DUE LIBRI, UNA PAGINA (2)

Letture di Fabio Brotto

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C'è un movente fondamentale ne Il canone occidentale di Harold Bloom (1994, pubblicato in Italia nel 1996 e riedito nel 1999 da Bompiani, edizione a cui mi riferisco), opera che pretende di stabilire un numero di autori canonici, di grandezza indiscutibile, nella letteratura occidentale. E' qualcosa che vediamo anche negli scritti di Eric Gans e di altri intellettuali americani contemporanei: la lotta contro la P.C. (Political Correctness), attitudine "di sinistra" o "progressista", un'espressione della quale nei dipartimenti letterari delle università americane consiste nell'equazione di tutte le tradizioni, mirante alla "riparazione di ingiustizie storiche". Bloom vede la critica letteraria attuale degenerare e porsi come una specie di pseudo-scienza politico-sociale o addirittura razziale, divenendo veicolo dei risentimenti delle minoranze. Mentre "L'unico modello è il proprio io e (…) la critica è pertanto un ramo della letteratura sapienziale" (168). Ma la furia di Bloom, scatenata contro le miserie della critica odierna (dovrei esprimere la cosa in forma meno spersonalizzata) e la sua fondamentale insipienza, su cosa si fonda? Sulla potenza della propria lettura della realtà (di cui la letteratura è parte eminente, ma non il tutto). Questa lettura è massimamente soggettiva, e talora fortemente arbitraria. Il suo fascino è qui, come del resto in molte pagine del suo pari George Steiner. Non è un caso, credo, che l'epiteto prediletto per gli autori che Bloom ama sia robusto. Lo dico senza condividere molte, anzi moltissime posizioni di Bloom - e soprattutto quell'ossessivo rifiuto della trascendenza che lo accomuna a molti Ebrei laici, come Freud: si ha l'impressione che per Bloom il cristianesimo non abbia alcun rapporto profondo con l'essenza dell'Occidente - il tartufismo che impregna la cultura (e la scuola) italiana trova in autori come Bloom un antidoto, o se non altro un parziale consolamentum. Quanto poi al dissentire sulle scelte di Bloom (i suoi autori sono prevalentemente anglosassoni) nel suo stabilire la gerarchia delle grandezze in letteratura, questa è materia di critica del gusto, ecc.

Come in Bloom, anche in Tobin Siebers, non tradotto in Italia, c'è una forte tensione etica. The Ethics of Criticism (Cornell University Press, Ithaca 1988) si fonda sull'idea che "… il personaggio in letteratura e nella critica implica sempre un'idea di eticità" (p.5). Mentre "Il carattere del linguaggio promosso oggi dalla teoria rende estremamente difficile il tipo di coscienza necessario alla riflessione morale" (p.6). E Siebers, partendo da Platone per arrivare ai Romantici e a Nietzsche, Freud, Heidegger, Levy-Strauss, Derrida, Paul de Man e Girard, si impegna in una serrata lotta critica per dimostrare l'universale validità antropologica della grande letteratura, in un'ottica di fuoriuscita sia dall'eredità della filosofia nietzscheana, sia dal Giudeo-Cristianesimo "entrambi inadeguati per una comprensione dell'etica, quantunque possano essere necessari per la sua evoluzione, poiché essi pongono i modelli etici al di là dell'ambito della comunità umana e delle sue rappresentazioni" (p.157).

Ciò che trovo più stimolante in quest'opera è la sottile analisi della fuga dalla responsabilità che percorre tutta la cultura moderna, e che celebra oggi i suoi fasti, purtroppo al di fuori del mondo dei libri.