Breve trattato sull’amore

 

indotto dalla lettura di Stanza 411 di Simona Vinci – Einaudi Stile Libero

 

Elisabetta Liguori

 

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

Piace parlare d’amore! Alle donne piace, e non solo alle donne. Simona Vinci lascia i bambini a casa e, per questo nuovo libro, elabora una lunga lettera d’amore rivolta ad un uomo che dovrebbe essere l’archetipo degli uomini di tutte. In questo lungo racconto, che si dichiara epistola, irritante forse, ma innocua epistola, come lei stessa afferma, l’autrice tenta di dimenticare il suo essere donna. Intraprende cioè quel percorso che avrebbe fatto felice Simone de Beauvoir, la quale rimproverava alle donne proprio l’atavica incapacità di dimenticare se stesse, il loro portarsi appresso, sempre e comunque, quella personale sottintesa differenza, giusto lì, sotto la gonna, tra le gambe. A volte la Vinci ci riesce, descrivendo non soltanto una donna, ma piuttosto un essere umano alle prese con l’amore. Un uomo e una donna. Due esseri umani. Altre volte, soprattutto laddove descrive la relazione esistente tra soldi e coppia, tra soldi e potere, tra sesso a pagamento e pagamento del sesso, tra piacere, denaro e società, tra unicità e molteplicità del diletto amoroso, sembra tornare pericolosamente donna, pericolosamente diversa.

Scrivere d’amore è pericoloso, se non inutile, io credo. Per la Vinci, Ovidio recita in esergo: per mezzo della scrittura si trasmettono segreti per terra e per mare; anche il nemico legge gli scritti inviatigli dal nemico.

In una coppia d’esseri umani si nascondono, quindi, due nemici? Forse, occasionalmente, sempre?

La narrazione della scrittrice ha il sussurro tiepido della confessione, mentre i protagonisti della sua storia la veemenza, l’incerto squilibrio di due nemici armati e fortemente attratti l’uno dall’altra. In questo consiste l’illusione letteraria: nella rappresentazione di un seducente braccio di ferro. È vero: c’è nell’amore qualcosa di contraddittorio, sempre, e la Vinci descrive con arguzia l’insinuarsi proditorio della conoscenza razionale in un rapporto originariamente irrazionale. E il conflitto che ne deriva. Sia chiaro: c’è sì un corpo nudo in copertina, ma è la testa a dominare questo libro.

Per chi legge pagine simili, l’identificazione è imprescindibile. Si scrive spesso per dire: attenzione, quell’uomo o quella donna forse sei tu; tu che leggi sei uno di loro; tu sei come me che scrivo, noi siamo sorprendentemente simili. Bisogna, leggendo, quindi, diventare lui o lei. Scegliere il lato della medaglia, a chi rassomigliare; scegliere la libertà o l’ossessione, scegliere la direzione, per poi scoprire che, tra le due scelte, non vi è differenza alcuna. Come nella scultura di Alberto Giacometti intitolata Piccola figura in una scatola tra due scatole che sono due case: amando non si fa che uscire da se stessi, entrare nell’altro, uscire dall’altro, entrare in  se stessi; il viaggio è identico; nulla differenzia le mete o il percorso; muoversi non comporta alcun cambiamento, pur restando una necessità. Con il tempo si rischia la monotonia, è evidente.

Discettiamo di un movimento che imprigiona, quindi, ben noto a tutti.

La Vinci guarda e delinea con frasi brevi, con capitoli rapidi, con la violenza dello spot. Lo suo sguardo è scheletrico, a volte costruito, artefatto, ma non visionario, come quello di chi guarda sottoposto agli effetti di un ipnotico, ma ridotto all’osso, scarno, affamante. E, come le ossa, rigido, frangibile. Probabilmente un effetto stilistico voluto, fortemente ricercato per schiaffeggiare il lettore, spingerlo a contraddire l’autore, correggerlo, guarirlo.

Curioso, infatti: la storia narrata sembra una storia personale ed autentica, generosamente offerta al mondo, della quale l’autrice sembra aver già intuito l’esito, sin dal suo baluginare. Nessuna rivelazione, pertanto, solo conferme. Come se lei dicesse ad uomo lungamente amato, atteso, immaginato: tu eri una opportunità, ma io già sapevo che avremmo fallito.

Viene voglia di non crederle affatto.

La sua è una sorta di verità povera, fatta solo di parole, da condividere. La Vinci sembra possedere il codice segreto. Che nasconda tattica o onestà, poco rileva.

Forse, in amore, è di queste piccole verità che si ha bisogno. Chi ama, le cerca per imbellettarsi, chi non ama più, per giustificarsi. La letteratura rosa ne è piena, ci sono vagonate di manuali, sinossi, romanzi, poemi, e frasi da baci perugina che promettono soluzioni sicure. E altre se ne fabbricano ad ogni ora.

Chi non si è mai chiesto: perché amare? alzi ora la mano. La Vinci fa una proposta precisa a tal proposito.

 

Forse è sempre per questo che ci si innamora: di qualcuno che ci viene incontro portando per mano noi stessi. Che ci riconsegna noi stessi. Di qualcuno che pare farci nascere di nuovo.

 

Sacrosanto. Quasi che una sola vita non possa bastare, si crede ciecamente in chi sembra darci un’alternativa, una diversa possibilità, un’immagine di noi stessi rinnovata nella qualità e nel tempo, come in una proiezione olografica. All’inizio amiamo noi stessi, io mi innamoro di me e tu di te, tutto quanto viene dopo, la durevolezza, la costruzione, l’edificio, l’abito, se viene, è un miracolo concesso a pochi fortunati.

I protagonisti della vicenda qui narrata, in particolare, provengono da precedenti rapporti finiti e deludenti, territori urbani dissimili e desertificati dalla delusione. Sconfitti, decidono di rifugiarsi in una stanza d’albergo. Vuota. In una scatola vuota. Il loro incontro si trasforma, quindi, in un contenitore, esattamente come lo è una stanza d’albergo che, per poche ore, accoglie mille microscopici oggetti, significativi di un passaggio; li contiene e poi se ne libera, in attesa di nuovi clienti.

Secondo me, l’amore, più che di verità, ha bisogno di oggetti. Le emozioni si posano sulle cose e solo così si fanno toccare: si può descrivere lo spessore di anni di vita in comune attraverso la consistenza tattile della stoffa di un divano o di un soprabito, attraverso il criterio organizzativo di un armadio quattro stagioni, così come si può ritrovare il perduto desiderio fisico, toccando la copertina di un vecchio libro.

Nel concreto, quello che hanno a disposizione questi due cristi, abbandonati al loro destino, sono solo pochi oggetti intimi e finiti, non verità; poche piccole cose a termine, che raccontano dettagli da interpretare: un flacone di shampoo rovesciato, una lima per le unghie, la buccia di una banana, un pacchetto di fazzolettini di carta, briciole sulle lenzuola, una valigia aperta in un angolo. Neppure parole. Quelle vengono dopo e sono solitarie. Nulla, in sintesi, che aiuti davvero a comprendere fino in fondo un altro essere umano, nulla che sveli, nulla che stabilizzi le emozioni, niente che le rinforzi, ché in fondo non si sa niente di nessuno. E meno ancora si sa di quelli che si amano. L’inevitabile amore per sé, i propri bisogni, mescolati ai bisogni dell’altro, un’identità sovrapposta ad altro, generano spesso confusione, equivoci, aspettative nebbiose.

Così, quei due, due come tanti, come tutti, s’ incontrano, scelgono una scatola vuota per raccontarsi, per mentire se necessario, conoscersi e fondersi e, gradualmente, cominciano le battaglie. La Vinci, in questa quinta prova narrativa, si fa più lucida proprio quando descrive questi combattimenti, lucida ma anche fatalmente soggettiva, femmina, corporale e tagliente. Per lei ogni coppia è destinata, prima o poi, a scontrarsi con la propria contabilità, con il computo del dare e dell’avere, con il pallottoliere del tu hai fatto per me, io ho fatto per te. Poi segue il bisogno di controllo, quel desiderio di unirsi totalmente ad un altro, masticandone voracemente la corazza, le altrui normali resistenze, disintegrandole, per meglio inglobarle. Dopo le battaglie non resta che tornare nella stanza 411, lei sola, senza lui, a guardare il mondo, che ne è rimasto fuori, decomporsi lentamente nell’immobilità e nel buio.

Da qui alla protesta post femminista, il passo è breve, e anche la Vinci cade nella trappola che da sempre le casalinghe si sono poste tra i piedi: il vittimismo, finendo per parlare di denaro, sesso e affiancandolo al potere maschile. Il mito perde rigoglio quando si confronta con le pareti domestiche, con le buste della spesa, con i rumori prodotti dalla famiglie che vivono oltre la porta accanto.

Chi può negare credibilmente che il soldo, la capacità economica, il corpo e la sua esplosione naturale, il potere che ne deriva, in presenza o in assenza di denaro, faccia parte del gioco d’amore, condizionandone le regole. Stupido demonizzare, se pure di demoni qui si va trattando. Ci piace di più, molto di più, parlare d’amore, il che consente di vedersi attraverso il filtro degli occhi di un altro, per spogliarsi e toccarsi nel profondo. Per sopravvivere e durare. E sentirsi puliti e preveggenti. Tutti ne parlano, in autobus, in ascensore, dal dentista o al cimitero per il due novembre.

Ci piace parlare d’amore e della libertà che comunque l’amore consente, che sia quella di annullarsi, mutilarsi, per un altro e farsi usare totalmente da quello, o di voltargli le spalle, cambiare la serratura di casa, scrivergli lettere d’amore lievemente supponenti e irritanti, ma che tentino di raccontare come sospendere l’addio in una vana attesa. E quest’attesa è il segreto.

E ci piace parlare degli oggetti di cui l’amore si serve. Anche di un libro. Gli oggetti sono pretesti in cui chimica, pensiero e abitudine si saldano.

E un libro è da sempre un oggetto grandemente pretestuoso.

 

 

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