The Spiritual Brain

Fabio Brotto

brottof@libero.it

 

Mario Beauregard e Denyse O’Leary sono gli autori di The Spiritual Brain (HarperOne, New York 2007), che reca come sottotitolo A Neuroscientist’s Case for the Existence of the Soul. Mario Beauregard è un neuroscienziato di primo livello, e uno dei pochi che non sia preda di una visione aprioristicamente scientista e mantenga attiva  una vigile intelligenza critica.

Per visione scientista intendo un pensiero basato sull’assunto dogmatico per cui si darebbe una sola realtà, quella fisica immanente. Si tratta di un vero e proprio credo materialistico-monistico (alcuni dicono oggi “olistico” ma è, nella sostanza, la stessa cosa). Questo assunto precritico porta i neuroscienziati a pensare che esista quello che Dewey definiva un cervello mentaloide, che secerne il pensiero. Il pensiero non sarebbe altro che l’attività elettrica del cervello, l’attività dei neuroni. Un po’ come dire che una sonata per pianoforte è ciò che gli strumenti rilevano come onde sonore.

 

Marvin Minsky, guru dell’intelligenza artificiale: ”La mente umana è un computer fatto di carne” (p. 23)

 

V.S. Ramachandran, uno dei neuroscienziati di punta: “Anche se ai nostri giorni è conoscenza generale, non cessa di stupirmi il fatto che tutta la ricchezza della nostra vita mentale - i nostri sentimenti religiosi e perfino quello che ciascuno di noi vede come il suo sé intimo e personale - è semplicemente l’attività di queste piccole particole di gelatina nella nostra testa, nel nostro cervello. Non esiste nient’altro”. (p. 57)

 

Quello che stupisce me, di contro, è l’entusiasmo dei monisti-materialisti per la riduzione dell’umano al puramente fisico e animale. E la mancanza di una riflessione critica capace di integrare gli aspetti particolari della ricerca in una visione generale senza rasentare il ridicolo. E dico questo senza alcuno spirito antiscientifico: la scoperta dei neuroni specchio mi ha entusiasmato. Ma le speculazioni che i neuroscienziati fanno addentrandosi in un terreno non loro, quello filosofico, sono ai miei occhi fragili e spesso divertenti, come le sentenze sopra riportate.

Lo scimpanzé è al 98 per cento umano perché condivide con noi il 98 per cento dei geni. Si è sentito anche questo. Si può ribattere che allora anche un pesce è in parte umano, perché condivide con noi il 40 per cento del DNA. Ma nessuno si sogna di dire questo, e noi mangiamo sardine senza problemi (e i Cinesi anche i cani, che molti esperimenti hanno dimostrato essere in grado di comprendere i segni sociali umani meglio degli scimpanzé).

Ma questa vulgata da mass media implicati nel materialismo promissorio dei nostri tempi (l’idea che il monismo materialistico sia inattaccabile perché le sue falle odierne saranno sicuramente tappate in futuro) viene messa in questione dagli esperimenti scientifici stessi. Come scrive l’antropologo evoluzionista Jonathan Marks: “Riguardo al generale interesse suscitato dagli esperimenti fatti sulle scimmie superiori con il linguaggio dei segni, tre cose sono chiare. Per prima cosa esse hanno la capacità di manipolare un sistema simbolico dato loro dagli umani, e di comunicare con esso. Secondo, sfortunatamente non hanno nulla da dire. E terzo, in natura esse non usano alcun sistema del genere. (p. 17) Ovviamente questo non deve sorprendere. Il linguaggio basato sul segno è solo degli umani. Per quanto apprenda ad utilizzare alcune centinaia di simboli, un primate non racconterà mai ai suoi congeneri una storia, e non si servirà mai di essi per sviluppare una cultura. Tra l’umano e l’animale c’è un salto qualitativo insuperabile.

 

L’essere cosciente è contemporaneamente l’osservatore e l’osservato. Il fatto che in tale situazione l’obiettività sia impossibile crea ovviamente una difficoltà. Ma si tratta solo della prima di molte difficoltà. La coscienza non può essere osservata direttamente. Non esiste alcuna singola area del cervello che sia attiva quando siamo coscienti e inattiva quando non lo siamo. E non vi è alcun livello di attività neuronale specifico che segnali che noi siamo coscienti.

 

Come nota il filosofo della mente B. Allan Wallace:

Nonostante secoli di moderna ricerca filosofica e scientifica sulla natura della mente, non esiste al presente alcuna tecnologia che possa individuare la presenza o assenza di alcun tipo di coscienza, dal momento che gli scienziati non sanno nemmeno che cosa dovrebbe essere misurato. A esser rigorosi, oggi non si dà alcuna evidenza scientifica neppure della semplice esistenza della coscienza! Tutta la evidenza diretta di cui disponiamo consiste di descrizioni non scientifiche in prima persona dello stato di coscienza.

La difficoltà (…) consiste nel fatto che mente e coscienza non sono un meccanismo del cervello nel modo in cui, per esempio, la divisione cellulare è un meccanismo delle cellule e la fotosintesi è un meccanismo delle piante. Sebbene cervello, mente e coscienza siano naturalmente interrelati, la loro relazione non è spiegata da alcun meccanismo materiale. Continua Wallace:

Una autentica proprietà emergente delle cellule cerebrali è quella della consistenza semisolida del cervello, e questo è qualcosa che la scienza oggettiva, fisica, può ben comprendere … ma essa non comprende come il cervello produca alcuno stato di coscienza. In altre parole, se i fenomeni mentali sono di fatto niente di più che proprietà emergenti e funzioni del cervello, la loro relazione al cervello è fondamentalmente differente da qualsiasi altra proprietà emergente e funzione che si trovano in natura. (p. 109)

 

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