Canto della potenza
Nota su un articolo di Adriana
Cavarero
Fabio Brotto
Non
amo la scrittura amabilmente e giocosamente intellettualistica, nel profondo nichilistica, di Italo Calvino. Ma
ho letto con attenzione nel numero 5 di MicroMega
un articolo di Adriana Cavarero,
la nota filosofa della differenza, dal titolo Italo Calvino e
l'orecchio del re (pp. 28-34). L'articolo prende in esame il racconto Un
re in ascolto, che si legge da p.51 di Sotto
il sole giaguaro (Mondadori, Milano 2001), e ne
fornisce un'interpretazione molto stimolante, cui devo
in qualche modo rispondere. La storia è quella di un re terrorizzato dal
pericolo che gli fa correre il suo stesso potere, e che si riduce a grande
orecchio perennemente ascoltante, teso a captare dalla sua
reggia tutte le voci del suo regno, per prevenire ogni rischio: non già
come voci umane che tessono discorsi dotati di senso, ostile o favorevole che
sia al suo governo, ma come puri suoni, di cui egli coglie solo il timbro,
condannandosi all'impotenza di un sospetto perenne. Ché
le voci sono artefatte, e nel loro timbro non c'è verità. Ma
un giorno il re sente cantare una donna, che non vede, e il suono della sua
voce stilla felicità di esistere, nel suo vibrare come "gola di
carne". È un suono inconfondibile, individualizzato, come ogni corpo umano
è diverso dall'altro. L'essere unico è un fatto del corpo, e l'emissione della
voce nel canto è "godimento vitale", scrive la Cavarero,
che aggiunge che il fatto cruciale in Calvino è che il godimento venga
"dal canto di una donna". Ad un certo punto, toccando il tema del
duetto lirico "rigorosamente eterosessuale", la Cavarero
afferma che "Calvino si cimenta dunque con uno dei più celebri tra gli
stereotipi della cultura occidentale". Stereotipo di cui "gli aspetti
misogini sono ben noti". Infatti, per la
studiosa, "secondo la tradizione, il canto si addice alla donna ben più
che all'uomo". E qui si appunta la mia prima
questione.
Secondo
la tradizione? Quale? Essendo l'Occidente il luogo in cui la Tradizione con la
t maiuscola è andata in crisi - o è stata obnubilata -, e in cui si è creato da tempo un intreccio di tradizioni, a quale imprecisata
tradizione fa qui riferimento la Cavarero?
Certamente, credo, a quella che s'incarna nell'eidolon
costruito dall'antispiritualismo: ovvero Cristianesimo-platonismo
ecc., la testa di turco per eccellenza, ovvero la
donna ridotta a puro corpo, l'uomo che pensa. Per questa tradizione l'aspetto
vocalico sarebbe della donna, quello semantico dell'uomo. Che
tedio, queste semplificazioni di cui i/le filosofanti fanno uso ininterrotto.
Che dire? Dico che i/le filosofanti hanno in testa
solo la tradizione loro, quella ristrettamente, intellettualisticamente,
illuministicamente filosofica, ove filosofia è puro
esercizio dell'intelletto astratto, ovvero della ragione critico-discorsiva. Le
filosofanti, dal canto loro, vorrebbero trascendere questa tradizione, che
ritengono puramente maschile, ma ne rimangono
totalmente prigioniere. I/le filosofanti sono in verità
affetti/e da hybris: non riescono a vedere come il genere umano sia
stato solo in parte guidato dalle idee, e che usi costumi e canti sono fioriti
al di fuori del giardino dei filosofi. Secondo loro, l'Occidente è una
creazione della filosofia.
La
donna canta. E l'uomo no? Il tenore del duetto forse
pensa? E i poeti maschi non hanno sempre cantato?
E Apollo, per Zeus! Non ha la lira
in mano, non canta? E Dante forse non cantando
varca? E nel Paradiso i beati (per lo più maschi)
non cantano? E i cori dei monaci sono espressioni
della corporeità, e quindi del femminile? E, ahimè,
cosa significano i canti che escono dalle gole dei guerrieri? Cosa fanno, secondo la mia tradizione, gli angeli nel cielo,
se non cantare la gloria del Creatore?
Questione
seconda. La Cavarero individua nel racconto di
Calvino la rivelazione di una verità: l'unicità e la relazionalità
degli esseri umani come fondate sulla qualità dell'emissione vocalica, intesa
nel modo più materialistico. Il re della favola che, gigantesco orecchio, capta
i suoni emessi dagli abitanti del regno, dal canto di una donna e dalla
relazione vocalica nel duetto con lei è ricondotto ad una condizione non
regale ma puramente umana.
Ma il vocalico non semantico è una
pura illusione, non tanto di Calvino quanto della Cavarero.
Se infatti il canto-suono non è semantico, è privo di
segno, non è segno, come può essere afferrato e affermato come sicuramente
positivo? Esiste il canto puro? Nessun canto è puro. Quantomeno segnala:
la presenza. Il canto di un uccello dice: sono qui, e sono forte. Ascolta com'è
potente il mio canto. Se il canto che emetto è potente, allora
esso segnala che io sono potente. Ma l'essere qui, essendo
relazionale, può essere recepito o come attrazione (la
femmina accorre al cantore, ché desidera un maschio potente) o come
provocazione che segnala una presenza sul territorio, una presenza che vuole
escludere i competitori (il maschio allora si sente sfidato alla lotta, e vuole
misurare la sua propria potenza con quella dell'altro). Il primo duetto,
mimetico, è la sfida canora. Il canto che vuol essere solo se stesso non esiste nel mondo animale, ove è segnale,
sempre finalizzato. E - strano a dirsi? - appartiene
assai più ai maschi che alle femmine delle varie specie. Ed
è sempre il canto della potenza. E già nel
mondo umano anche il puro segnale non esiste. L'umano in
quanto è tale esprime sempre e comunque segni. Del resto, un racconto,
tessuto di segni, può dire ciò che è estraneo al segno solo nei termini di un
segno. Così, l'esser puramente vocalico del canto della donna - ma in realtà
essa canta una canzone, di cui le parole non contano nella storia - ma non
contano per lei? - appare come segno del suo esser donna. Ma il non esser
parlante della donna, la sua riduzione a creatura vitalmente
gorgheggiante, non appartiene ancora una volta ad un certo tipo di immaginario maschile? L'apoliticità apparentemente
salvifica in cui il re si sente attrarre, da cui promana il canto femminile,
non è forse consentanea all'esser dominato del soggetto femminile? Non c'è
libertà né conciliazione possibile nella regressione oltre il segno, ma solo
entro l'universo dei segni. La conciliazione è possibile solo qualora si verifichi il riconoscimento della comune umanità (di cui
il maschile e il femminile sono componenti essenziali e di pari dignità) nel
suo essere originata dall'emergere del segno trascendente dall'orizzontalità di
un mondo di pure appetizioni. Il desiderio per
esistere ha bisogno della trascendenza dei segni, altrimenti è mero appetito
animale. E quello del re nei confronti della voce
della donna è desiderio, non appetito. Il racconto di Calvino è paradossale in
tutto, ma il suo è un paradosso falsificante, come spesso accade in Calvino.
L'antropologo non può cadere nella trappola. La Cavarero
vi cade, e non per caso.
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dicembre 2002 A.D.