Ancora sulla celebrità

Eric Gans 

Chronicles of Love and Resentment

No. 212: Sabato 19 agosto 2000

brottof@libero.it

www.bibliosophia.homestead.com/Copertina.html

 

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Come possiamo mettere in dubbio il valore della celebrità? Dal momento che gli esseri umani hanno sempre attribuito al riconoscimento da parte dei loro consimili un'importanza superiore a quella attribuita ad ogni altra realtà, che cosa potrebbe essere più desiderabile dell'essere "celebrati"? In un mondo in cui alcuni conseguono questo status, che possibilità di compensazione rimane per gli altri? Se la nostra coscienza della morte e la risultante preoccupazione per sé stessi che Heidegger chiama cura sono derivati della nostra originaria paura degli altri umani, la nostra brama di riconoscimento integra quel vuoto che questa coscienza sa essere inevitabile. Vorremmo credere, nonostante ogni evidenza del contrario, che, dato questo riconoscimento, diventeremo "immortali", supremo trionfo della cultura sulla natura. La coscienza umana, nata dalla cultura che ci rende consapevoli del morire, in primo luogo rende omaggio alla cultura col farne una compensazione per la morte.

Il genere di riconoscimento globale che noi associamo con la celebrità potè venire in essere solo con stati che trascendevano la sfera della pura interazione personale. Nell'antico Egitto - a differenza delle culture tribali, anche per i loro capi - la possibilità che un abitante di Tebe aveva di essere noto ad un abitante di Menfi, o anche ad un Tebano di un altro distretto della città, era presumibilmente molto remota, e tuttavia ognuno sapeva del faraone e dei principali membri della sua corte, compresi senza dubbio gli intrattenitori di spicco. Il mio saggio The End of Culture collocava gli inizi della letteratura secolare, e della "modernità" nel senso più ampio, nel momento in cui il risentimento popolare nei confronti della condizione privilegiata dei detentori del potere cessò di essere inibito dall' indiscutibile loro sacralità. La cultura secolare emerge dal rituale allorquando il risentimento che accompagna il riconoscimento non può essere ulteriormente risolto nel processo stesso di riconoscimento. Se ne possono intravedere degli accenni in Egitto e in Babilonia, ma in Occidente soltanto i Greci crearono una letteratura pienamente sviluppata, poiché essi soltanto si erano liberati dalla tirannia di un sistema di distribuzione centralizzato. Senza dubbio il contadino egiziano era risentito nei confronti della gloria del faraone, ma dato che il suo risentimento poteva, se mai, circolare solo nella sfera privata, esso non costituiva una minaccia per l'ordine sociale ed era incapace di generare una nuova cultura. Di contro, i Greci avevano la necessità di esprimere il risentimento al fine di poterlo controllare. Proprio come il linguaggio è nato per stornare la minaccia di una dissoluzione dell'ordine sociale proto-umano, così l'alta cultura è nata per differire i risentimenti che minacciavano la società greca, e in particolare quella ateniese - risentimenti che fatalmente la limitavano e alla fine la distrussero.

Tutte le categorie letterarie che abbiamo ereditato dall'età classica rinviano direttamente al nostro risentimento verso coloro che occupano il centro della scena. Definire questa centralità in termini di potere o ricchezza significa mancare il punto essenziale, che un momento in un teatro è sufficiente a rivelare: l'identità dell'oggetto della nostra invidia con l'oggetto della nostra attenzione, la cui sacralità è definibile mediante questo stesso fatto. Senza dubbio, almeno nei tempi anteriori alla celebrità, quest' attenzione è determinata dal controllo sul centro della società e i suoi mezzi di violenza. Ma questa dura realtà si situa al di là del nostro potere di cambiamento tramite mezzi "culturali". Il teatro ci permette di porci di fronte agli oggetti del nostro risentimento in un luogo dove siamo liberi di tributare o rifiutare il nostro riconoscimento. Noi assistiamo all'azione che si svolge sul palcoscenico soltanto per nostra libera scelta, e scegliendo così facciamo in modo che la centralità dei personaggi dipenda da noi. Il risultato è che quelli che Aristotele chiama "migliori di noi" sono umiliati dalla tragedia, mentre la commedia ricompensa quelli che sono "peggiori di noi" per il fatto che non suscitano il nostro risentimento.

Nonostante la crescente differenziazione delle specializzazioni e il sempre più veloce scambio di idee, beni e servizi, il contesto della celebrità moderna è quello di una società in cui vige il principio de "il vincitore si prende tutto", società che concede un premio di riconoscimento alle poche top star di ciascuna di queste specializzazioni che riescono a innalzare il proprio valore di mercato molto al di sopra di quello dei loro concorrenti di secondo livello. L'accresciuta circolazione dell'informazione che è resa possibile dai computer, e in particolare dall'internet, svaluta le gerarchie locali in ciascun campo assorbendole in una sola grande gerarchia globale. Il valore e la gratificazione di essere il miglior violinista della città sono diminuiti quando tu puoi acquistare una registrazione del miglior violinista del mondo. Il riconoscimento locale rimane effettivo solo per coloro le cui abilità non sono parte di un mercato globale. Un idraulico non compete con super-idraulici come una modella compete con supermodelle o un avvocato con Johnnie Cochran.

La celebrità, si dice, è un prodotto artificiale dei media: ma accade non soltanto che i media agiscano in risposta alla domanda, ma precisamente che ciò che viene domandato sia appunto una celebrità che possa essere confezionata e venduta dai media. E' l'aura di ridicolaggine che circonda l'"essere famosi per essere famosi" a rendere sostenibile la celebrità. Essa svilisce proprio quel centro della scena sul quale è fissato il nostro sguardo in un equivalente odierno della "pietà e terrore" generate dalla caduta dell'eroe tragico. Noi ridicolizziamo la celebrità come minimo chiamandola "celebrità" piuttosto che "fama", in tal modo accentuando il suo carattere di aleatorietà. E in particolare ci dà piacere il poter compiangere le disgrazie delle celebrità, sperimentando il paradosso di trovare che le nostre vite anonime sono preferibili alle loro. Gli aspetti delle loro vite che ci interessano di più sono precisamente quelli che non riflettono alcuno straordinario segno di distinzione oltre a quelli che derivano dalla celebrità stessa, sebbene anche oggi molte persone famose siano divenute tali grazie a talenti individuali - e non sempre con l'aiuto di una situazione di vantaggio sociale.

Nella società affluente del dopoguerra, moltissime persone sono in grado di vivere decentemente col frutto del proprio lavoro, ma non di competere per un riconoscimento globale in un qualche campo. Le competizioni che affrontano nella loro vita reale si trovano su di un piano più basso, ed è qui che la celebrità globale svolge una funzione che compensa il risentimento che genera. Come Girard ha mostrato, la mediazione interna è sempre più violenta della sua forma esterna; uno invidia le piccole superiorità del suo vicino di gran lunga più ossessivamente che non la gloria di coloro con cui non avrà mai modo di confrontarsi direttamente. E' quest'invidia che viene mitigata mediante la nostra identificazione risentita con le celebrità. Accettare quest'identificazione significa senza dubbio ammettere la propria incapacità di condividere il loro status, ma la star in compenso fornisce al suo adoratore un punto di paragone che supera tutte le inferiorità locali. Come ho spiegato a suo tempo trattando del caso della principessa Diana, è accettando di rinunciare alla probabilità estremamente remota di competere con una persona simile per la ribalta che una donna qualsiasi ottiene un potente alleato contro le umiliazioni del proprio ambiente. Apprendere i dettagli del guardaroba di lady D. consente a quella donna di sentirsi vendicata per la mortificazione derivatale dal vestito nuovo della sua vicina.

E tuttavia, nella nostra era post-millenniale, una relazione alla celebrità basata sulla venerazione diventa sempre meno efficace. Il sacro mistero che circondava in passato le grandi star dei media non può più essere riattualizzato. Forse la ragione principale della grande esplosione di lutto in occasione della morte di lady.D. è stato il sentimento generale che nessun principe futuro, e forse nessuno del tutto, potrà più giocare un ruolo simile. Certamente nessun successore plausibile si è presentato nei tre anni seguenti.

Prima i talk show spazzatura, e ora i programmi della TV-realtà, dimostrano che le attività di gente comune, che decide di offrirsi alla visione del pubblico, funzionano meglio di quelle delle star nel differimento dell'odierno risentimento per l'anonimato. Sin dall'avvento della televisione (almeno), abbiamo ripetuto ad nauseam che quella di star più che una qualità di certi individui è un bisogno del nostro sistema di pubblica comunicazione. E tuttavia le speciali condizioni quasi-sacre delle star sono incompatibili con questa visione. La cinica demistificazione delle star che ha ispirato infiniti film interpretati dalle stesse star si fonda su una rozza e risentita distinzione tra il pubblico illuminato dei film e le masse rozze e risentite. Il fatto è che il pubblico generale fino a non molto tempo fa e i giovani ancor oggi hanno attribuito valore all'individuazione di un ristretto numero di intrattenitori mediante criteri che non sono del tutto arbitrari. Soltanto oggi, quando questo valore è diminuito, il meccanismo fondato sul risentimento, che cinicamente si comprende essere sempre stato dietro il processo, può uscire allo scoperto nella realtà.

Il vecchio sistema di produzione delle star non sceglieva mai arbitrariamente i suoi beneficiari: i vantaggi erano semplicemente troppo grandi. Soltanto la feroce competizione garantiva un razionale processo di selezione. Di contro, i nuovi show, col ridurre i benefici della condizione di "star" e ponendo i criteri di ammissione al di fuori di ogni prevedibile percorso di carriera, sono in grado di darci "gente comune" la cui ambizione non è mediata da un livello di talento o ambizione straordinariamente alto - gente verso la quale lo spettatore non ha ragione di avvertire alcun tipo di inferiorità. Se i talk show specializzati in problemi imbarazzanti ma relativamente poco coinvolgenti come l'incesto e le perversioni sessuali sono l'antitesi dei vecchi canali mediante i quali si creavano le star, gli spettacoli della TV realtà sono una sintesi della ordinarietà dei talk show e dell'ambizione di produrre star.

Il cambiamento non è la mera sostituzione della lucidità alla "falsa coscienza". La china che porta da Ercole ed Achille, passando per le celebrità televisive degli anni Cinquanta e la lista degli ospiti di Jerry Springer, fino ai partecipanti a Survivor o al Grande fratello non può essere descritta mediante l'idea di demistificazione. Achille e i suoi omologhi nella vita reale svolgevano un ruolo nella storia del mondo: essi "meritarono" di essere famosi. Anche la partecipante ai quiz televisivi degli anni Cinquanta divenuta attrice aveva pagato il suo dovuto all'ingranaggio dello spettacolo. Mentre la celebrità diventa più triviale o, per usare un'espressione di Doug Collins, pre-umiliata, coloro che ne beneficiano ispirano una modalità di risentimento più interno: io non posso sconfiggere Ettore, ma certamente posso vedermi in competizione con quella gente della Tv attuale. Ma questo stesso fatto demistifica la loro fama, e la fama in generale; e ci consola del nostro anonimato enfatizzando l'essere arbitrario della celebrità. Noi godiamo del nostro risentimento verso le celebrità "che non se la meritano" perché ne traiamo legittimazione del nostro risentimento verso gli altri.

Il risentimento non è una relazione puramente passiva. La diminuita distanza tra me e una celebrità "ordinaria" consente una forma di identificazione meno artificiale dell'adulazione di una star. Essa permette qualcosa dell'apertura che avvertiamo - o eravamo soliti avvertire - nell'identificarci con personaggi della letteratura. Posso osservare alla televisione qualcuno come me e ammirare la sua inventiva o deridere la sua stupidità. Le sue buffonate possono alimentare la mia conversazione quotidiana con altri membri del pubblico generale, proprio come le ultime partite di calcio o le chiacchiere sul mondo di Hollywood, e senza farmi sentire inferiore a quelli di cui io parlo. Questo, a sua volta, rende la mia relazione ad altre celebrità non solo più sopportabile ma anche meno risentita. Tutto concentrato come un bobo nella creazione del mio racconto-della-vita, posso permettermi di guardare con condiscendenza a quelli che cercano la centralità mediante la pre-umiliazione. La stessa incertezza della questione di quale sia esattamente l'audience del bobo, colleghi nella professione o compagni negli hobby seri, mitiga il suo risentimento verso l'unico centro mediatico e i suoi abitatori che seri non sono.

Per quanto yuppie e bobo, celebrità mediatiche e "gente comune" celebre continuino a coesistere, perfino mentre parliamo il post-millenniale si sta rapidamente separando dal postmoderno. Fra pochi anni, quando tutti parleranno della nuova epoca post-millenniale, potrete dire di averla vista qui descritta per la prima volta.