Anti-pathos

Appunti per un'analisi mimetologica (e originaria) della Coscienza di Zeno

Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosofia.net

  

C'è un piccolo dissidio fra me e Augusta - l'unico - sul modo di trattare bambini fastidiosi: a me pare che il dolore del bambino sia meno importante del nostro e che valga la pena d'infliggerglielo pur di risparmiare un grande disturbo all'adulto; a lei invece sembra che noi, che abbiamo fatti i bambini, dobbiamo anche subirli.

Zeno

Il male del risentimento originario è il prezzo che l'uomo paga per un primo bagliore di lucidità, per il mangiare dell'albero della conoscenza.

Eric Gans, Signs of Paradox

 

  

I. Zeno mimetico: sopravvivenza e potenza

La Coscienza di Zeno [1] inizia con un'espressione di risentimento particolare (e impossibile): quello dello psico-analista dottor S. nei confronti del suo paziente, Zeno. Il dottore dichiara di pubblicare le memorie del suo paziente "per vendetta, e spero gli dispiaccia" (23). Il romanzo termina con una manifestazione di risentimento assoluto: l'umanità intera è vista da Zeno come una massa parassitaria da cui il mondo potrà essere catastroficamente purificato.

Se l'intera opera di Svevo sta, come credo, sotto il segno del risentimento, e se la strategia dissimulatrice, parzialmente fallita, di Zeno che manovra la propria memoria (strategia tanto studiata dalla critica) affonda le sue radici non in un male inteso complesso di Edipo ma in una problematica più radicale, allora è necessario sottoporre il testo sveviano ad un esame che, pur lasciando emergere i segni di un collasso dell'individualità borghese storicamente determinata, e facendo trasparire la crisi definitiva del processo mimetico tradizionale (una crisi che la contemporaneità sta portando a compimento), porti ad evidenza la natura profonda di quel mimetismo stesso. Poiché, a mio avviso, la Coscienza è, all'interno della letteratura italiana del Novecento, l'esempio più cospicuo di una penetrazione - per quanto solo parzialmente consapevole - di quello che costituisce il nodo fondamentale dei rapporti umani, cioè la rivalità mimetica inter- e intra-soggettiva. In questo scritto non posso affrontare le questioni legate alla complessa struttura dell'opera; cercherò invece di mostrare quanto il testo sveviano sia passibile di una lettura mimetologica, e come René Girard ed Eric Gans [2] ci offrano indicazioni utili ad una comprensione generalmente antropologica del personaggio Zeno.

Alla base della teoria mimetica formulata da René Girard sta, come è noto, il concetto del desiderio come ciò che caratterizza l'umano. Non il mero "desiderio appropriativo", comune agli animali, ma il desiderio che si auto-costituisce rispetto ad un modello, e che perciò è chiamato mimetico. In parole semplici: io non desidero questo oggetto perché è desiderabile in sé, ma perché è da me percepito come oggetto del desiderio di altri, che Girard chiama i modelli o mediatori del desiderio. Il desiderio umano è triangolare, sempre. Secondo la teoria mimetica l'umano nasce come essere mimetico-desiderante, e il gruppo umano (l'uomo in solitudine non esisté mai) sconta da sempre il paradosso del double bind: da un lato il desiderio si focalizza sull'oggetto del desiderio dell'altro, senza il quale non esisterebbe, e che è il modello dell'io che media il desiderio, dall'altro proprio il desiderio del modello è l'ostacolo all'adempimento di ciò che senza di esso non si darebbe. In sostanza, il modello contemporaneamente dice: sii come me! Fa come me! e : non essere come me! Non fare come me! Il modello quindi si sente minacciato dalla mimesi dell'altro, mentre nello stesso tempo proprio il suo essere soggetto alla mimesi lo rassicura e gratifica, in quanto il desiderio non sta mai in piedi sulle proprie gambe, e nello stesso tempo vuole essere eterno: nella sua teleologia il fine è il desiderio stesso. Occorre rilevare che la teoria mimetica non ha la presunzione di vedere ora per la prima volta cose mai viste da altri, al contrario ha la convinzione che i grandi della letteratura abbiano visto, ed espresso nelle forme loro proprie, ciò che essa tematizza al presente. Il libro di Girard su Shakespeare ne è la più lampante dimostrazione.[3]

E' assolutamente necessario distinguere sempre tra l'appetito e il desiderio. Mentre il primo appartiene anche agli animali, il desiderio è soltanto propriamente umano. Lo stesso desiderio sessuale, come nota Gans, "in quanto opposto all'appetito sessuale, è desiderio prima di essere sessuale" [4]. Nei decenni trascorsi molta critica sveviana si è persa in un groviglio di sentieri, difficili da percorrere, labili o addirittura aporetici, finendo per ricamare sui segni di feticismo riscontrabili nel testo, perdendo il contatto (o non raggiungendolo mai) con la realtà primaria, quella del desiderio in sé, e non riuscendo a cogliere la necessità, fortissima in Zeno, della contrapposizione ad un rivale mimetico, necessità di mimesi che fa scaturire modelli e rivali in un processo infinito.

Zeno mi appare anzitutto come un maestro di risentimento, che in lui si intreccia col desiderio in modo inestricabile. Egli si sente diverso dagli altri perché

"Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l'illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti più perfetti." (461)

Questa è una delle chiavi del libro - il dongiovannismo sveviano. Il desiderio zeniano delle donne è sconfinato.

"Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte!" (34) "…la mia ultima occhiata dal letto di morte sarà l'espressione del mio desiderio per la mia infermiera".(35)

Questo desiderio senza limite, questa interminata spinta psichica al possesso delle femmine ha però in sé qualcosa di primordiale, ed è espressione non tanto del bisogno di conferma di una potenza virile dubbia, da ottenere attraverso brutali azioni sessuali

("Fino ad allora avevo trattato altrimenti con le donne con cui avevo avuto a fare. Le avevo assaltate mettendo loro prima di tutto addosso le mani".(109); "…nel pensiero io tradivo sempre Augusta e anche ora… con un fremito di desiderio, pensai a tutte le donne che per lei trascuravo".) (200)

quanto di una Potere che sentendosi minacciato dalla morte brama solo la sua sopravvivenza (Canetti), e che nel semplice borghese, quale Zeno in realtà è, trova espressione residua, per quanto concerne l'espressione immediatamente sessuale, solo nel discorso di seduzione maldestra, che talvolta sfiora la pedofilia (Teresina), o mediante il denaro (Carla ecc.). Bisogna poi ricordare che Zeno pensa sempre alla morte, e questo pensiero è un pensiero assolutamente e puramente egoico, ma di una egoità arcaica, legata all'idea di sopravvivenza, come rivela la battuta al padre che gli dice di aver fatto testamento:

"Io non avrò mai questo disturbo perché spero che prima di me muoiano tutti i miei eredi!" (56).  

La paura di invecchiare è da Zeno stesso riportata ad una speciale forma di gelosia: la moglie potrebbe - come gli altri beni, aggiungiamo noi - passare ad altri (188). In verità "l'istante del sopravvivere è l'istante della potenza", scrive Elias Canetti in Massa e potere, [5] ove troviamo un passo che ci illumina l'atteggiamento di Zeno di fronte alla morte del suo rivale-cognato-socio Guido.

"L'istante del sopravvivere è l'istante della potenza. Il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell'atto di sopravvivere, l'uno è nemico dell'altro; e ogni dolore è poca cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo. E' importante però che il sopravvissuto da solo stia di fronte a un morto o a più morti. Egli si vede solo, si sente solo; quando si parla della potenza che gli consente tale istante, non bisogna dimenticare che quella potenza procede dalla sua unicità e solo da essa.

Ogni desiderio umano di immortalità reca in sé la brama di sopravvivere. L'uomo non vuole soltanto esserci sempre; egli vuole continuare ad esserci, quando gli altri non ci siano più. Ognuno vuole diventare il più vecchio e sapere di esserlo; quando si è finito di vivere, si vuole contare almeno sulla durata del proprio nome.

La forma più bassa del sopravvivere consiste nell'uccidere. Così come l'uomo ha ucciso l'animale di cui si nutre, che ha trovato indifeso - e può farlo a pezzi e distribuirne i pezzi quali parti della preda per sé e per i suoi -, così l'uomo vuole anche uccidere l'uomo che gli è di ostacolo, che gli si contrappone quale nemico. Si vuole abbattere quell'uomo per sentire che si esiste ancora quando egli non è più. Egli tuttavia non deve interamente sparire, poiché la sua presenza corporea come cadavere è indispensabile a quella sensazione di trionfo. Ora si può fare di lui ciò che si vuole, senza che egli sia in grado di nuocere. Giace, e giacerà per sempre; non si risolleverà mai più. Gli si possono sottrarre le armi; si possono tagliare parti del suo corpo per conservarle quale perenne trofeo. L'istante di questo confronto con l'ucciso colma il sopravvissuto di un tipo di forza del tutto particolare, che non può essere paragonato ad alcun altro. Nessun altro istante esige con altrettanta forza d'essere ripetuto."

Ciò che non si può ripetere nella realtà diventa oggetto di ripetizione rituale rammemorante, e quindi di ripetizione narrativa. La narrazione riattualizza all'infinito il momento del trionfo. Steso a terra, mentre il soggetto è in piedi e ben vivo, non ci sarà più il corpo fisico del rivale, ma la sua rappresentazione nel mondo trascendentale del segno, nell'universo linguistico-narrativo.

Se noi accostiamo a questa pagina del grande saggio canettiano il celebre "inno alla salute" che prorompe da Zeno dopo il funerale di Guido (da lui mancato) possiamo notare come sia evidente la verità antropologica fondamentale su cui è tessuta tutta la Coscienza

"Quel giorno il tempo s'era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l'aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel movimento che non m'ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto salute e forza. La salute non risalta che da un paragone. Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me, anche la campagna dall'erba giovine. L'estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell'altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata. Era certo che quanto più ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto più discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo. Ma questa era la previsione dell'esperienza ed io non la ricordai; m'afferra solo ora che scrivo. In quel momento c'era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne."(433)

Già possiamo affermare ciò che sarà ribadito in seguito: il paragone da cui può risultare la salute è anzitutto il paragon dell'armi.

Zeno appare ben cosciente della natura del desiderio. Di come esso crei i suoi oggetti, dando loro caratteristiche inesistenti per sé. Pensando ad Ada, che ritiene di aver scelto come sua moglie, il protagonista dice:

"Era la donna da me prescelta, era perciò già mia ed io l'adornai di tutti i sogni perché il premio della vita m'apparisse più bello. La adornai, le prestai tutte le tante qualità di cui sentivo il bisogno e che a me mancavano, perché essa doveva divenire oltre che la mia compagna anche la mia seconda madre che m'avrebbe addotto ad una vita intera, virile, di lotta e di vittoria." (102)

(Per Zeno la vita virile è una vita di confronto-scontro con gli altri maschi, con necessaria lotta ed auspicabile vittoria.)

"Avevo da fare con una fanciulla delle più semplici e fu a forza di sognarne ch'essa m'apparì quale una civetta delle più consumate". (104) "Vero è che oramai desideravo tutta Ada cui avevo continuato a levigare assiduamente le guancie, a impicciolire le mani e i piedi e ad isveltire e affinare la taglia." (106)

Per Zeno vi sono tre modelli fondamentali. Due di questi sono, in modo diverso, ideali: uno astratto ideologico (nietzscheano-darwiniano: il trionfatore); uno ambientale (il triestino borghese commerciante di successo). Vi è poi il modello-ostacolo in senso girardiano: Guido. Scrive Eric Gans che "La mimesi stessa definisce una gerarchia, per quanto instabile, tra il soggetto-io e l'altro-modello, e questa gerarchia è la base su cui si fondano tutte le altre".[6] Questa gerarchia nel caso di Zeno è massimamente instabile. E lo è proprio perché il principale modello-mediatore del desiderio di Zeno è Guido, cioè una personalità debole, poco sicura di sé, e sicuramente scelta da Zeno per il semplice motivo che fin dal primo momento risulta evidente la facilità con cui potrà essere sconfitto.

 

II. Guido: il rivale uguale e la violenza differita. 

Guido Speier è per Zeno un rivale uguale. Ciò che è più vicino ad un fratello è un cognato. Il nucleo del romanzo non è in verità nel rapporto edipico al padre, su cui troppo si è detto, cadendo nella più micidiale trappola del testo, ma nella rivalità fraterna: il tema del doppio, anzi dei doppi e della loro proliferazione.

Svevo appare perfettamente cosciente del fatto che non è il desiderio appropriativo quello che fonda la rivalità, e di questa consapevolezza il romanzo presenta chiare prove. Ad esempio, quando alle favole composte da Guido Zeno sente il bisogno di rispondere, in gara davanti agli occhi di Carmen, la segretaria della "associazione commerciale"che è l'amante di Guido, con altre favole più belle di quelle composte dal cognato, lo scrittore dice una cosa fondamentale.

"Che cosa c'entravo io? Non avevo da battermi per l'ammirazione di Carmen della quale, come ho detto, non m'importava nulla, ma ricordando il mio modo di fare, devo credere che anche una donna che non sia rilevata dal nostro desiderio possa spingerci alla lotta. Infatti non si battevano gli eroi medievali anche per donne che non avevano mai viste? A me quel giorno avvenne che i dolori lancinanti del mio povero organismo improvvisamente si facessero acuti e mi parve di non poterli attenuare altrimenti che battendomi con Guido facendo subito delle favole anch'io".(344) 

Il modello precede l'oggetto di desiderio, che è scelto proprio perché desiderato da quello. Stante l'evidente tendenza di Zeno alla menzogna, e senza per questo volersi accanire su un'ipotesi di forzatura del testo (ma questo testo invita sempre alla demistificazione) possiamo supporre che in realtà il protagonista abbia conosciuto Ada soltanto dopo Guido. In effetti dichiara: "Io l'avrei odiato anche se Ada non fosse stata presente".(132) E' difficile immaginare una più chiara espressione di rivalità.

"…dietro di noi si sentì un'invocazione esitante:

- Se permette, signorina!

Mi volsi indignato. Chi osava interrompere le spiegazioni che non avevo ancora iniziate? Un signorino imberbe, bruno e pallido la guardava con occhi ansiosi . A mia volta guardai Ada nella folle speranza ch'essa invocasse il mio aiuto. Sarebbe bastato un suo segno ed io mi sarei gettato su quell'individuo a domandargli ragione della sua audacia. E magari avesse insistito. I miei mali sarebbero stati guariti subito se mi fosse stato concesso d'abbandonarmi ad un atto brutale di forza.

Ma Ada non fece quel segno. Con un sorriso spontaneo perché mutava lievemente il disegno delle guancie e della bocca ma anche la luce dell'occhio, ella gli stese la mano:

- Il signor Guido!

Quel prenome mi fece male. Ella, poco prima, mi aveva chiamato col nome mio di famiglia.

Guardai meglio quel signor Guido. Era vestito con un'eleganza ricercata e teneva nella destra inguantata un bastone dal manico d'avorio lunghissimo, che io non avrei portato neppure se m'avessero pagato per ciò una somma per ogni chilometro. Non mi rimproverai di aver potuto vedere in una simile persona una minaccia per Ada. Vi sono dei loschi figuri che vestono elegantemente e portano anche di tali bastoni". (130-131)

Si vede qui l'ambivalenza della figura di Guido, un'ambivalenza che resterà fino alla fine. La sua comparsa è marcata da elementi di repulsione. I suoi occhi sono ansiosi, chiaro segno, come il suo esser pallido, di debolezza, mentre non può sfuggire come il bastone, per quanto di cattivo gusto, sia un segno di forza, che evoca addirittura loschi figuri, propensi evidentemente alla violenza. Girard ci ha insegnato, meditando e sviluppando la lezione di Max Scheler, che il modello oggetto di risentimento è sempre nel contempo idealizzato, nel senso che gli si attribuiscono caratteristiche superiori che non ha oggettivamente, ma anche caratteri deteriori che non corrispondono alla realtà.

Questo brano ci mostra un altro punto importante: Zeno ha in sé una tendenza all'atto di forza, all'aggressione, cui però non cede mai, perché appunto un siffatto cedimento non gli è concesso dalla sua condizione socio-psicologica e generalmente culturale, e differisce sempre la violenza nel linguaggio, che quindi risponde in lui perfettamente alla funzione assegnatagli dall'antropologia generativa.

Nonostante le ripetute proteste di amicizia nei confronti del cognato, che Zeno giunge a definire "il mio più intimo amico" subito dopo il suo funerale, il testo sveviano è tappezzato di espressioni di ostilità di ogni tipo. Guido è chiamato di volta in volta antipatico (134), un vero imbecille (143), ciarlatano (151), di nuovo imbecille e bestione (155), una bella canaglia (290), smisuratamente presuntuoso (342), astuto imbecille e scimunito (347), un bambino (380), poco virile nella sventura e nauseante (408).

Per quel che riguarda l'ambivalenza del modello-rivale, è di grande importanza l'episodio di via Belvedere (166 sgg.). "Ma nello stesso tempo egli era una persona molto importante per me e non avrei saputo rifiutargli niente" dice Zeno all'inizio della fatidica passeggiata che lo porterà alle soglie dell'omicidio. Dopo queste parole il testo riporta che "la compagnia di Guido fu addirittura terribile" e poi che nel discorrere il protagonista trova "il modo di addentarlo vigorosamente". Subito dopo "fummo di nuovo buoni amici". Quindi il protagonista afferma di aver sentito "con ammirazione" per la sua dottrina una tirata antifemminista di Guido ispirata a Weininger. Poi però la chiacchiera del futuro cognato è una "tortura". Ed ecco che, essendosi Guido sdraiato su un muricciolo sotto cui passa una via, esponendosi al rischio di una caduta da dieci metri, "mi misi ad augurare ferventemente ch'egli cadesse".

"In quella posizione egli continuava a predicare contro le donne. Diceva ora che abbisognavano di giocattoli come i bambini, ma di alto prezzo. Ricordai che Ada diceva di amare molto i gioielli. Era dunque proprio di lei ch'egli parlava? Ebbi allora un'idea spaventosa! Perché non avrei fatto fare a Guido quel salto di dieci metri? Non sarebbe stato giusto di sopprimere costui che mi portava via Ada senz'amarla? In quel momento mi pareva che quando l'avessi ucciso, avrei potuto correre da Ada per averne subito il premio. Nella strana notte piena di luce, a me era parso ch'essa stesse a sentire come Guido l'infamava.

Debbo confessare ch'io in quel momento m'accinsi veramente ad uccidere Guido!" 

Zeno non pone tuttavia in atto il suo proposito omicida. Entra in funzione un vincolo che lo blocca sempre sulla via della violenza. Ma non si tratta di alcunché di morale. Dice soltanto che desiderava dormire tranquillamente quella notte. E' poi colto da un violento attacco di dolore psicosomatico, che esprime il suo blocco. Ma annota in seguito che, avendo riferito ad Augusta i discorsi antifemministi del cognato (violenza fisica no, maldicenza o attacco verbale sì),

"Il ricordo di quelle mie parole m'amareggiò per varii giorni, mentre posso dire che il ricordo di aver voluto uccidere Guido non m'aveva turbato neppure per un'ora. Ma uccidere e sia pure a tradimento, è cosa più virile che danneggiare un amico riferendo una sua confidenza." (177) 

Come la gestione della rivalità mortale con Guido, così anche quella del tradimento coniugale rivela in Zeno la totale estraneità alla prospettiva morale ebraico-cristiana.

"Di rimorso non v'era traccia in me. Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso. Anche nella tragedia antica la vittima non tornava in vita e tuttavia il rimorso passava. Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza. Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro."(245)

I rimorsi e i sensi di colpa zeniani appartengono sempre alla sfera psicologica-verbale e non a quella etica. Non è casuale che anche qui compaia l'arcaismo, con il riferimento alla tragedia greca. Saltando due millenni di cultura giudaico-cristiana, come negli ultimi secoli molti intellettuali dell'Occidente hanno voluto fare (Nietzsche e Heidegger, certo, ma anche Freud), Svevo si riallaccia ad una cultura vittimaria basata sull'idea di capro espiatorio, di pharmakos come via alla purificazione. La vittima non torna in vita, ma il rimorso passa. E passa perché la deformità è guarita. La purificazione è ottenuta sempre mediante vittima.

 

III. Altri rivali.

Ma se Guido è l'antagonista principale, nel testo sveviano ne emergono altri: il fratello, il padre, il signor Malfenti.

La prima rivalità è quella tra fratelli (Caino e Abele). Anche per Zeno è la prima rivalità. Il fratello è eliminato: annullato fin nella memoria, a parte una brevissima illuminazione che ne rivela il volto pallido e il prognatismo. E tuttavia il fratello compare in due momenti distinti, alla fine e all'inizio del romanzo. La sua figura assente è evocata esattamente nel momento della rievocazione della genesi della sozza abitudine del fumo, all'inizio del capitolo III, che corrisponde nella sostanza alla fase iniziale della cura psicoanalitica, ed è evocata altresì proprio nel momento della crisi definitiva del rapporto alla psicoanalisi, nel capitolo VIII.

Nel primo di questi due momenti, (26-27) la genesi del vizio del fumo è chiaramente riportata ad un contesto fortemente mimetico. Ciò è reso evidente nella scena recuperata dalla memoria di Zeno. Intorno alle scatole di sigarette si raggruppano delle persone, che poi si mutano in buffoni che lo deridono. La percezione dell'esser derisi è una delle condizioni che concorrono a scatenare il risentimento. Una delle figure è Giuseppe, l'altra il fratello minore di Zeno, di cui non si vedono le sembianze. E Zeno si dice "certo che ne offrì di più a mio fratello che a me". E' la sindrome di Caino: il soggetto si convince di essere trattato ingiustamente, cioè peggio di suo fratello, ricevendo da un terzo meno di quanto gli spetterebbe, rispetto all'altro che non ha alcun merito. Quindi viene ricordata una gara a chi fuma più sigarette, che Zeno vince. La sigaretta si connota fin dall'inizio come segno di rivalità, di contesa mimetica. E si sa che il primum movens dei ragazzini verso il fumo è l'imitazione dei grandi, il voler essere come loro. Il padre di Zeno è un accanito fumatore. Fumare molto significa essere come lui.

Nel secondo momento si ha ancora una scena della fanciullezza sognata, in cui il fratello "non appariva, ma ne era l'eroe".

"Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola. Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore." (446)

 

Del padre la critica sveviana si è occupata moltissimo, esagerando, a mio avviso, l'importanza di questa figura. Dirò soltanto che la mimesi da parte di Zeno è talmente forte, che, allorquando il padre è in agonia, egli quasi inconsciamente ne imita il ritmo accelerato della respirazione. (66) Certo tutto il capitolo IV (La morte di mio padre) è disseminato di affermazioni della debolezza paterna. E se c'è una cosa indubitabile in Zeno è il suo disprezzo per la debolezza.

Giovanni Malfenti, colui che diventa il suocero di Zeno, è un uomo potente.

"Il desiderio di novità che c'era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero abbastanza còlto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiandolo." (83)

Zeno oscilla sempre, nei confronti dell'altro da lui, tra invidia (ammantata talvolta da ammirazione), se quello gli appare superiore, o antipatia se l'altro è dissimile. Sempre però l'antagonismo mimetico è operante. Nei confronti di Malfenti la mimesi zeniana è fulminea.

"Quando io ammiro qualcuno, tento immediatamente di somigliarli. Copiai anche il Malfenti." (84)

Cosa ammira Zeno nel suocero? La forza brutale. (89) Malfenti è un commerciante di successo, del tutto esente da quelle che lui chiama "ubbie umanitarie", la cui unica morale è il successo negli affari. Alla fine del romanzo, quando Zeno avrà ottenuto il successo commerciale, non sarà diventato un Malfenti con la differenza di una coscienza più sviluppata della natura mimetica dell'umano?

Sul suo letto di morte il suocero si mantiene perfettamente coerente con sé stesso, ed esprime, con la brutalità che gli è solita e che Zeno apprezza, l'invidia del malato nei confronti del sano. Un'invidia spietata.

"Dal suo letto di morte mi disse che ammirava la mia sfacciata fortuna che mi permetteva di movermi liberamente mentre lui era crocifisso su quel letto. Io, stupito, gli domandai che cosa gli avessi fatto per fargli desiderare di vedermi malato. Ed egli mi rispose proprio così:

- Se dando a te la mia malattia io potessi liberarmene, te la darei subito magari raddoppiata! Non ho mica le ubbie umanitarie che hai tu!" (89)

 

Occorre ricordare che, a differenza di molti altri autori del suo tempo, non c'è in Svevo alcun elemento di rifiuto sociale o esplicitamente culturale del tempo presente, né trascendimento utopico nel futuro (che non sia nella forma nichilistica del finale) né rimpianto del passato pre-borghese. "Ma il fatto che il passato non sia desiderabile non giustifica ancora il presente, come la ragione analitica vorrebbe far credere con troppa fretta". [7]

La sfasatura tra il tempo dello Zeno narrato e quello degli altri personaggi (fonte dell'umorismo) può trovare spiegazione gansianamente nel differimento della violenza. [8] In molte pagine del romanzo Zeno giunge, in effetti, sulla soglia della violenza (l'episodio più significativo è quello, di cui abbiamo detto, di via Belvedere, ma ce ne sono altri, come il mancato scontro col maestro di canto di Carla, o l'azione violenta sognata contro la fidanzata Augusta - violenza carnale), che peraltro non condanna mai in se stessa, mentre più volte attacca i vittimisti: e tuttavia egli non varca mai i confini del mondo trascendentale del segno per porre in atto un'azione realmente violenta. E' per questo che il comportamento di Zeno può essere sottoposto a buon diritto contemporaneamente ad un'analisi mimetologica e ad un'analisi originaria.

Zeno vede ovunque il nemico, in ogni maschio.

"Durante quei giorni di segregazione la gelosia più amara fu la mia compagna di tutte le ore. Era un proposito eroico quello di voler correggersi di ogni difetto per prepararsi a conquistare Ada dopo qualche settimana. Ma intanto? Intanto ch'io m'assoggettavo alla più dura constrizione, si sarebbero tenuti tranquilli gli altri maschi della città e non avrebbero cercato di portarmi via la mia donna? Fra di loro v'era certamente qualcuno che non aveva bisogno di tanto esercizio per essere gradito. Io sapevo, io credevo di sapere che quando Ada avesse trovato chi faceva al caso suo, avrebbe subito consentito senza attendere di innamorarsi. Quando in quei giorni io m'imbattevo in un maschio ben vestito, sano e sereno, l'odiavo, perché mi pareva facesse al caso di Ada. Di quei giorni, la cosa che meglio ricordo è la gelosia che s'era abbassata come una nebbia sulla mia vita". (123) 

La disposizione onniconflittuale di Zeno risalta chiarissima durante il viaggio di nozze.

"Nel lungo cammino traverso l'Italia, ad onta della mia nuova salute, non andai immune da molte sofferenze. Eravamo partiti senza lettere di raccomandazione e,spessissimo, a me parve che molti degl'ignoti fra cui ci movevamo, mi fossero nemici. Era una paura ridicola, ma non sapevo vincerla. Potevo essere assaltato, insultato e sopra tutto calunniato, e chi avrebbe potuto proteggermi?

Ci fu anche una vera crisi di questa paura della quale per fortuna nessuno, neppur Augusta, s'accorse. Usavo prendere quasi tutti i giornali che m'erano offerti sulla via. Fermatomi un giorno davanti al banco di un giornalaio, mi venne il dubbio, ch'egli, per odio, avrebbe potuto facilmente farmi arrestare come un ladro avendo io preso da lui un solo giornale e tenendone molti, sotto il braccio, comperati altrove e neppure aperti. Corsi via seguito da Augusta a cui non dissi la ragione della mia fretta."(187)

Qui è evidente come il mimetico Zeno viva nella continua paura di un confronto da cui egli possa uscire sconfitto. Egli evidentemente proietta la sua stessa disposizione al risentimento su tutti coloro con cui viene in contatto, se sono maschi. E' un confronto che può nascere ovunque e per qualsiasi motivo. Il che significa che non ha alcun motivo se non se stesso. Polemos è il padre di tutto.

 

IV. La natura pura: la legge del più forte.

Polemos è il padre di tutto. In questo senso possiamo parlare di un naturalismo sveviano, nel senso cioè che la natura, vista come legislatrice inesorabile, è il punto di riferimento costante, la pietra di paragone che consente di misurare la follia essenziale dell'umano, la quale consiste, secondo Svevo, nell'opposizione alla natura stessa, che chiede conflitto universale, vittoria dei migliori, dei più atti alla vita. E' una follia che confina con l'impurità, la quale costituisce una tematica fondamentale, quanto scarsamente rilevata dalla critica, della Coscienza. Vediamo alcuni passi in cui la natura animale offre a Zeno indicazioni che egli generalizza ed estende al campo dell'umano.

L'infermiera Giovanna appare a Zeno ripugnante perché, oltre ad un aspetto da vecchia, ha anche gli occhi "giovanili e mobili come quelli di tutti gli animali deboli". (43)

"L'animale malato non lascia guardare nei pertugi pei quali si potrebbe scorgere la malattia, la debolezza"(59).

E' detto in riferimento al padre che evita lo sguardo di Zeno. 

"Molti animali diventano preda dei cacciatori o di altri animali quando sono in amore." (128)

Cui segue l'episodio della mosca colpita da Zeno, che stordita impiega molto tempo a lisciarsi le ali non lese rivelando di non sapere

"…da quale organo venisse il suo dolore; poi l'assiduità del suo sforzo dimostrava che c'era nella sua minuscola mente la fede fondamentale che la salute spetti a tutti e che debba certamente ritornare quando ci ha lasciato."(129)

Ove è interessante l'attribuzione alla mosca di una mente e di una fede, che non significa tanto l'elevazione ironica della mosca allo status degli umani quanto lo schiacciamento di questi ultimi sullo stesso piano di realtà degli insetti. O dei crostacei, come si vede nell'episodio della pesca notturna. Quando Zeno accetta l'invito del cognato a partecipare ad una battuta di pesca il gamberetto infilzato all'amo gli sembra

"…piuttosto meditabondo che spasimante dal dolore. Forse ciò che produce il dolore nei grandi organismi, nei piccolissimi può ridursi fino a divenire un'esperienza nuova, un solletico al pensiero." (337)

Gli uccelli sono chiamati in causa per sottolineare l'importanza del violino nella competizione tra Guido e Zeno per la conquista di Ada.

"Mi pareva ridicolo perché veramente il violino tra esseri umani non avrebbe potuto contare nella scelta di un marito, ma ciò non mi salvava. Io sentivo l'importanza di quel suono. Era decisiva come dagli uccelli canori."(139)

L'animalità è semplice, come la legge del più forte.

"Una volta sposati non si discute più d'amore e, quando si sente il bisogno di dirne, l'animalità interviene presto a rifare il silenzio. Ora tale animalità può essere divenuta tanto umana da complicarsi e falsificarsi ed avviene che, chinandosi su una capigliatura femminile, si faccia anche lo sforzo di evocarvi una luce che non c'è."(180)

Dove è evidente che l'animalità si distingue dall'umano per l'assenza di complicazione e di falsificazione, ovvero per il fatto che essa possiede il carattere della purezza, mentre ciò che contraddistingue l'umano è il desiderio che crea il suo oggetto - la bellezza, nella fattispecie dei capelli - che nella realtà non c'è.

"Guido m'aveva detto che Ada non voleva credergli che certe vespe sapevano paralizzare con una puntura altri insetti anche più forti di loro per conservarli così paralizzati, vivi e freschi, quale nutrimento per la loro discendenza. Io credevo di ricordare ch'esisteva qualche cosa di tanto mostruoso in natura, ma in quel momento non volli concedere una soddisfazione a Guido: - Mi credi una vespa che ti dirigi a me? - gli dissi ridendo." (247)

Lo scherzetto di Zeno, che volge in lusus il discorso serio di Guido, è invero assai più serio di quello, e indica una realtà ben più mostruosa. Lui vuole essere quella vespa, desidera la paralisi del suo rivale. Sempre il comportamento degli animali è evocato all'interno di una situazione conflittuale, di lotta, di competizione in cui ci sono il predatore e la preda, il malato e il sano, il vincente e il perdente. E talvolta la pura rabbia dello sconfitto si volge in furore verbale illustrato da una similitudine animale. Come quando Zeno viene lasciato dall'amante Carla.

"Mi sentivo perduto e nella mia rabbia, simile al cane che, quando non può più raggiungere il boccone desiderato, addenta le vesti di chi glielo contende, dissi:

- Questo tuo sposo ha uno stomaco eccellente. Oggi digerisce me e domani potrà digerire tutto ciò che vorrai."(298)

Può capitare che un animale subisca la violenza di Zeno, che fisicamente non si scarica mai su di un uomo, e viene sempre differita. Ciò accade col cane da caccia di Guido che, assente il padrone, riceve i calci "educativi" di Zeno, e manifesta poi per lui un'antipatia che Guido fraintende, non accogliendola come una rivelazione dei reali sentimenti del suo cognato, quale essa è. (316)

La compassione vera e propria, quella che per Dostoevskij è l'unica vera legge dell'umano, a Zeno è sostanzialmente sconosciuta. E il motivo è che la sua inesistenza in natura non la legittima neppure tra gli esseri umani.

"Secondo me neanche chi è più innocente e più disgraziato di Guido merita compassione, perché altrimenti nella nostra vita non ci sarebbe posto che per quel sentimento, ciò che sarebbe un grande tedio. La legge naturale non dà il diritto alla felicità ma anzi prescrive la miseria e il dolore. Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s'affrettano di nascere. Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze. Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l'equilibrio, per un istante, viene ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano. Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all'ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad una parte maggiore. Perché non muoiono e non vivono tacendo? E' invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi. L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore". (407)

In questa pagina, fondamentale per la comprensione di tutto il romanzo, la legge naturale è invocata in un quadro di risentimento che partendo dal cognato investe tutti coloro che, inetti al conflitto vitale e soccombenti, gridano all'ingiustizia. Syn-pathos e Anti-pathos sono qui chiaramente delineati.

 

V. Del risentimento e della purificazione.

Il dottor S. è risentito verso Zeno. Questo risentimento ha un motivo? Potrebbe esprimere il rifiuto sveviano della realtà della psico-analisi freudiana (non importa quale sia il grado di conoscenza della stessa da parte dello scrittore) in quanto espressione di pura parola, senza riscontro nel reale. (Affermazione di positivismo […io sono un positivista convinto ed ai miracoli non ci credo- 135], esame delle urine ecc.)

Bisogna ricordare come tutto il romanzo stia sotto il rigetto della psicoanalisi, che trova la sua più chiara e violenta formulazione da parte di uno Zeno che si proclama assolutamente sano alla fine del romanzo.

"Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria?" (444)

In quanto analista di discorsi il dottore è uno che ha a che fare con le parole e solo con le parole. Non può attingere il reale. Con le sue "memorie" Zeno lo sfida a farlo. L'elemento autogiustificativo dei comportamenti di Zeno per il lettore-dottore è secondario rispetto all'impossibilità di discernere nel testo anche la pura realtà degli eventi dalla ricostruzione che Zeno ne fornisce, che chiaramente è manipolata. Ma se Zeno è Svevo, anche il dottor S(vevo) lo è: sono doppi. E la relazione tra i doppi è sempre inevitabilmente mimetica e violenta, mentre i doppi si riproducano, tendenzialmente senza fine. Svevo che ha generato Zeno non può che generare il fratellino, Malfenti, Copler, Guido, il dottor S(alute).

Desiderio di Zeno: la Salute. Essa corrisponde alla vita vera, al vero essere, che si trovano sempre dove l'io non è.

La Salute presenta il carattere della trascendenza, nel suo sottrarsi. E' il residuo dell'oggetto centrale divino. E' dunque l'oggetto del risentimento originario. E qui sta la spiegazione della fantasmagoria finale del romanzo. Come scrive Gans, "L'ironico è sempre un masochista; la sua prova di essere è fornita dalla sua sofferenza" [9] e "La persistenza dell'ironia è una prova che il risentimento verso la divinità dura più a lungo della fede in essa; l'ironico è un ateo che condanna Dio per la sua mancata esistenza". [10]

Il chiacchierone è sempre un risentito. E come anti-eroe domina la letteratura moderna [11]. Zeno è un risentito. Lo è originariamente, e mantiene questo carattere sottraendosi ad ogni conciliazione, se non apparente. Così che la fine della Coscienza non è posticcia, ma necessaria, è l'omega che corrisponde all'alfa dell'inizio. Se la Salute è inattingibile, lo è perché il Sacro è svanito, ed esso per Zeno coincide con la legge del più forte, che il processo di civilizzazione ha fatto decadere. Perché la Salute è esperibile solo come vittoria nel conflitto, quella femminile è secondaria e ingannevole. Come Guido morto (427) è ormai "un puro", così solo un'estinzione globale della vita umana sulla Terra potrà purificare il pianeta. [12]

Max Scheler nota come tra i più affetti dal risentimento siano i vecchi, che vedono assegnato alla gioventù quel vigore che meglio starebbe in loro, che tanto più sono saggi ecc.. Svevo scrive Senilità. Lo Zeno della fine del romanzo, che si figura l'onnidistruzione, è vecchio. Il concetto di mendacità organica è anch'esso elaborato da Scheler, ovvero l'idea per cui il risentito diviene sempre più inabile al contatto umano, essendo stata distrutta in lui, che si vede circondato da nemici, la simpatia per gli umani. Egli tende a confondere la bontà con l'inimicizia. [13]

Quanto maggiore è il grado di autocoscienza del risentito, tanto più l'ego si ipertrofizza, relegando l'altro a funzione, ostacolo, fantasma. E infatti noi vediamo tutti gli altri personaggi del romanzo attraverso gli occhi di Zeno narratore e di Zeno personaggio, senza che possiamo aver mai la garanzia della veridicità. Ovvero: se Zeno il narratore dice il vero, Zeno il narrato dice spesso menzogne per i più vari motivi. Zeno inoltre tende sempre a mostrare gli altri come scarsamente autocoscienti, e proprio in ciò diversi da lui.

Il risentimento presenta un carattere di circolarità. Quel che la critica ha notato a proposito della formula che si trova alla chiusa del capitolo IV e del VII

"Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!" (80) "Ecco ch'essa ci abbandonava e che mai più avrei potuto provarle la mia innocenza."(442)

e che segnerebbe la mancanza di progresso nell'autonomia della vita di Zeno, trova spiegazione solo all'interno di una sapienza del risentimento, della sua natura e dell'impossibilità di uscire dalle sue spire se non in una logica di capro espiatorio. Questo nella Coscienza c'è; è Guido, ma per i motivi che facilmente si possono cogliere, non è in grado di adempiere pienamente la sua funzione, sì che il risentimento di Zeno, accumulandosi, giunge ad un vertice supremo, ove per la purificazione del mondo l'intera umanità deve essere da esso espulsa.

 

VI. Una fantasia arcaica: il linciaggio di Basedow 

Il morbo di Basedow svolge un ruolo importante nel romanzo. Dopo il parto di una coppia di gemelli (è un caso il comparire di questo ulteriore elemento di rinvio ad un arcaico segno di crisi?), la malattia colpisce Ada, la moglie di Guido e cognata di Zeno, che lui avrebbe desiderato (forse) per sé. La priva della salute e della bellezza. Riflettendo su questa patologia Zeno giunge alla sua celebre definizione della salute come semplice condizione intermedia tra i due estremi di una scala:

"La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo. (…)

Mi parve ch'egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un'estremità - quella di Basedow - stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch'esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la rattengono. Io sono convinto che volendo costituire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta cosi, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca." (354)

E tuttavia questo è un convincimento provvisorio in Zeno. Alla fine egli proclamerà la sua salute assoluta. Ma potrà farlo solo essendosi convinto di due cose: che la salute è anch'essa, come la malattia, una convinzione, e che lui, Zeno, è un vincitore. Dunque la malattia altro non è che la convinzione, talvolta come nel suo caso infondata, di essere dei perdenti. E' anche significativo che la salute di Zeno sia conquistata sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale. E che il segno della salute sia dato dal denaro che affluisce copioso nelle sue tasche. Il successo nella competizione interumana contemporanea è successo economico, e il marchio dei vincenti è il denaro.

"Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute." (478)

Ma nello stesso tempo la Salute non è data all'uomo proprio in quanto è umano, essa infatti spetta a pieno titolo solo all'oggetto centrale. Nell'universale mancanza di salute degli umani, Zeno può sentirsi sanissimo. Dirsi sani o malati è perfettamente equivalente, se si è puramente e semplicemente umani.

"La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria. (…) Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo." (…)

A causa della tecnica,

"l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie." (479-80)

La tecnica secondo Svevo è quella che impedisce la selezione naturale. Ammalati sono quelli che sfuggono alla pura natura. Tutti gli uomini. E tutti gli uomini sono risentiti. Da che cos'altro sarà animato l'onnidistruttore, se non da ciò che caratterizza tutti gli umani? Egli infatti è fatto come tutti gli altri. Solo è un po' più ammalato (risentito) di loro. In che misura Zeno-Svevo si identifica in lui? Arrischio: totalmente.

La fantasmagoria finale della Coscienza di Zeno sembra presentare un carattere molto moderno, o addirittura anticipativo, ma in verità non è che la conseguenza di una logica della purificazione, che è arcaica e della quale il testo presenta molti segni. Intanto mi sembra indubbio che per Zeno malattia e impurità coincidano. Fin dall'inizio, dove il fumo è detto un'abitudine sozza, passando per i molti luoghi in cui il sogno zeniano di salute si connota di un'aura di purezza, come nell'esplosione liberatoria dopo il funerale di Guido. Malattia è impurità, polluzione, inquinamento. Purificatori sono l'esplosione ignea, la violenza, il linciaggio. E qui mi pare di estremo interesse il sogno di Zeno in cui compare lo stesso scienziato che ha dato il nome alla malattia da cui Ada è stata colpita, e che qui si identifica con la malattia stessa, o meglio con un vero e proprio untore, un pharmakos . Piuttosto che cercare delle somiglianze tra il Basedow del sogno e il padre di Zeno, si farebbe meglio a leggere il brano di Filostrato in cui Apollonio di Tiana purifica la città di Efeso dalla malattia epidemica che l'ha attaccata ricorrendo al linciaggio di un individuo che ricorda il Basedow sveviano in un modo clamoroso. René Girard nel suo ultimo libro [14] insiste sul carattere rivelatore e anticristico dell' orribile miracolo di Apollonio. Ecco il brano di Filostrato

Con questi discorsi teneva dunque unita la cittadinanza di Smirne. Ma in Efeso la malattia aveva preso a infuriare, né vi era alcun rimedio contro di essa; e gli abitanti mandarono un'ambasceria ad Apollonio, per averlo come medico della pestilenza. Egli pensò allora di non dover perdere tempo nel viaggio; disse "Andiamo", e fu subito a Efeso, ripetendo, credo, il prodigio di Pitagora, quando si trovò nello stesso tempo a Turii e a Metaponto. Raccolti dunque gli Efesii, "Rassicuratevi," disse "oggi stesso porrò fine alla malattia". Così detto, condusse tutta la cittadinanza nel teatro, dove si leva il monumento del dio Tutelare. Qui apparve loro un vecchio mendicante, che simulava di essere cieco: aveva una bisaccia e in essa una crosta di pane, era coperto di cenci e il suo volto era rappreso di sudiciume. Avendo allora disposto gli Efesii intorno a lui, disse: " Raccogliete quante più pietre vi riesce, e lapidate quest'essere nemico agli dèi ". Gli Efesii si chiedevano sbigottiti cosa intendesse dire, e pensavano che fosse un'empietà uccidere uno straniero tanto miserabile - li supplicava infatti, e tentava con le sue parole di muoverli a pietà -; ma Apollonio insisteva, esortandoli a colpirlo e a non lasciarlo andare. Infine alcuni presero a gettare pietre contro di lui, e il vecchio che prima pareva cieco levò improvvisamente lo sguardo, mostrando gli occhi pieni di fuoco; allora gli Efesii compresero che era un demone, e lo lapidarono sino a che rimase coperto da un cumulo di sassi. Dopo qualche momento, Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di constatare quale mostro avessero ucciso. Quando venne portato alla luce il corpo di colui che credevano di avere lapidato, il vecchio era scomparso; e alla loro vista apparve un cane simile nell'aspetto a un molosso, ma di dimensioni pari a un enorme leone: esso era sfracellato dalle pietre e vomitava schiuma, come gli animali posseduti dalla rabbia. L'altare del dio Tutelare, che è Eracle, si leva appunto nel luogo stesso, dove venne sterminato questo spettro. [15]

 

Ed ecco il brano della Coscienza.  Mi pare che Basedow presenti tutti i caratteri del capro espiatorio. E' vecchio, estraneo, cencioso, ha un atteggiamento tra il minaccioso e l'impaurito. E' colui che bisognerebbe ammazzare. E la folla chiede che sia ucciso. Ma il mondo moderno non accetta un'aperta logica di capro espiatorio. Né lo stesso Zeno, colui che rimpiange la dura selezione naturale, può direttamente invocare il rito sanguinario. Ma nel cuore della vita impiegatizio-mercantile di Zeno borghese si annida il vecchio mostro della violenza purificatrice. Esso può venire alla luce solo come fantasia onnidistruttrice. Un mondo che non può essere purificato, disinquinato secondo il vecchio rituale della violenza, non potrà che andare incontro ad una violenza totale e sprofondare nel caos e nel nulla. 

"Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): "Vedi com'è risanata? Ma dov'è Basedow?" "Non vedi?" domandò Augusta ch'era la sola fra di noi che arrivasse a guardare sulla via. Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s'avanzava minacciosa urlando. "Ma dov'è Basedow?" domandai ancora una volta. Poi lo vidi. Era lui che s'avanzava inseguito da quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma bianca disordinata, svolazzante all'aria, gli occhi sporgenti dall'orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch'io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia. E la folla urlava: "Ammazzate l'untore!"

Poi ci fu un intervallo di notte vuota. Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla più erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa. Ada era posta per alcuni scalini più in alto, ma rivolta a me ch'ero in atto di salire, mentre lei sembrava volesse scendere. Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me non so se per debolezza o per essermi più vicina. Per un istante mi parve sfigurata dalla sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m'era apparsa alla finestra, bella e sana. Mi diceva con la sua voce soda: 'Precedimi, ti seguo subito!'. Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa. Ne vidi anche le gambe malsicure e il povero misero corpo che il mantello non arrivava a celare. Arrivai a correre via, ma non so se per precedere Ada o per fuggirla. (357-358)

 

Outside the civil garden

Of every day of love there

Crouches a wild passion

To destroy and be destroyed.

Auden

  

NOTE

 

1. L'edizione da me utilizzata qui è quella dall'Oglio, Milano 1981.

2. L'opera di Eric Gans, sostanzialmente sconosciuta in Italia, si articola in numerosi libri e nella pubblicazione periodica su Internet, accessibile anche da questo sito, nel quale si trova un mio articolo di presentazione generale della Generative Anthropology. Ne riporto qui un passo.

Secondo Gans la soglia dell’umano deve essere posta là dove sta la soglia del linguaggio, perché è solo nel linguaggio che propriamente può sorgere la questione dell’essere umano. L’ipotesi originaria di Gans propone che la questione dell’umanità comincia nel preciso momento in cui la pre-umanità stessa inizia a rappresentare e in questo rappresentare si fa umana. L’etico, il religioso, l’estetico nascono insieme nella originary scene (per la quale è stata coniata l’espressione Little Bang) in cui la violenza, che sta per scatenarsi nel preciso momento in cui su di un unico oggetto centrale convergono più desideri, è differita tramite la rappresentazione. Viene emesso un segno, che può essere anche soltanto un gesto, di rinuncia all’immediatezza dell’appropriazione, e sorge il linguaggio. Il linguaggio dunque emerge quando l’appropriazione mimetica diviene così intensa che la presenza dell’oggetto diventa troppo problematica perché esso sia incluso come il naturale punto finale dell’imitazione. Il gesto non conduce più all’oggetto, ma rimane irrevocabilmente separato da esso. Come tale esso è il primo segno. Gans enfatizza costantemente l’importanza della originary scene in cui scaturisce il linguaggio. L’emergere dell’umano è l’emergere del trascendente entro il mondo della vita. Perché ad esempio anche l’estetico non è altro che un posporre, un differire il sacrificio. Così la narrativa è la forma estetica esemplare perché essa tematizza il differimento, rendendolo esplicito. La capacità umana di differire la violenza tramite la rappresentazione dipende dalla nostra paradossale dipendenza dal trascendente: la capacità e il bisogno di fare del punto focale centrale dei nostri desideri il significante trascendente del segno è precisamente ciò che ci definisce come umani.

3. Shakespeare. Il teatro dell'invidia, Adelphi, Milano 1998.

4. Eric Gans, Signs of Paradox. Irony, Resentment and Other Mimetic Structures, Stanford University Press, Stanford, California 1997, p.112.

5. Adelphi, Milano 1981, p.273.

6. Eric Gans, op.cit., p.19.

7. Manfred Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, Einaudi, Torino 1994, p.199

8. Secondo Eric Gans l'inaccessibilità dell'oggetto centrale (un grande mammifero abbattuto dai cacciatori proto-umani nella scena originaria che egli ipotizza come inizio dell'umano) da parte della periferia, è legata all'origine del linguaggio. Se tutti i cacciatori pretendessero la fruizione immediata della preda si scatenerebbe una violenza autodistruttiva del gruppo: avviene quindi l'emissione del primo segno, che altro non è se non un segnale di rinuncia ad una soddisfazione immediata dell'appetito, di differimento della violenza, che da tutti è percepito come tale e che in seguito diventa ripetibile: è lo stigma d'origine del linguaggio. D'altra parte, però, proprio la non possibilità di consumo immediato dell'oggetto centrale lo costituisce come sacro, intoccabile e sottraentesi. Questo sottrarsi causa il risentimento originario. Vedasi Originary thinking. Elements of Generative Anthropology. Stanford University Press, Stanford, California, 1993.

9. Eric Gans, Signs of Paradox, cit. p.68.

10. Eric Gans, op.cit.,p.69.

11. Richard. H. Weisberg, Il fallimento della parola. Figure della legge nella narrativa moderna, trad. A.Fabbri, il Mulino, Bologna 1990.

12. …dietro ogni atto autodistruttore, dietro ogni perdita individuale della libertà, ciò che effettivamente si persegue e ciò che nel profondo si vuole è l'onnidistruzione e l'universale riduzione allo stato di schiavitù - Luigi Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, p.168

13. Weisberg, op.cit., p.60.

14. René Girard, Je vois Satan tomber comme l'éclair, Grasset & Fasquelle, Paris 1999.

15. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, trad. Del Corno, Adelphi, Milano 1978, pp.186-187.

 

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