica: a giudicare dal suo testo, gli deve essere sembrato di compiere un atto genuinamente filosofico e di pubblicare quello che gli appare come un sano commento sociale; egli giunge persino a sostenere di aver scritto il suo trattato per l’edificazione dei cristiani, affinché essi vedano il vero carattere delle dottrine che hanno scelto di seguire e la vera fonte delle loro opinioni. C’è qualche base epistemologica per dubitare della sincerità di quest’uomo? Non ne dubita neppure Origene, la cui lunga replica salva l’opera del suo antagonista per la posterità. Ma sempre Celso consiglia la violenza al fine di differire la violenza, come là dove sostiene che se ognuno imitasse i cristiani, ne seguirebbe rapidamente un generale collasso del mondo civile, e i barbari si manifesterebbero domani non solo alle porte ma entro le mura della città. Nel difendere la sua "vera dottrina" (Alethes Logos) che i cristiani vorrebbero distruggere, Celso ammette francamente che, come ha chiarito Platone, questo insegnamento "non può essere espresso in parole" (p.118).

Pertanto il trasferimento da parte dei cristiani della divinità nella figura corporea del falegname Gesù offende fortemente Celso, poiché quella "realtà ultima" che costituisce sia la divinità che il bene è, come Platone dice nel Fedro, senza colore, senza forma, intoccabile, e visibile solo alla mente che guida l’anima nella sua ricerca della vera conoscenza che inabita quella sfera (p.132). Sorprendentemente, il difensore della "vera dottrina" non ha alcuna dottrina; possiede soltanto una non specificabile teologia negativa e una pratica non-riflessiva, originata in modo semiconscio dalla pervasiva paura della philotimia, e consistente nel mantenimento dell’ordine sociale attraverso l’espulsione rituale di una vittima.

René Girard ha mostrato, in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), che è proprio a questo aspetto della vita antica che il cristianesimo risponde con il suo ritirarsi da essa. Il Logos dell’impero è il Logos della violenza; il Logos dei cristiani, invece, "è estraneo alla violenza", scrive Girard, e "dunque è un Logos sempre espulso… Il Logos giovanneo è quello che rivela la verità della violenza facendosi espellere" [trad. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983, p.337]. Uno degli aspetti del cristianesimo che Celso trova più sconcertanti è il suo rifiuto di ingaggiare una contesa mimetica esplicita con il suo rivale primo, l’ordine circostante, per dimostrare in ciò il suo valore. Celso trova stupefacente il fatto che Gesù, posto che fosse Dio o un dio, non abbia sbaragliato quelli che lo maltrattarono, perché questo è ciò che gli dèi fanno abitualmente. Così Celso usa l’ammonizione cristiana a "porgere l’altra guancia" contro il cristianesimo perché questo l’ha rubata dal Critone, nel cui contesto platonico egli l’approva; ma poi egli ignora l’avvertimento di Platone di non cercare vendetta, dato che sollecita una violenza generalizzata contro i cristiani in risposta ai loro supposti crimini. Qui insisto ancora sulla rimarchevole semicoscienza dei processi di pensiero celsiani. Platone è nel giusto quando condanna la vendetta e noi dovremmo vendicarci sui cristiani, (A) perché si sono appropriati di questa visione e (B) perché nel riformularla l’hanno fraintesa. Come direbbe Socrate, queste due affermazioni non si accordano bene affatto.

Celso semplicemente fa, nel suo stile metafisico, ciò che sin dalla preistoria hanno fatto gli abitanti di un luogo che entravano in allarme quando percepivano l’imminenza di una crisi, vale a dire che attiva il meccanismo del capro espiatorio; ma quei cristiani che egli relega ad una disgustosa condizione di vermi appaiono, d’altro canto, operare qualcosa di assai differente. Al tempo di Celso, questa differenza non è ancora pienamente differenziata (né è necessario che lo sia perché noi la comprendiamo come una differenza), e nelle loro battaglie interne di tipo settario i cristiani, come lo stesso Celso ci dice, possono essere tanto veementi quanto i loro oppressori; ma nondimeno si può individuare una particolarità emergente, specialmente dal ritrarsi dei cristiani dalla universale philotimia dell’ecumene. "Il loro accordo è tanto più sorprendente", scrive Celso, "in quanto non si potrebbe dimostrare che esso sia fondato su una qualche base valida; ma una base valida è costituita dallo spirito di rivolta, dai vantaggi che se ne possono trarre, e dal timore di ciò che proviene dall’esterno; questo rinsalda la loro fede" [p.84]. Dal momento che i convertiti sono ammessi, tuttavia, il ritiro cristiano in sé non può essere caratterizzato come espulsorio: esso si costituisce senza bisogno di mandar fuori una vittima.

Questo ritiro può, a sua volta, essere riferito a visioni presenti nella narrativa biblica, o monoteistica, che non sono presenti nella narrativa pagana, o politeistica, della quale la combinazione celsiana di discorso epicureo e platonico rappresenta una specie derivata. Come ha scritto Eric Gans in The End of Culture (1985), "ciò che la narrativa biblica realizza è l’incarnazione, nella figura del Dio monoteistico ‘geloso’, di un’immagine equilibrante del risentimento umano, proprio come le divinità più primitive costituiscono immagini similari del desiderio umano" (p.203). In questo senso, il ricorso celsiano al Dio dei filosofi è persino meno sensato come medicina per la stupidità cristiana, come la vedeva senza dubbio un pagano colto, di quel che sarebbe stata un’invocazione a Zeus. Come il giudaismo prima di esso, il cristianesimo sostituiva allo scandalo del relativismo per cui molti dèi erano gelosi l’uno dell’altro (poiché i seguaci dei loro culti erano in competizione reciproca de facto) la stabilità di un Dio unico che, per dirlo con le parole di Gans "è geloso dell’uomo ma non è mai invidioso degli altri dèi" (p.205).

All’obiezione che questa descrizione potrebbe essere appropriata al dio celsiano, posso di nuovo replicare ciò che ho appena notato, cioè che l’indifferenza platonica del Dio dei filosofi maschera l’umana-troppo umana gelosia del Cesare regnante e la sua securitas. Il Dio dei filosofi è un abbellimento. Processi-farsa e massacri devono averlo fatto capire spietatamente alle vittime e ai sopravvissuti. Fox fa un’osservazione importante quando scrive che l’espansione del cristianesimo "coincise con una particolare fase della storia dell’intrattenimento pubblico", vale a dire quella dello spettacolo gladiatorio, in occasione del quale i cristiani "erano gettati nelle arene delle città perché combattessero disarmati con gladiatori o tori, leopardi e temibili orsi" (Pagans and Christians 420). Fox aggiunge che "queste manifestazioni erano scelte e finanziate dai maggiorenti delle città" per orgoglio civico. Brown, nel suo studio, nota come l’incanalamento volontario della ricchezza privata verso manifestazioni pubbliche fosse uno dei modi di controllare la philotimia, e quindi di diffondere il risentimento. Il fatto che noi moderni proviamo automaticamente repulsione per l’attività gladiatoria, la persecuzione e l’esecuzione di massa è un segno che il nostro modo di pensare fondamentale differisce in modo decisivo da quello pagano tardoantico, e che esso deriva invece, almeno sotto questo aspetto, dal proletariato dell’età antoniniana piuttosto che dalla sua aristocrazia politica o intellettuale.

Tuttavia non si può certo dire la stessa cosa del pensiero modernistico – di tutto quel pensiero che tematizza la propria discontinuità rispetto alla tradizione giudeo-cristiana, o teologica, o "logocentrica". Se qualcosa di irriducibilmente anti-romano e anti-metafisico e anti-sacrale contrassegna il cristianesimo, allora qualcosa di irriducibilmente anti-cristiano contrassegna il modernismo, definito come io lo definisco qui, come una reazione, o perfino in una certa misura un ritorno atavico, una riattualizzazione del rancore celsiano: così Voltaire, nel capitolo sul cristianesimo del suo Dictionnaire (1764), dedica una cospicua pagina all’apocrifa contesa di levitazione tra Simon Mago e Pietro a Roma davanti all’imperatore Nerone e bonariamente registra le sottilissime dispute dottrinali dei primi secoli come se queste manifestassero l’essenza della nuova religione. Niente di strano, sembra dire implicitamente Voltaire, che Nerone abbia proscritto il nuovo culto. Chi non lo avrebbe fatto?

Eduard Gibbon, contemporaneo di Voltaire, la cui descrizione della cappella severiana ho citato precedentemente, rimprovera al sorgere del cristianesimo la caduta dell’impero. In effetti, rispetto ad Alessandro Severo, Gibbon riteneva che "la devozione filosofica di quell’imperatore si distingueva per un singolare e avventato rispetto per la religione cristiana" (citato in Toynbee, A Study of History [V 549]). Per Gibbon, come per Celso, un relativismo teologico sostenibile abbraccia Zeus, Orfeo e Apollonio, ma non Gesù, elemento alieno inaccettabile. Il pensiero modernistico muove altre accuse. "Il cristianesimo ci ha derubato del raccolto della cultura del mondo antico" scrive, un secolo dopo Gibbon, Nietzsche nell’Anticristo(1886); "la nascosta sete di vendetta, la piccola invidia diventa padrona! Ecco di colpo in alto tutto quanto è miserabile, sofferente di se stesso, funestato da cattivi sentimenti, l’intero mondo-da-ghetto dell’anima" [tr. F. Masini, Adelphi, Milano 1987, p.92] . Quanto sorprendentemente simile a quello di Celso è l’anticristianesimo di Nietzsche, o piuttosto quanto Celso assomiglia ad un Nietzsche anticipato! E’ quasi come se non vi fosse alcuno spazio di tempo dall’uno all’altro, così che essi insieme sono una sola voce che lancia la stessa accusa dalla stessa prospettiva d’ira! Nietzsche grida anche lui verme! non una sola volta ma due. "Il cristianesimo è una rivolta di tutto quanto striscia sul terreno contro ciò che possiede un’altezza: il Vangelo degli ‘umili’ rende umili e bassi…" [p.58]. Intanto Nietzsche dipinge i primi cristiani come una massa di "questo segreto verminaio che nella notte, nella nebbia e nell’ambiguità, si è avvicinato furtivamente a tutti gli individui e ha dissanguato ognuno di loro del fervore per le cose vere, dell’istinto in generale per quelle che sono realtà" [p.89], minando in questo modo la saldezza dell’ellenismo e privando la posterità dei frutti che l’ellenismo avrebbe partorito. Noi uomini del presente siamo ancora vittime dell’intrusione del cristianesimo, soffriamo ancora di quell’antico vampirismo, e Nietzsche, come Celso, ha la sua propria vera dottrina da offrire come rimedio. Per Nietzsche, come per Celso, il cristianesimo rappresenta la decadenza culturale fusa con un potere devastante di mimesi. Il cristianesimo seduce i sofferenti con il tema della compassione, esacerba la sofferenza e si sparge da una vittima vulnerabile a quella successiva: "Con la compassione aumenta e si moltiplica il dispendio di forza che già in sé la sofferenza arreca alla vita. La sofferenza stessa diventa contagiosa attraverso la compassione: a volte può essere raggiunto, con quest’ultima, un dispendio complessivo di vita e d’energia vitale che sta in una proporzione assurda con il quantum della causa" [p.7]. La compassione, dice Nietzsche, "intralcia in blocco la legge dello sviluppo" [ibidem] e sacrifica quel che è alto a quel che è basso, perché il meno atto sopravviva al migliore. La compassione, infine, "persuade al nulla" [p.8]. Prendendo le parti del paganesimo con l’assumere la superiore comprensione di Aristotele, Nietzsche nota che i Greci hanno capito la compassione come un veleno da concentrare ed espellere attraverso la terapia del dramma. Ancora come Celso, Nietzsche si ritrae davanti alla debolezza e alla follia di un dio - o piuttosto di un’immagine di dio - che disdegna di affermarsi come inequivocabile potentato. Ciò implica, inoltre, l'accettazione implicita da parte di Nietzsche d'una pluralità di dèi tribali, ciascuno sufficiente alla sua causa. "Un popolo che crede ancora in se stesso ha ancora il suo proprio Dio. In esso venera le condizioni per mezzo delle quali supera ogni ostacolo, le sue virtù; proietta il suo piacere di sé, il suo sentimento di potenza in un essere al quale possa rendere grazie per questo" [p.18]. Dio è figura della potenza di un popolo, non di quella morale ma di quella reale. Al cristianesimo si deve addebitare "la castrazione contronatura di un Dio in un Dio soltanto del bene" [ibidem], un’accusa parallela alla denuncia celsiana di un cristianesimo che mutila le idee corrette. In una modalità tipicamente nietzscheana, questo punto riaffiora come soggetto di una conclusione adirata:

"Il concetto cristiano di Dio – Dio come divinità degli infermi, Dio come ragno, Dio come spirito – è uno dei più corrotti concetti di Dio che siano mai stati raggiunti sulla terra; esso rappresenta forse, nello sviluppo discendente dei tipi di divinità, addirittura il grado dell’infimo livello. Dio degenerato fino a contraddire la vita, invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno ! In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’ "al di qua", di ogni menzogna dell’ "al di là"! In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla!…" [p.21].

D'altra parte, proprio entro lo svolgimento della sua calunnia, Nietzsche capisce spesso il cristianesimo con una chiarezza di vedute che nessuno dei suoi successori modernisti – ed oggi sono legione – può riprodurre. Nietzsche rigetta, per esempio, la nozione romantica, esemplificata da Renan, che fa di Gesù un genio-eroe in battaglia contro i suoi nemici. Impossibile, scrive Nietzsche, perché Gesù è precisamente colui che annuncia "che non esistono più contrasti" [p.41]. Ancora come Celso, Nietzsche identifica la chiave di volta della differenza cristiana nell’ ingiunzione di "non contrastare al male!" [p.38], che tuttavia considera come "una morbosa irritabilità" [ibidem], non una forza. L'effetto pernicioso di questo Logos peculiarmente cristiano, inoltre, è quello che con esso ed a causa di esso "ognuno è eguale all’altro" [ibidem], come Nietzsche dice amaramente.

Nel suo modo di trattare Gesù, Nietzsche a differenza di Celso comincia a mostrare una certa misura di ammirazione; a suo parere Gesù è realmente senza equivalenti e senza precedenti ("una nuova regola di vita, non una nuova fede") [p.44] nel suo ritrarsi da ogni precetto di ordine sociale e di proprietà vigente. Ma una volta stabilita l’unicità di Cristo, Nietzsche echeggia di nuovo Celso nella sua affermazione che, nel loro rozzo ed erroneo tentativo di comprendere il Maestro, gli Apostoli lo hanno completamente frainteso. La volgarità dei contemporanei di Gesù "deve avere in tutti i modi reso più rozzo il tipo: i primi discepoli in particolare, dovevano prima tradurre nella loro propria grossolanità un tale essere completamente immerso nei simboli e nell’inconcepibile per poter comprendere in generale qualche cosa – per essi il tipo cominciò a sussistere soltanto dopo essere stato plasmato unitariamente in forme più note" [p.40]. Celso aveva obiettato che mai un vero dio sarebbe "disceso" ad infangarsi nella materia. Nietzsche sostiene che il basso grado di intelligenza dei "primi discepoli" infangò un essere raro incarnandolo in figure dappoco e favole volgari, e trascinandolo in un’esistenza inadeguata alla sua essenza. Si noti ora come Nietzsche rimodelli il trascendentalismo genuinamente trascendentale del pensiero platonico entro un "trascendentalismo immanente" tutto suo, e come, nel far ciò, riproduca precisamente il pensiero greco per quello stesso modernismo che, in superficie, rigetta il pensiero greco.

Il fallimento intellettuale dei "primi discepoli" traccia la via per il cristianesimo come "la storia del fraintendimento, divenuto gradatamente sempre più grossolano, di un simbolismo originario" [p.47]. Qui ancora una volta la tesi di Nietzsche si sviluppa parallelamente a quella di Celso. In quest’ultima, si trova il rimprovero, che ho citato, al cristianesimo di dipendere da altri culti per il suo repertorio di temi, e di orientarsi nel contempo esclusivamente verso gli elementi più bassi della società. Cristo è semplicemente un plagio di figure di grande antichità come "Zalmoxis… Pitagora… Rampsinito… Orfeo… Protesilao… Eracle… o Teseo". Anche in Nietzsche leggiamo che il cristianesimo "ha ingurgitato le dottrine e i riti di tutti i culti sotterranei dell’imperium romanum", e, insieme con questi riti "l’assurdità di ogni sorta di ragione malata" [p.48]. Il cristianesimo si serve del magico perché il magico attrae "la feccia e schiuma dell’umanità" [p.57] che i primi capi cristiani hanno scelto di reclutare. Il Nuovo Testamento, protesta Nietzsche, non ci ha portato un "evangelo", ma un Dysangelium [p.50]. Entro questi limiti, in verità, Nietzsche può affermare che "in realtà non sono esistiti affatto dei cristiani" [p.51] tranne il primo ed unico , cioè Gesù stesso.

Ci potrebbe tuttavia essere un’eccezione, e questa sarebbe rappresentata – ironia che Nietzsche forza deliberatamente – Nietzsche stesso, perché se è corretta la sua scoperta circa lo status assolutamente non pareil del Redentore, allora in due millenni di storia Nietzsche soltanto è realmente penetrato fino al nocciolo del fenomeno Cristo. Man mano che si legge L’anticristo diventa sempre più chiaro che Nietzsche sta facendo di sé il doppio di Gesù; ed è proprio a questo punto della narrativa nietzscheana che l’autore-come-anti-Cristo comincia a tematizzare ciò che Nietzsche denomina, usando la parola francese, ressentiment. Risentimento, nell’uso che ne fa Nietzsche, si riferisce all’impressione soggettiva che la vita e l’essere stiano altrove rispetto all’io e appartengano a qualcun altro. In quanto uno non può strappare all’altro, appropriandosene, quella vita e quell’essere, si accontenta di denigrarlo. Il risentimento e la denigrazione servono al fine, per usare un’espressione moderna, di sentirsi bene con se stessi perfino quando tutti i fatti indicano che ci si dovrebbe sentire altrimenti. E’ importante notare come per Nietzsche la morte sulla croce rappresenti "la libertà, la superiorità su ogni sentimento di ressentiment" [p.53], così che la descrizione del Calvario come un trionfo tradisce completamente il significato dell’evento; ma nei cuori dei discepoli, che interpretarono il Calvario come la sconfitta di un movimento, secondo Nietzsche, nel periodo immediatamente seguente alla crocifissione "tornò nuovamente a galla proprio il sentimento meno evangelico, la vendetta" [ibidem]. Da quel momento in poi, fu il risentimento degli sconfitti, dei reietti, degli intoccabili che contro la forza dell’impero, personificata dai suoi dèi, nutrì e informò il cristianesimo, un termine che Nietzsche implicitamente pone tra virgolette. 

Questa linea di pensiero è ben conosciuta anche dalle argomentazioni della Genealogia della morale e di Al di là del bene e del male, dove Nietzsche espone la sua analisi della morale giudeo-cristiana come morale da schiavi, nella quale tutti i valori dominanti sono sottoposti ad un rovesciamento al fine retorico di mascherare l’incapacità degli incapaci, la debolezza dei deboli e la stupidità degli illetterati. E tuttavia nei primi tempi del cristianesimo – i secoli secondo e terzo – prima che la religione divenisse ufficiale, il comportamento dei cristiani non sembra aver costituito una sfida deliberata all’ordine imperiale, ma piuttosto un ritrarsi da esso. Il fatto che l’ordine imperiale abbia interpretato questa non partecipazione come una sfida deliberata non basta a renderla davvero tale. Anche il comportamento dei martiri è pacifista. Fox, tra gli altri, nota come non vi sia traccia storica di cristiani di quel tempo che cercassero di vendicarsi dei loro persecutori. Si dovrebbe dunque porre la questione circa la fonte del risentimento che ha provocato tale collera in Nietzsche – e nei suoi successori.

Se il fulgido contenuto essenziale della rivelazione cristiana è, come Eric Gans ha scritto a proposito della conversione di Paolo in Science & Faith (1990), il fatto che "fede e persecuzione sono una sola cosa" (p.87), che "conoscere Gesù è aver partecipato alla crocifissione" (ibidem), allora non si può ottenere l’assimilazione del messaggio tramite la mera inversione della paradigmatica struttura espulsoria della morte in croce, che implica il tutti-contro-uno. E questo però è quanto Nietzsche fa ne L’anticristo. In questo modo, a partire da un’obiezione generale al cristianesimo, Nietzsche poi estrae dal racconto evangelico un Gesù rivalutato e rivede l’obiezione generale in modo che questa si riferisca specificamente non più al Gesù filosoficamente purificato, quell’insieme di simboli e astrazioni non pareil, ma alla gentaglia che fraintese e falsificò il proprio Maestro: "Non sceglieremmo la compagnia dei ‘primi cristiani’", scrive Nietzsche, "come neppure di ebrei polacchi (…) Sia gli uni che gli altri non mandano un buon odore" [pp. 63-64]. Il cristianesimo è "un ebraismo maleodorante di rabbinismo e superstizione [p.82]. Non c’è richiamo all’ "ironia" che possa neutralizzare questi e altri esempi di diffamatoria liquidazione, di retorica dell’immolazione, presenti nel libro di Nietzsche. Né il fatto che Nietzsche si schieri con un Gesù rivalutato lo assolve dell’accusa di intenso risentimento nei confronti del cristianesimo, perché questo Gesù è ateologico quanto lo stesso Nietzsche: egli assomiglia, come ho già affermato, alla divinità platonica della teologia negativa platonizzante di Celso; egli assomiglia anche all’anticristo contro-scritturale dello stesso Nietzsche, Zarathustra, un punto che Nietzsche chiarisce alludendo al proprio testo [p.77].

In effetti, proprio in queste operazioni, Nietzsche commette un errore che egli deplora quando lo identifica in Kant. Egli fa di Gesù una Ding-an-Sich quasi tanto inconoscibile quanto il Deus Absconditus dei neoplatonici e di altri teologi negativi e poi, di fatto, fa di sé l’impossibile rivelatore di un essere insondabile. Ma che basi epistemologiche vi sono per le speculazioni di Nietzsche su di un Gesù esoterico? Ovviamente non ve n’è alcuna. In realtà Nietzsche è caduto entro una logica antica e sacrificale, dalla quale avrebbe potuto salvarlo un approccio ai Vangeli meno dogmaticamente scettico: gli è accaduto di soccombere all’attrattiva del centro numinoso ed è entrato in una logica di rivalità, non solo coi Vangeli di Gesù, ma con Gesù stesso; ha così espresso per la durata di un libro una sequela di antiquate denunce lanciate indistintamente contro cristiani ed ebrei, fulminandoli come se egli fosse Zeus e quelli fossero piccole arroganti divinità di terz’ordine. E in questo Nietzsche rende più grave il suo errore, manifestamente tale, poiché egli viola un principio da lui presentato nello stesso Anticristo, e che io ho richiamato con parole mie all’inizio della mia argomentazione. "Fu esattamente questa, nella storia del mondo, la stupidità di tutti i persecutori, di dare cioè alla causa avversaria l’apparenza dell’onorabilità – di recare in dono ad essa la suggestione del martirio…" [pp. 76-77].

Posto anche che Nietzsche avesse divinato il "vero Gesù" dietro il "falso Gesù" di cui è data notizia nei Vangeli, che differenza farebbe ciò nella storia reale del cristianesimo? Poca davvero. Lungi dall’entrare nel ruolo di un mitico deletor, Nietzsche argomenta in favore di una speciosa "vera dottrina" contro l’effettività di un’immagine, e l’immagine, fermamente installatasi nei Vangeli, è così effettiva che, per dir così, potrebbe benissimo essere la realtà.

Mi sembra che molta della letteratura contemporanea su Gesù sia suscettibile della stessa critica. Mentre non sono tanto sciocco da mettere in questione l’erudizione di una Barbara Thiering o di un Burton Mack, mi sento di poter giustificatamente indicare nella loro insistenza su un "Gesù reale" dietro uno "falso" una reminiscenza di Nietzsche. Più ancora, ciascuno esibisce una certa animosità contro – come chiamarlo? – il Gesù della tradizione, o ancor meglio, il Gesù effettivo, o semplicemente il Gesù dei Vangeli. Il Gesù ordinario, familiare. Thiering mostra un bisogno ossessivo di de-divinizzare Gesù e di de-cristianizzarlo, usando la tecnica di interpretazione pesher per trasferire Gerusalemme a Wadi-Qum-Ran, salvare Gesù dalla crocifissione (risparmiandogli così anche l’imbarazzante necessità della resurrezione), e farlo apparire in uno "stato erodiano nel sud della Francia" (Jesus and the Riddle of the Dead Sea Scrolls 160), dove egli sarebbe morto in serenità gnostica alla matura età di settant’anni nell’anno 64. Quindi, secondo Thiering, il cristianesimo radicato nel concetto di morte-e-resurrezione è falsità; Gesù come maestro pacifista e grande spirito va salvato, ma qualsiasi cosa odori di soprannaturale va scartata. Per un’indicazione dell’atteggiamento di Mack, cito un recente articolo comparso in The Atlantic Monthly. Mack delinea al giornalista il suo "prossimo progetto", che dovrebbe implicare, dichiara:

"Mettere insieme un gruppo di studiosi che dovrebbe ‘riformulare’ le origini del cristianesimo in qualche altro modo, non più attraverso le narrazioni evangeliche e il loro ‘dramma della crocifissione’, come lo chiama lui. Poiché la fonte Q [la presunta fonte pre-evangelica dei Vangeli] non contiene alcun racconto della Passione, Mack crede che nessuno realmente sappia come morì Gesù e che i racconti evangelici della Passione, come molte delle altre storie evangeliche, siano pura finzione […]. ‘E’ finita’, dice Mack. ‘Di apocalissi ne abbiamo avute abbastanza. Di martiri ne abbiamo avuti abbastanza. Il cristianesimo ha avuto corso per duemila anni, e adesso ha chiuso’".

Al che si è tentati di aggiungere: così parlò Zarathustra! Ma una "riformulazione" accademica, che corregga l’autocomprensione volgare e pericolosa del cristianesimo stesso, è soltanto un altro modo di pronunciare il nome di Celso, che sotto il segno della raffinatezza filosofica fece presente che il mondo sarebbe andato meglio con l’incontaminato Dio platonico piuttosto che con il Dio evangelico, che discese entro il fango sublunare. Non è necessario dire che il Dio dei filosofi non sarebbe mai potuto diventare il fondamento di una religione universale; basta soltanto dire che non lo è diventato e che questo fatto sminuisce radicalmente la possibilità che ancora potrebbe avere. La potenzialità di popolarità millenaria di un non-dio accademico – un autentico "Essere-Q" – dev’essere ancor più minimale. Con buona pace di Mack, nella tradizione occidentale non vi sono più state delle genuine apocalissi sin dalla visione di Paolo sulla via di Damasco, e in verità le rivelazioni proclamate, da quella di Gioacchino da Fiore a quelle di Karl Marx e Friedrich Nietzsche, hanno tutte di contorno qualcosa di distintamente anti-evangelico ed anti-biblico; esse sono tentativi intellettuali di sovvertire la poderosa autorità extra-intellettuale della rivelazione che "ha attecchito". Nessuna è stata più che transitoria e almeno due hanno generato un’enorme quantità di sofferenze. Se si obiettasse che i Vangeli hanno causato anch’essi sofferenza, in ciò che i partigiani di questa o quella loro interpretazione si sono fatti vicendevolmente guerra, aggiungerei che siffatto guerreggiare, dal momento che abolisce l’ingiunzione di abiurare la violenza, difficilmente può essere addossato ai Vangeli stessi.

Qual era la verità che Paolo comprese e che anche Celso potrebbe aver capito, nel suo modo imperfetto, così che il suo risentimento verso la rivelazione evangelica era la sua risposta ad essa? Cito ancora il mio amico Eric Gans, che ha scritto sull’antropologia della rivelazione in modo tanto penetrante: "La verità che Paolo comprende, il potere della quale è figurato nel testo dal suo accecamento, è che è la persecuzione della persona Gesù che garantisce la sua presenza al di là della morte e in questo modo ne dimostra la divinità. Saulo intuisce una connessione fondamentale tra persecuzione e divinizzazione. Non ci dovrebbe sorprendere che il testo manchi di elaborare questa connessione, o che gli scritti dello stesso Paolo la esplorino solo indirettamente"(Science & Faith 89). Gans aggiunge, con parole che riguardano l’atteggiamento di un Celso o di un Nietzsche o di un Mack, che "il vertice della rivelazione è espresso in parole che portano il marchio dell’autorità precisamente perché non possono essere spiegate. In tali momenti il linguaggio del soggetto umano lo fronteggia come il veicolo di un’intuizione originaria che egli sarebbe incapace di spiegare in termini concettuali" (ibidem). Questa intuizione, secondo Gans, è quella dell’originaria eguaglianza degli esseri umani, o reciprocità morale, una intuizione che necessariamente si contrappone ad una visione in essenza gerarchica come quelle di Celso o Nietzsche o Mack, ognuno dei quali vede sé stesso come vendicatore di una visione pura contro un’altra che è contaminata. Ma la visione paolina insiste con grande forza nell’abbassare lo straordinario al livello dell’ordinario, il liberatore al livello del persecutore. Ciascun uomo è un furfante, capace di persecuzione, a meno che non possa accadere, per dirla semplicemente, che qualcuno gli riveli la tendenza umana alla persecuzione. Il risentimento, come l’ipocrisia, è un onore reso dalla doppiezza alla verità. In conclusione, e in qualità di non credente, voglio suggerire che il risentimento sollevato perennemente dal cristianesimo, e insieme dalla precedente rivelazione ebraica, è il segno della loro perdurante efficacia in un mondo post-pagano in cui non si dà alcuna "altra" rivelazione, e in cui tutte le contro-rivelazioni tentate sono destinate a rimanere assolutamente derivative.

 

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