Anthropoetics 5, no. 1 (Spring/Summer 1999)

Il "Little Bang": l'origine arcaica del linguaggio

Colloquium on Violence and Religion, Atlanta, June 1999

Eric Gans

Department of French
University of California, Los Angeles
Los Angeles CA 90095-1550
gans@humnet.ucla.edu

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

www.bibliosofia/net

 

 

Poco tempo fa mi è stato richiesto di esaminare alcuni candidati per un posto di ricercatore universitario alla UCLA. Il concorso si basava, oltre che sui soliti curricola e sulle lettere di raccomandazione, sulla presentazione di un progetto riguardante l'argomento di quest'anno: il sacro. C'erano una sessantina di candidati che lavoravano sul periodo moderno a partire dal 1800; tra questi laureati di recente, c'erano studiosi di letteratura, di filosofia, di storia, alcuni studiosi di antropologia, e perfino uno che si occupava di musicologia. Sono rimasto sorpreso quando ho scoperto che neppure uno dei progetti presentati faceva riferimento al nome o alle idee di René Girard. Quando l'ho fatto notare al direttore del programma, un professore di inglese con un solido retroterra di studi filosofici e di teoria della letteratura, mi spiegato che queste idee erano state di moda vent'anni or sono, ma oggi non più.

Per quanto esagerato e poco acuto possa essere un simile giudizio, lo prendo come un invito all'azione espresso da un osservatore sagace e imparziale. Che piaccia o no, il mondo accademico, l'università, è il centro della vita intellettuale americana. Le idee che ispirano il COV&R sono emerse dall'università e, per quanto potenti possano diventare e rimanere al di fuori di essa, è importante per la loro sopravvivenza che mantengano la loro visibilità al suo interno. Pertanto è necessario che noi accantoniamo tutte le differenze che ci possono dividere, nel perseguimento di quell'obiettivo che io so che tutti condividiamo. Alla fine del mio discorso ritornerò su questo punto.

Che cos'è è l'origine del linguaggio? La questione non è solo quella della formulazione di ipotesi circa l'origine, ma anche quella di decidere che cos'è che intendiamo per la questione stessa. I recenti progressi nella neuroscienza, nella scienza cognitiva, nella fisiologia del linguaggio, nella paleontologia, nella primatologia, nella linguistica, e nei campi affini rendono la questione insieme più facile e più difficile da affrontare rispetto ai tempi in cui scrissi The Origin of Language, oltre vent'anni fa.

Posso dire subito che nulla di ciò che ho appreso nel corso della mia ricerca mi dissuade in quanto umanista dall'avventurarmi in un'area nella quale le voci dominanti non sono più quelle dei linguisti e degli studiosi di preistoria, ma quelle dei neurobiologi. Come hanno sempre fatto, gli avanzamenti scientifici permettono a coloro che si occupano dell'umano, agli "antropologi" nel senso più ampio del termine, di ridisegnare i confini dell'ambito a cui appartiene veramente la riflessione antropologica. Questa non è una posizione ampiamente condivisa dagli scienziati stessi, che generalmente sono attaccati ad una visione illuministica, per la quale ogni forma di pensiero non sottoposta al metodo scientifico, particolarmente quella religiosa, è una sopravvivenza primitiva condannata, e giustamente, al destino dell'alchimia e della cosmologia aristotelica. Secondo questa visione, il mio – penso di poter dire "il nostro" – genere di antropologia non appare un campo di indagine degno di attenzione. L'attribuzione ipotetica di una funzione originaria ad un evento (o scena) considerato memorabile in se stesso non è – ancora -- compresa come necessario strumento metodologico nelle scienze umane. Pure, un metodo scientifico che possa espandersi ad includere eventi non sarebbe costretto a porre tra parentesi la religione come espressione dell'irrazionale, o a spiegarla con una teoria di utilità psicologica elaborata ad hoc, ma comincerebbe ad integrare entro di sé quella comprensione dell'umano che la religione ha avuto la funzione storica di fornire.

Non penso che noi siamo costretti ad accettare la visione illuministica della storia come la storia della continua avanzata della scienza entro territori progressivamente sgomberati dal pensiero non scientifico. Non c'è dubbio sul fatto che non dipendiamo più dalla religione per fondare le basi della cosmologia o delle scienze naturali in generale. E dato che la nostra conoscenza del cervello continua a progredire, potrebbe non essere più necessario fondarsi sulla filosofia metafisica per comprendere i processi del linguaggio e del pensiero. Ma la cultura umana non ha il suo polo nello studio dei fenomeni naturali, e nemmeno nella logica e nella struttura linguistica. Essa si occupa del modo in cui sono regolati i fenomeni dell'interazione umana, cioè dell'etica, e per quanto la scienza possa aiutare a fornire opzioni al pensiero etico, non può tuttavia mai usurpare la sua funzione culturale centrale.

Quest'ultimo punto è solitamente espresso col vecchio detto che non si può arrivare al "dovere" partendo dall' "essere". La scienza ci dice come la cosa è, non come dovrebbe essere. Non ho nulla contro questa formulazione intesa come regola empirica. Ma la sua semplice dicotomia semplifica eccessivamente la realtà umana ed incoraggia un certo autocompiacimento da entrambe le parti. Essa va di pari passo con il relegare la religione in una vacua nozione di "fede" – generalmente combinata con il familiare luogo comune circa il valore della religione nel mantenimento della moralità. Piuttosto, ciò che deve essere compreso è come si sia verificata questa dicotomia, e come sia legata al possesso umano del linguaggio. Come mai le stesse creature che sole sono capaci di pensiero scientifico sono anche le sole capaci – qualcuno direbbe colpevoli – di forme di pensiero che non possono essere ricondotte a quello scientifico? Perché, in una parola, l'origine del linguaggio è anche l'origine del sacro? Il fatto che gli scienziati del secolo scorso abbiano perfino mancato di porre questa domanda, non che di rispondervi, è proprio la prova di cui abbisogniamo che il pensiero antropologico nel senso in cui lo intendiamo voi ed io, ciò che io chiamo "pensiero originario", ha un ruolo centrale e insostituibile da svolgere nello sforzo in atto di comprendere le origini dell'uomo.

Che cosa è dunque l'origine del linguaggio? Si può dividere la questione in due parti, ciascuna delle quali ha provocato, nel discorso scientifico recente, un tipo di risposta molto differente. Possiamo chiamarle rispettivamente la difficile parte originaria e quella meno difficile (ma non facile) concernente la preistoria. La prima, difficile, parte della questione investe ciò che dal canto mio ho sempre ritenuto essere l'essenziale: il momento, tracciato o no che sia nel tempo effettivo, dell'emergere del linguaggio dal non-linguaggio, che nella mia mente è anche il momento dell'emergere dell'umano dal non-umano. La seconda e più facile parte si occupa di ricostruire gli stadi intermedi tra quest'origine e il linguaggio quale noi lo conosciamo.

Negli ultimi vent'anni la seconda parte della questione ha generato una grande quantità di ricerche. Come risultato abbiamo che la nostra comprensione dei parametri che definiscono le capacità fisiche e mentali richieste per il linguaggio umano, e per la loro comparsa nel corso dell'evoluzione dei primati, è diventata sempre più precisa. Fra un momento condividerò con voi alcuni di questi risultati. Ma sulla parte dura della questione, che io ho tentai di affrontare in The Origin of Language, quella della causa e dell'occasione specifiche dell'origine del linguaggio e dell'umano, vi è un quasi-silenzio che cresce in modo imbarazzante in proporzione all'intuizione antropologica e alla sofisticazione semiotica dello scrittore. Questo è, a suo modo, una forma di progresso. Solo gli ingenui o i retrogradi ignorano l'importanza della questione, nel modo che era comune una generazione fa, proponendo che il linguaggio umano sia emerso nel corso di un lungo periodo di tempo attraverso il graduale miglioramento dei sistemi di comunicazione dei primati. Mentre diventa più precisa la nostra comprensione dei mezzi neurologici tramite i quali il linguaggio evolve, viene appreso, ed è trasmesso, e mentre, parallelamente, si apprezza la sua differenza radicale da tutte le altre forme di comunicazione animale, la fonte di quello che uno scrittore chiama il "momento magico" in cui cominciò il linguaggio diventa vieppiù misteriosa. Vi parlerò in seguito di una parziale eccezione a questa regola: uno studioso la cui soluzione di questo enigma, come vedremo, richiama fortemente quella proposta in The Origin of Language, sebbene si fermi prima di raggiungere la scena unica dell'origine postulata dall' "ipotesi originaria" sulla base della teoria del desiderio mimetico.

Come dunque ci dobbiamo figurare questa scena unica? La differenza tra linguaggio umano e comunicazione animale è definita nel modo più semplice da ciò che Fernand de Saussure chiamò l' "arbitrarietà del significante", il fatto che la parola "mucca" non assomiglia in nulla ad una mucca. Questa arbitrarietà tocca perfino i segni nati dalla percezione naturale: Saussure cita la parola "piccione", la cui origine onomatopeica nel latino pipio è stata dimenticata. La ragione per cui i segni diventano arbitrari perfino quando essi un tempo non lo erano è che, in opposizione ai segnali del mondo animale, i segni non sussistono nel mondo reale ma in un mondo-del-linguaggio che sta "sopra" il mondo reale e nel quale questo può essere rappresentato. Possiamo simbolizzare questa differenza dicendo che il segnale si relaziona al suo oggetto "orizzontalmente", laddove il segno si relaziona ad esso "verticalmente".

Ciò che rende l'origine del linguaggio particolarmente interessante per noi è che la generazione della significazione verticale del linguaggio dalle relazioni orizzontali, appetitive, del mondo reale può essere descritta nei termini del triangolo del desiderio mimetico teorizzato da Girard. Di norma, noi imitiamo gli atti appetitivi gli uni degli altri con l'effettuare la stessa azione su un oggetto differente: quando ti vedo cogliere una mela, io colgo un'altra mela per me. Ma dal momento che il desiderio mimetico mi fa sospettare che la tua mela fosse migliore della mia, il mio gesto e il tuo sono destinati a convergere un giorno sullo stesso oggetto. A questo punto, la mimesi è bloccata; l'atto di appropriazione è annullato. L'unico modo di evitare una violenza distruttiva e quello di dislocare il centro della nostra attenzione dal modello umano all'oggetto verso il quale il suo gesto punta. Sebbene questo oggetto unico del desiderio non possa essere riprodotto esso stesso, può invece essere rappresentato da un segno riproducibile del linguaggio umano. Di qui, nei termini dell'antropologia generativa, il "gesto di appropriazione annullato" diventa il segno originario.

Ma sebbene il triangolo mimetico contenga tutti gli elementi necessari per la comparsa del segno, il linguaggio come fondazione della comunità umana deve essere sorto in un evento collettivo ove la tensione mimetica è intensificata dalla molteplicità dei partecipanti. L'oggetto desiderato da tutti i membri del gruppo – ad esempio, la carcassa di un grosso animale abbattuto da una banda di cacciatori – diviene il centro di un cerchio circondato da individui periferici che si comportano come mediatori ciascuno del desiderio degli altri. Il segno originario fornisce la soluzione, o più precisamente il differimento di una "crisi mimetica" in cui l'esistenza stessa del gruppo è minacciata dalla potenziale violenza della rivalità per l'oggetto centrale. L'emissione del primo segno è l'evento fondatore della comunità umana.

Come si deve situare questa ipotetica scena nel corso della evoluzione biologica? Nel corso degli anni il mio pensiero su questo argomento si è evoluto; o forse dovrei dire che è stato purificato. Quando scrissi The Origin of Language, mi preoccupavo solamente di sviluppare le conseguenze dell'ipotesi che il linguaggio si fosse originato in un evento auto-cosciente o scena. Così non feci alcun riferimento alle specifiche circostanze storiche e neppure all'era geologica nella quale un tale evento potrebbe aver avuto luogo. Dal punto di vista di uno scienziato empirico, questo sarebbe stato inconcepibile, ma io consideravo dovere dell'umanista quello di sviluppare le conseguenze logiche dell'idea dell'umano come il possessore del linguaggio, indipendentemente dai capricci dei dati empirici. Mi sforzai di costruire un'ipotesi limitata dal rasoio di Occam alle condizioni minime per l'emergere dell'umano. Potrei aggiungere che a quel tempo, oltre venti anni fa, gli studiosi erano tra loro in maggior disaccordo di quanto non siano ora circa il momento dell'evoluzione pre-umana in cui il linguaggio apparve per la prima volta. Io semplicemente scelsi di non scegliere tra gli spazi temporali provvisori che allora si ipotizzavano.

Vi erano allora e, almeno per il momento, vi sono ancora due visioni del tempo in cui nacque il linguaggio; possiamo chiamarle l'ipotesi "arcaica" e quella "tarda". L'ipotesi arcaica dominante è quella secondo cui il linguaggio in qualche forma, quello che alcuni scrittori chiamano attività "simbolica" e io preferisco chiamare "rappresentazione", sia apparso contemporaneamente al genere Homo, il cui emergere dall'Australopithecus circa due milioni di anni fa coincide con la prima evidenza di utensili di pietra. In questa ipotesi, l'aumento di dimensione cerebrale, dall'Homo abilis attraverso l'Homo erectus al Neanderthal e all'Homo sapiens, fu esso stesso un prodotto del linguaggio.

L'ipotesi tardiva, che ha ancora oggi dei sostenitori, fu costruita per spiegare il contrasto tra quella che appariva come un'estrema stagnazione tecnologica per quasi due milioni di anni di fabbricazione di utensili e il "decollo" di circa 50.000 anni fa che produsse tecnologie più raffinate, l'arte delle caverne, evidenza di riti funerari, ed infine l'invenzione neolitica dell'agricoltura che in dieci o dodicimila brevi anni ci ha resi quel che siamo ora. Più che la tecnologia degli strumenti, è l'apparizione in quest'epoca dei primi indubitabili segni di "cultura" – ovvero di cultura rituale, religiosa – che ha conferito a quest'ipotesi la sua plausibilità. Devo ammettere che rispetto alla scelta tra l'ipotesi arcaica e quella tarda io ho dimostrato un certo grado di ciò che gli psicologi chiamano "dissociazione". Ero molto più preoccupato di difendere l'origine singola dell'umanità contro l'ipotesi un tempo molto in voga dell'origine multipla che di decidere in che momento questa singola origine dovesse aver avuto luogo. Non scegliendo tra ipotesi arcaica e tarda, ero in grado di mantenere elementi di ciascuna senza riflettere realmente sulla loro incompatibilità.

L'ipotesi arcaica sembrava dettata dalla semplice logica. Secondo l'ipotesi tarda, i primi parlanti furono i cosiddetti Cro-Magnon, appartenenti alla specie Homo sapiens identici geneticamente a noi. L'ipotesi tarda perciò può essere mantenuta solamente se si è assunto che il nostro moderno cervello e l'apparato vocale umano possano essersi evoluti indipendentemente dal linguaggio. In tal caso, il linguaggio sarebbe sorto come ciò che Stephen Gould chiama una exaptation, un sottoprodotto accidentale dell'interazione tra evoluzione cognitiva e sistemi di comunicazione pre-linguistici. (Ai linguisti chomskiani piace questa posizione perché sembra giustificare la loro idea di un "modulo linguistico" evolventesi indipendentemente da qualsiasi comportamento umano evidente.) Di contro, l'ipotesi originaria presupponeva che il linguaggio come primo atto umano fosse sorto tra creature con nessun adattamento previo di cervello e tratti vocali, e che sia stato esso a dirigere la loro acquisizione di questi adattamenti. Questa è la logica di tutte le modificazioni evolutive; il primo antenato della balena che si è immerso nell'oceano non doveva avere delle pinne predisposte in anticipo per la bisogna.

Pure, a dispetto di tutto ciò, ero attratto dall'ipotesi tarda, perché sembrava solidificare il legame tra linguaggio e cultura rituale posto in risalto dalla mia prospettiva. Sotto questo aspetto, la (forse esagerata) stagnazione tecnologica e l'assenza di prove di un'attività culturale "simbolica" nelle prime fasi dell'Homo – uno scrittore si chiese che cosa mai potessero trovare di cui parlare delle creature simili – sembravano argomenti convincenti. Meri utensili di pietra non costituivano affatto prova di linguaggio, specialmente dopo che si comprese che i complessi "chopper" a forma di losanga non erano i prodotti di una raffinata abilità artigianale ma il nucleo rimanente dopo che dalla pietra erano state scalpellate via le semplici lame. Dal momento che i paleontologi non trovavano assurdo che tutta la nostra evoluzione fisica, e presumibilmente anche quella mentale, avesse potuto verificarsi prima della nostra acquisizione del linguaggio, accettai la possibilità come reale.

Una cura possibile per la mia dissociazione fu l'ipotesi di compromesso proposta da Derek Bickerton, una delle figure di maggior spicco negli studi sull'origine del linguaggio. Bickerton è conosciuto soprattutto per il suo libro del 1981, The Roots of Language, in cui propone la tesi secondo cui la sintassi universale di base delle lingue "creole" – lingue che sorgono quando rozzi dialetti multilingue chiamati "pidgin" cominciano ad essere parlati come lingue naturali dai figli dei parlanti originali – dimostrerebbe l'esistenza di qualcosa di simile al "modulo grammaticale" di Chomsky. L'opera più recente di Bickerton, Language and Species (1990), per analogia con la distinzione tra il non grammaticale pidgin e il grammaticale creolo, propone per il linguaggio sia un'origine arcaica sia una tarda. L'origine precoce, al tempo dell' Homo habilis, avrebbe implicato l'emergere del "riferimento simbolico", il segno linguistico, ma non della struttura sintattica. Nella visione di Bickerton, la sintassi non si sarebbe potuta evolvere gradualmente, dal momento che non vi è alcun esempio di un linguaggio intermedio quanto a complessità sintattica tra i pidgin, che egli trova paragonabili sia alle espressioni dei bambini che a quelle delle scimmie istruite nel linguaggio umano, e le lingue naturali odierne. (E' un cardine della linguistica moderna che tutte le lingue conosciute, da quella degli Aborigeni australiani all'Inglese contemporaneo, siano ugualmente "avanzate" e ammettano in linea di principio la reciproca traduzione.) Così, l'emergere di un linguaggio sintatticamente maturo come noi lo conosciamo, che Bickerton situa al tempo dell'origine tarda intorno a 50.000 anni fa, sarebbe stato un riflesso di sviluppi evolutivi nel cervello, che si realizzarono d'un colpo nel linguaggio, in una qualche mutazione finale inesplicabile.

Proprio come l'attitudine del bambino all'apprendimento del linguaggio dimostra l'esistenza di "qualcosa di simile" al modulo grammaticale di Chomsky senza tuttavia rispondere alla domanda chiave di come esattamente il suo cervello sia idoneo a questo processo di apprendimento, il contrasto tra, da un lato, il linguaggio di creature il cui cervello non era ancora specificamente adatto al linguaggio, le cui culture materiali furono in apparenza stabili per centinaia di migliaia di anni, e che non hanno mostrato alcuna evidenza di attività simbolica, e, dall'altro lato, il linguaggio di individui anatomicamente identici a noi, (relativamente) innovativi nella loro strumentazione, e che seppellivano i loro morti e tracciavano disegni su pareti di caverne, dimostra che "qualcosa di simile" alla dicotomia di Bickerton deve essere vero, ma senza dare evidenza pro o contro la sua natura dicotomica. Il fatto che oggi non esista alcuna forma di linguaggio intermedia non costituisce prova che la sintassi moderna sia comparsa d'un tratto più di quanto l'assenza di forme intermedie tra lucertole e serpenti provi che questi ultimi abbiano perso le loro zampe d'un tratto. Anche se tutte le lingue moderne derivano da un'antenata comune parlata circa 50.000 anni fa, non vi è alcun bisogno di assumere che quest' Ursprache sia comparsa a sua volta in un singolo salto mutazionale al di là dei primitivi linguaggi del tipo "pidgin". Studenti di linguaggio gestuale suggeriscono persuasivamente che il legame potrebbe essere fornito dal gesto.

Oggi sono uscito dalla mia condizione dissociata. Accetto la teoria dell'origine arcaica e rigetto quella dell'origine tarda. Lungi dal rappresentare una minaccia per l'ipotesi originaria, l'origine arcaica la rende a maggior ragione plausibile. E' una mancanza d'immaginazione concepire il primo linguaggio come qualcosa di simile al linguaggio odierno. Sarebbe un'infedeltà al rasoio di Occam attribuire al segno originario altro che una minima differenza che separi il linguaggio umano dai sistemi animali di comunicazione. Circa questo punto scenderò subito in dettagli, ma prima voglio rendere più esplicite le conseguenze di un'origine precoce sulla riflessione fondamentale, basata sulla teoria mimetica del desiderio, che io chiamo antropologia generativa.

L'ipotesi originaria è un tentativo di fare i conti con la più importante verità intorno al linguaggio umano: che il linguaggio che noi conosciamo, il linguaggio del segno e non del segnale, rappresenta non uno sviluppo graduale della comunicazione animale ma una radicale rottura rispetto a questa. Quando scrissi The Origin of Language, non ero a conoscenza di alcun altro ricercatore che avesse preso questa posizione. Ancora oggi, molti che scrivono sull'argomento non hanno ancora afferrato la difficoltà che presenta. Bickerton e Terrence Deacon – le cui idee in materia discuterò brevemente – ancora adesso sono virtualmente soli a trattare questa radicale rottura come un problema per la teoria dell'evoluzione. Ma neppure Deacon, e vedrete quanto provocantemente vicino alle posizioni dell'antropologia generativa egli giunga, ha fatto il passo finale logico concordante con questa posizione.

Il nucleo dell'ipotesi originaria non è lo scenario di caccia che io ho suggerito come scena dell'origine del linguaggio, ma la semplice affermazione che ci fu un evento, una scena minimalmente unica di origine dell'umano definito dal linguaggio. L'ipotesi originaria propone che il segno linguistico, diversamente da tutti i precedenti modi di trasferimento dell'informazione, dalla persistenza delle strutture subatomiche passando per il codice genetico fino all'evoluzione di sistemi di segnalazione tra i mammiferi, non dipende né da connessioni di neuro-trasmettitori né da associazioni apprese, ma dalla memoria di un evento fondatore storicamente specifico. Gli animali imparano dal passato e fanno preparativi per il futuro, ma solo gli umani sperimentano eventi. Alla critica decostruzionista secondo cui non si può essere "presenti" agli eventi umani perché essi sono mediati dal linguaggio, risponderei che è precisamente questa mediazione che li definisce come eventi. Il fatto che gli eventi esistano solo in tanto in quanto essi sono commemorati tramite la rappresentazione significa solo che l'evento originario è l'evento della prima commemorazione.

Tutta la cultura è scenica, nel senso che evoca la tensione tra la periferia desiderante e il centro desiderato di una scena collettiva. Questo è stato notato soltanto da pochi antropologi, in particolare da Victor Turner. Un individuo isolato può evocare la scena nella sua immaginazione solo perché essa è già esistita nella realtà collettiva. Anche il linguaggio, come nucleo di quel sistema di rappresentazioni che è la cultura umana, evoca una simile scena collettiva. E dal momento che dal primo momento questa scena fu per definizione memorabile, l'intuizione della memorabilità ereditata da questa scena ci consente di offrire un'ipotesi della sua costituzione conforme alla nostra conoscenza empirica da un lato e al principio di parsimonia del rasoio di Occam dall'altro.

Dal momento che la possibilità di una conferma è davvero remota, la nostra ipotesi è destinata a rimanere speculativa. Quale è dunque il fine della sua enunciazione? Ricordiamo che il punto primario dell'ipotesi non è la ricostruzione della scena dell'origine, ma il postulato che vi fu una scena. Ma se questo punto è meritevole di considerazione, allora la nostra ricostruzione ipotetica della prima scena non sarà del tutto inutile nell'articolazione dei suoi vari momenti. Poiché una volta che siamo d'accordo nel prendere in considerazione l'idea che vi sia stata realmente una scena di origine del linguaggio, allora questa origine non è semplicemente quella del linguaggio, ma della cultura umana in generale – del sacro in primo luogo e di tutto ciò che il sacro implica: desiderio, risentimento, sacrificio, e quello che potremmo chiamare le tre E: Etica, Economia, Estetica. L'articolazione di tutte queste categorie in una singola scena è stato l'obiettivo principale dei miei scritti sull'antropologia generativa.

Prima di proseguire questa argomentazione, desidererei essere molto chiaro su di un punto. L'ipotesi originaria non è né un contratto sociale né una variante di ciò che il filosofo della politica John Rawls chiama la "posizione originale". Non è, in altre parole, uno schema fittizio ma un'ipotesi, una ipotesi "scientifica", se la parola può servire. La differenza tra queste due categorie è meno ovvia di quanto non paia di primo acchito, ma nondimeno è reale. I "contratti sociali" di Hobbes o di Rousseau, e perfino la "posizione originale" di Rawls, presentano, come risultante di una scena di confronto tra parti potenzialmente in conflitto, versioni ideali di gerarchie sociali che in realtà si sono evolute attraverso varie fasi storiche. La ragione di siffatte patenti finzioni, e il motivo per cui noi le prendiamo seriamente, è che l'unico modo che abbiamo per giustificare la generazione di un ordine sociale comportante l'ineguaglianza fra gli umani, a partire da quella che concepiamo intuitivamente come la "naturale" uguaglianza umana, è quello di riferirci al risultato di un accordo unanime implicito di sospendere questa uguaglianza stessa. Ma la fonte altrimenti inesplicabile della nostra intuizione dell'uguaglianza è precisamente, secondo l'ipotesi originaria che sola la spiega, il modello del reciproco scambio del linguaggio nella scena originaria. Pertanto il "contratto" fittizio non è, come qualcuno potrebbe affermare, l'originale di cui l'ipotesi originaria sarebbe una copia, ma al contrario un esempio del nostro ricorso alla scena originaria per dotarci di una raison d’être etica per la struttura della comunità umana. Ma laddove strutture gerarchiche o indirettamente egalitarie possono essere giustificate da scene di contratto sociale che non hanno alcuna pretesa di rispecchiare una realtà neppure ipotetica, l'ipotesi originaria descrive una scena egalitaria che è ciò che possiamo realizzare di più vicino a "ciò che realmente accadde".

Prendere posizione per l'origine arcaica del linguaggio rende più acute le implicazioni radicali dell'ipotesi originaria, che erano mitigate dal lasciare indeterminato il momento dell'origine. La scena originaria di cui parliamo deve essere l'origine non soltanto del linguaggio, ma di tutte le fondamentali categorie dell'umano. Se continuiamo a figurarci nella nostra immaginazione i nostri antenati Cro-Magnon che cacciano il mammut, seppelliscono i loro morti, creano pitture parietali, statuette, e utensili di osso intagliato, diventa molto più facile concepire una scena di origine nella quale tutte le categorie della cultura umana abbiano la loro radice comune. Ma se, al contrario, rigettiamo simili immagini e accettiamo l'idea che il primo momento del linguaggio deve aver avuto luogo tra creature non ancora adatte ad esso dal punto di vista cerebrale e comportamentale, che avevano sembianze e comportamenti più simili a quelli di primati bipedi che di umani, la cui prima "parola" può ben essere stata un gesto privo di qualsiasi componente fonetica, allora siamo costretti a prendere atto proprio della assoluta radicalità della nostra ipotesi. Ma lungi dal mettere in dubbio l'intera impresa, lo stupefacente riavvicinamento tra questa formulazione minima dell'ipotesi originaria e le conclusioni della recente ricerca scientifica la rendono non solo plausibile ma perfino, oso dire, quasi degna di rispetto.

E' davvero un bene che l'origine arcaica ci forzi ad abbandonare tutte quelle immagini di uomini Cro-Magnon, perché esse nascondono quel che è più difficile da assimilare nella ipotetica scena dell'origine: il fatto che essa è un'occorrenza unica nella biologia darwiniana, un "evento di speciazione" che è veramente un evento – "equilibrio punteggiato", abbondantemente! Quelli che fino a non molto tempo fa affermavano contro ogni logica o precedente l'origine multipla della nostra specie operavano la mera inversione dell'eccezionalismo dell'origine umana, da cui pensavano di rifuggire. Se la monogenesi dell'umano sembra spiacevolmente prossima alla creazione biblica dell'uomo, ciò accade perché la narrazione biblica esprime, per quanto in forma non scientifica, una verità dell'origine umana che la scienza non ha ancora accettato: che questa deve aver avuto luogo in e come un evento. L'origine del segno è l'origine di una nuova coscienza simbolica, e questa coscienza, perfino nella sua forma più rudimentale, non può essere comparsa in modo inconscio.

Che cosa significa dire che l'origine del linguaggio fu un "evento di speciazione"? Chiaramente la costituzione genetica dei partecipanti non fu modificata. Ma a partire da questo modesto ma non impercettibile inizio, i creatori della nuova cultura simbolica si separarono dalle altre bande di ominidi che non possedevano una cultura simile. Il vantaggio di questa cultura, che modellò i nostri antenati in una nuova specie, era, per citare l'espressione formulare dell'ipotesi originaria, che la cultura effettua "il differimento della violenza tramite la rappresentazione". Vi sono nell'ipotesi due elementi complementari che la ricerca scientifica non ha ancora assimilato: l'origine del segno umano in un evento, e la funzione del segno come rappresentazione del sacro, che è, come Girard ci ha insegnato, l'esteriorizzazione del potenziale umano di violenza mimetica autodistruttiva. Non possiamo comprendere un elemento senza l'altro. Perché il segno commemori un evento come origine della comunità umana, questo evento deve essere memorabile in modo insieme assoluto e minimale. Parlerò fra breve della sua minimalità. Ma la sua memorabilità implica l'assoluta necessità dell'evento per la sopravvivenza del gruppo, ovvero il differimento della sua autodistruzione mimetica e il suo costituirsi in comunità umana.

Questo non significa che tutti gli altri gruppi di ominidi che non crearono il linguaggio né lo adottarono dai suoi creatori siano stati distrutti dal conflitto intestino. Dal momento che coloro che usavano il linguaggio, e che usavano anche la cultura, avevano a propria disposizione un più stabile baluardo contro la violenza intestina, essi erano in grado di acquisire mezzi di violenza più potenti e potenzialmente pericolosi. Tali mezzi comprendevano non solo armi più efficaci, ma anche strutture etiche più elaborate implicanti ruoli differenziati protetti da leggi, comprese quelle regolanti il matrimonio che caratterizzano tutte le società umane e alle quali spesso ci si riferisce, in termini alquanto fuorvianti, o come a "interdizione dell'incesto" o come a regole per lo "scambio delle donne". Le società umane governate da proibizioni sacre potevano fronteggiare pressioni mimetiche tali da condurre in società non-umane o ad un'esplosione violenta o all'abbandono dell'unità comunitaria. Quindi nel corso delle generazioni i neo-umani inevitabilmente hanno finito per assorbire, sterminare o scacciare i loro rivali preumani.

Intesa in questo modo, l'origine arcaica non fa che rafforzare l'ipotesi originaria. L'idea che i membri di una società evolutasi evidentemente poco per centinaia di migliaia di anni non avrebbero avuto "nulla di cui parlare" è vera solo se noi pensiamo il linguaggio come qualcosa che è prima di tutto un mezzo per trasmettere informazione circa il mondo. Ma se noi lo comprendiamo come innanzitutto un mezzo di differimento della violenza attraverso la designazione di un mediatore sacro, allora diventa perfettamente plausibile che esso si sia potuto evolvere molto lentamente senza perdere la sua funzionalità a qualsiasi stadio di sviluppo. L'attività rituale, come quella artistica, contiene sempre informazione circa il mondo, ma questa informazione è subordinata all'ordine umano che supporta. Man mano che il cervello divenne sempre più adatto al linguaggio, il linguaggio a sua volta poté diventare sempre più complesso sia nel vocabolario che nella sintassi. La complessità della società non poteva oltrepassare i limiti della cultura simbolica di cui il linguaggio era il sostegno formale, ma l'esistenza di una simile cultura deve aver continuamente spinto la selezione naturale nella direzione dell'adattamento del tipo cultura-linguaggio, con gli ordinamenti sociali più complessi ed efficienti che continuamente emarginavano, eliminavano o assorbivano i loro rivali.

Incidentalmente, il fatto che il linguaggio abbia raggiunto la sua maturità con il cervello pienamente evoluto degli uomini di Cro-Magnon non implica che esso da quel tempo in avanti sia rimasto in una condizione stazionaria. Questo dogma chomskiano, rinforzato dalla paura di sembrare acquiescenti di fronte alla stigmatizzazione colonialista delle lingue "primitive", soltanto di recente è stato infranto. Noi non conosciamo lingue "primitive"; dato il lessico appropriato, tutte le lingue esistenti e storicamente attestate sono egualmente in grado di esprimere tutti i pensieri. Ma, come ha osservato Bernard Bichakjian, tutte le lingue di cui conosciamo lo sviluppo storico si sono evolute irreversibilmente da uno stato più flessivo ad uno meno flessivo (per esempio, dal latino al francese) e, in generale – questa è la principale tesi di Bichakjian – nella direzione della possibilità di una sempre più precoce assimilazione da parte dei bambini.

Quel che non risulta spiegato da questa affascinante ipotesi è, se gli studi di Bickerton sulle lingue creole dimostrano che noi "naturalmente" adottiamo una sintassi basata sull'ordine soggetto-verbo-oggetto, e se, come osserva Bichakjian, i bambini imparano questo tipo di linguaggio più facilmente di ogni altro, il perché le lingue della vecchia generazione fossero così altamente flessive. Suggerirei che questo accredita l'idea che il linguaggio fosse, fino al tempo relativamente recente del decollo culturale che ispirò l'ipotesi tarda ora abbandonata, designato specificamente (il che non significa consciamente) per essere difficile da apprendere per i bambini – o gli adulti. Vestigia di riti di iniziazione linguistica permangono nelle istituzioni di istruzione linguistica religiosamente orientata anche nella nostra società – latino ecclesiastico per i cattolici, ebraico biblico per gli israeliti, arabo coranico per i musulmani, per non parlare dei sacrosanti greco e latino di Eton e di Oxford. Penso che sia preferibile spiegare lo stesso decollo, piuttosto che attribuendolo alla nostra improvvisa acquisizione di un "modulo sintattico", come, all'inverso, un prodotto della liberazione finale del linguaggio dagli stretti confini del sacro e della sua estensione ad un più generale impiego sociale.

Quanto è stato detto fin qui vi ha dato un'idea dell'ipotesi originaria e della sua compatibilità con l'origine arcaica del linguaggio umano. Nel tempo che mi rimane, vorrei suggerire come, così inquadrata, l'ipotesi fornisca la chiave per iniziare l'arduo processo di integrazione degli studi umanistici, compreso il pensiero religioso, con le scienze sociali.

Mi si consenta di iniziare dicendo qualche parola intorno ad un libro importante che è apparso nel 1997, The Symbolic Species di Terrence Deacon. Deacon è un neuroscienziato la cui presentazione della comparsa del linguaggio umano si fonda sulle correnti ricerche sulla struttura e l'evoluzione del cervello; ma a differenza di quasi tutti gli scienziati sperimentali, Deacon possiede una visione d'insieme degli argomenti antropologici più importanti. Egli è acutamente consapevole della differenza qualitativa tra linguaggio umano e sistemi animali, una differenza che egli esprime nei termini di Charles S. Peirce come quella tra segni indexical – quelli appresi tramite l'associazione con il loro oggetto, come nel famoso esperimento di Pavlov in cui ad un cane viene insegnato a far squillare un campanello come un index della presenza di cibo – e i segni simbolici del linguaggio, che sono, come li ha chiamati Saussure, "arbitrari", perché il loro riferirsi ad un oggetto mondano è mediato tramite un sistema di segni in cui i segni sono tutti interrelati tra loro. Infine, laddove Bickerton vede il linguaggio e il pensiero strettamente dalla prospettiva del parlante individuale, persino rifiutando chomskianamente di definire il linguaggio come un modo di comunicazione, Deacon è sensibile alla natura collettiva del linguaggio.

L'idea centrale di Deacon, che il cervello umano con la sua corteccia prefrontale straordinariamente vasta si sia evoluto come risultato del linguaggio piuttosto che essere la causa della sua comparsa, non è un'idea nuova, sebbene precedentemente non sia stata mai presentata con tanta persuasività di dettagli. Ma nella sfera del principale interesse del Colloquium on Violence and Religion, il lavoro di Deacon compie dei passi decisivi. La sua conoscenza della struttura interna "darwiniana" del cervello – determinata non da una mappa genetica ma dalla "sopravvivenza delle più adatte" sinapsi – lo libera dalla monolitica visione chomskiana della sintassi, alla quale la teoria della doppia emergenza di Bickerton ancora paga un tributo. Soprattutto, Deackon scarta i tradizionali scenari "pragmatici" per l'origine del linguaggio e si avvicina molto alla mia ipotesi originaria.

Deacon spiega l'origine della rappresentazione simbolica a partire dalla dipendenza delle società proto-umane dalla carne, procurata da gruppi di cacciatori e cercatori di carogne composti di soli maschi, gruppi le cui attività dovevano rendere necessaria un'assenza dai luoghi di residenza protratta per lunghi periodi. Sotto la pressione di queste circostanze, queste società dovevano essere altamente motivate al mantenimento della fedeltà femminile tramite la creazione di un vincolo simbolico di matrimonio, in contrasto col legame meramente "associativo" della monogamia animale. Un tale rinforzo simbolico doveva avere chiaramente degli effetti vantaggiosi sulla capacità riproduttiva, la forza motrice dell'evoluzione.

Il ragionamento di Deacon, straordinariamente audace e sottile per gli standard delle scienze sociali, non lo conduce alla proposta di un evento originario come tale. Ma la sua elaborazione include molte componenti chiave di un evento del genere:

  1. la carne come nutrimento condiviso dal gruppo come essenziale alla sopravvivenza proto-umana
  2. la difficile necessità di mantenere la pace tra i membri della banda maschile di caccia
  3. la necessità che i cacciatori si trattengano dal mangiare la loro preda sul posto per portarla alle compagne e alla prole
  4. il primo segno come ciò che serve a stabilire un'istituzione etica
  5. la natura collettiva dei significati del linguaggio.
  6. il rinforzo del riferimento simbolico tramite il rituale.

Se noi combiniamo questi sei punti in una scena di rinuncia-seguita-dalla-divisione ritualmente ripetuta, mediata dal segno, della carne del sacro animale/vittima, abbiamo, a tutti gli effetti, l'ipotesi generativa dell'origine del linguaggio.

La lettura del libro di Deacon ha suscitato in me un sentimento ambivalente. Sebbene mi facesse piacere il ritrovare tanti elementi dell'ipotesi da me costruita sulla base della teoria del desiderio mimetico replicati da uno scienziato sperimentale che non ne aveva la minima conoscenza, mi chiedevo se la ricerca empirica non stesse per raggiungere ora il punto in cui essa potrebbe rimpiazzare il pensiero umanistico nello stesso modo in cui la chimica moderna ha rimpiazzato l'alchimia. Ma riflettendo sono giunto alla conclusione che, al contrario, il continuo progresso del lavoro scientifico in questo settore ci fornisce ciò che i Greci chiamavano un kairós, un momento critico di opportunità per noi in quanto rappresentanti del pensiero umanistico e/o religioso basato sulla teoria mimetica del desiderio.

Nel corso della mia carriera universitaria, ho visto la pratica della critica testuale che definisce gli studi umanistici giungere a diventare un modello per le scienze sociali "morbide", poi iniziare una decadenza che corrisponde a quella della stessa categoria della letteratura. Questi sviluppi hanno coinciso, penso non per accidente, con la scoperta da parte di René Girard, entro un contesto letterario, della struttura paradossale della mimesi umana e la sua conseguente costruzione di una antropologia fondamentale su questa base. L'insistenza di Girard sull'idea che i capolavori della letteratura occidentale, dai Greci passando per Shakespeare fino a Dostoevskij e Proust, fornisca una comprensione più acuta del desiderio rispetto alla "teoria" moderna, in particolare a quella freudiana, è indubbiamente giustificata, ma si tratta di una affermazione la cui stessa verità contiene la propria chiusura. Annunciare questa chiusura non significa affermare apocalitticamente la "fine della letteratura", ma semplicemente osservare che letteratura, cinema, televisione e tutto il resto della contemporaneità non ci forniscono più nuove e ancora non teorizzate lezioni circa la natura fondamentale del desiderio. Il risultato è la fine non della letteratura, ma di una certa concezione della letteratura. La rivelazione di Girard sulla mimesi è sia un tributo alla potenza di questa concezione che un presagio della sua scomparsa.

In questo contesto, come evidenzia la storia recente della questione dell'origine del linguaggio, l'iniziativa antropologica sembra destinata a passare dall'ambito umanistico a quello delle scienze sociali. E tuttavia il pensiero umanistico proprio su questo punto ha un contributo centrale da fornire. Il pensiero umanistico è un pensiero paradossale. Nell'epoca del New Criticism il più grande complimento che si potesse fare ad un lavoro letterario era quello di mostrare come esso fosse un ricettacolo di paradossi. Vorrei affermare che il paradosso che rese possibile quel tipo di critica incentrata sul testo, e al quale il suo discorso alludeva sempre, non è niente altro che la struttura paradossale della mimesi, che la cultura ha sempre "conosciuto" ma che per la prima volta è stata esplicitamente articolata da René Girard.

Tra le molte conseguenze del paradosso mimetico, la più carica di significato è la sfera stessa della significazione, il mondo del linguaggio. L'ipotesi originaria descrive niente altro che la "risoluzione" del paradosso della mimesi tramite il differimento effettuato dal segno, la cui sostituzione al suo referente sacro e inaccessibile è il gesto che definisce l'umanità stessa. Uno scienziato intellettualmente curioso come Terrence Deacon può giungere molto vicino a mettere insieme le condizioni necessarie per la nascita del linguaggio. Ma la scena della nascita del segno linguistico o "simbolico" gli sfugge, poiché il discorso scientifico positivo non contiene la categoria del paradosso. Il pensatore francese Jacques Derrida, che nega la validità stessa del concetto di un' "origine del linguaggio", fornisce nondimeno un ingrediente necessario della nostra ipotesi nel suo "non-concetto" di différance, che significa "allo stesso tempo" (un'espressione di per sé paradossale) differimento e differenziazione. Comprendere la nascita del segno è comprendere il non-atto collettivo del differimento che è "allo stesso tempo" l'emissione di un gesto o di un suono che "significa" la scena ed il suo oggetto centrale perché esso, a differenza di un segnale animale, non chiama gli altri all'azione ma, al contrario, diviene un sostituto dell'azione, e la differisce col differenziare i singoli membri del gruppo dall'oggetto e da ciascuno degli altri membri.

Se l'ipotesi originaria è veramente la spiegazione migliore dell'origine del linguaggio, questa verità non può rimanere preclusa alla scienza positiva. Sarebbe assurdo concludere che, poiché le radici dell'ipotesi originaria affondano negli studi umanistici, la teoria mimetica e l'antropologia generativa presentino un interesse soltanto umanistico. Al contrario, il riavvicinamento tra le scienze sperimentali e l'antropologia generativa che il lavoro di Deacon appare presagire ci offre un'opportunità cruciale di integrazione del pensiero paradossale proprio dell'ambito umanistico con il pensiero positivo delle scienze in un modalità di pensiero che non ho alcuna difficoltà a chiamare, alla francese, "scienza umana".

Quel che dà sostanza a questa conclusione è la conseguenza più profondamente paradossale del paradosso della mimesi: che ciò che io chiamo pensiero "umanistico" è in ultima analisi indistinguibile, non dal pensiero scientifico intorno all'umano, ma da un modo di pensare che non appare affatto concentrato sull'umano: quello della religione. Ho intitolato uno dei miei libri Science and Faith nello sforzo di mettere in rilievo come la religione e la scienza non siano condannate ad un dialogo tra sordi ma costituiscano modi complementari ed interagenti di comprensione dell'umano. Il pensiero scientifico può essere portato avanti solo in una condizione di pace metafisica; nella realtà etica della vita sociale umana, la fede è ciò che mantiene le precondizioni di questa pace. Sebbene noi abbiamo imparato sin dal Rinascimento che la religione non serve molto allo studio dell'interazione gravitazionale dei corpi celesti, essa rimane indispensabile al pensiero che si occupa dell'interazione etica tra gli esseri umani. Il fatto che noi comunemente diciamo che la religione "riguarda Dio" più che l'umanità riflette la struttura della scena originaria, nella quale ciò che noi chiamiamo umanità fu costituita, letteralmente, "intorno a Dio" come centro del cerchio umano. Una volta che si sia ammesso, come richiede la logica della teoria mimetica, che il segno originario è equivalente al nome-di-Dio, la scienza dell'origine umana è obbligata a sussumere come ipotesi – ovvero come la versione scientifica della fede – il co-emergere e il co-esistere dell'umano con ciò che può essere compreso soltanto come sussistente in un "altro mondo" perché esso è inaccessibile a noi: il sacro, che noi possiamo afferrare senza violenza solo tramite quel medium che è il segno.

Allora l'antropologia generativa è un qualche tipo di equivalente secolare alla religione? Lasciate che io fornisca uno strumento mnemonico per distinguerle. L'ipotesi originaria è stata qualche volta descritta in termini di una teoria del "big bang" culturale, per analogia col "big bang" cosmologico in cui l'universo emerse o fu creato. L'analogia è affascinante, ma non accurata. Non è l'ipotesi originaria quella che inizia con "al principio il Signore creò i cieli e la terra". E' la religione che dovrebbe essere chiamata l'ipotesi "big bang" dell'origine umana, se non altro perché è tempo che ci rendiamo conto che la storia biblica della creazione è essa stessa un'ipotesi la cui presentazione dell'evento dell'origine riflette una comprensione non ancora padroneggiata dalla scienza.

Se l'ipotesi originaria avanzata dall'antropologia generativa non è un "big bang", che cos'è allora? Penso che sia più preciso descriverla come un "little bang". L'evento originario fu un'operazione iniziale che per definizione non poteva annunziarsi con la potenza drammatica che sarebbe stata disponibile a più avanzati stadi di cultura. E tuttavia un simile evento non poteva neppure essere impercettibile. Non fu un grande ma un piccolo "bang". La sua "piccolezza" lo pone in accordo con il requisito scientifico del rasoio di Occam, di semplificare o minimizzare il più possibile la propria ipotesi. Allo stesso tempo, il "bang" non può, come desidererebbe la scienza positiva, essere minimizzato fino al punto della non esistenza. Se soltanto vi ricorderete il termine "little bang", richiamerete alla mente il legame tra antropologia generativa e religione, e capirete perché io sia tanto felice di aver avuto l'opportunità di parlarvi quest'oggi.

 

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