LA  LETTERA  UCCIDE  MA  LO  SPIRITO    VITA

 

Jeremiah Alberg

Colloquium on Violence and Religion (COV&R)
Saint Paul University, Ottawa, Canada
31 maggio- 4 giugno 2006

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

Introduzione

 

Nella violenza c'è una letteralità che mi rende difficile parlarne. Sono corpi reali di gente reale, di solito i poveri, che vengono feriti e uccisi nelle case, per le strade e sui campi di battaglia. Non vorrei che le mie parole contribuissero in qualche modo ad una generale svalutazione di queste sofferenze realissime. Questo argomento è troppo serio per i trastulli di un accademico separato dalla realtà. Nondimeno, ho scelto di affrontarlo come atto di speranza. La speranza che sforzi come quello che si fa in questo convegno possano davvero aprirci alla verità intorno alla violenza e alla possibilità che essa venga infine vinta.

 

La risposta alla domanda su come il Cristianesimo superi la violenza è facile ed evidente, e si riduce a un semplice affermazione: non la supera. Non vi è affatto alcuna evidenza empirica che questa religione, per quanto antica e grande, abbia in qualche modo vinto la violenza. Se guardiamo alle aree del mondo che potremmo definire culturalmente cristiane, non notiamo, né lungo il corso della storia né ora, una qualche attenuazione della bellicosità.

 

In questo mio discorso sostengo che il Cristianesimo non vince la violenza. Qualsiasi vittoria sulla violenza sarebbe essa stessa violenta e cadrebbe preda del senso di colpa rispetto a quella stessa offesa che tentava di correggere. Essa sarebbe, in realtà, colpevole di una sorta di petizione di principio. Il mio proporre questo dilemma come problema logico non è casuale. Si tratta di cogliere un nuovo modo di pensare la relazione tra questa religione e la violenza. La mia idea è che il Cristianesimo si pone di fronte alla violenza nel modo in cui un'interpretazione figurale si pone davanti ad una letterale. Ma anche questo non è del tutto esatto. Sarebbe più vicino alla verità dire che la violenza impone ad un evento la propria interpretazione letterale, e il Cristianesimo offre un'altra, differente, interpretazione letterale, ma questa seconda interpretazione letterale è aperta ad un'interpretazione figurale. Ovvero il Cristianesimo consente alla violenza di permanere nel modo in cui un'interpretazione figurale consente a quella letterale la possibilità di permanere, sebbene ne riveli l'inadeguatezza e i limiti. In ogni evento violento vi sono la violenza stessa, l'interpretazione offerta dal potere dominante, e l'interpretazione della vittima. La differenza tra le due è una differenza nella concezione del significato, la concezione della relazione tra il segno e la cosa. Il potere dominante opera secondo una comprensione del sacrificio come modalità dominante del significare. I segni possono sostituire le cose ed essere scambiati al posto loro. Vi è qui un'economia della violenza in quanto la sostituzione e lo scambio implicano distruzione.

Il Cristianesimo consente che nuove possibilità, possibilità pacifiche, si aprano in situazioni violente.

 

Vorrei dire qualche parola sulla relazione tra violenza e linguaggio. Quindi, dal punto di vista dell'interpretazione cristiana della realtà, spiegherò come la religione possa essere vista in relazione alla violenza.

 

Violenza e significato

 

Il mio primo punto è che il modo giusto di comprendere la violenza è di vederla come implicante sempre un'asserzione di significato. La differenza tra un omicidio accidentale e un assassinio è la differenza tra un atto fisico che ha determinato la morte di una persona ed un atto che aveva in sé l'intenzione di uccidere. Sebbene non corrisponda perfettamente al nostro uso consueto del termine, per lo scopo di queste riflessioni userò la parola violenza in questo modo. Intendo ulteriormente specificare la connessione tra violenza e significato mettendola in relazione col linguaggio che la spiega o la descrive. Gli atti violenti impongono il loro significato, e lo impongono in un modo tale che non vi è alcuna possibilità di interpretazione figurale. La violenza inizia e finisce su di un piano letterale. Essa deliberatamente chiude qualsiasi apertura verso un'interpretazione più ampia o profonda. In realtà, gli atti violenti impongono la loro stessa interpretazione su di sé, violentemente.

 

Al fine di rendere più concreto, e anche un po' più chiaro, questo modo di pensare, vorrei iniziare con un esempio biblico, l'Esodo. Sostanzialmente, i cristiani sono soliti leggere e pensare la storia dell'esodo nel modo seguente. Gli Israeliti, dopo le dieci piaghe inviate da Dio, ottennero finalmente dal Faraone il permesso di lasciare l'Egitto. Tuttavia, ci sono fondati motivi per pensare che questa sia in verità la storia come è stata narrata dal punto di vista degli Israeliti. Al fine di vedere la storia in una diversa prospettiva, vi invito ad immaginare che l'Egitto di quel tempo avesse dei mass media non dissimili dai nostri. Se un egizio avesse preso in mano il Corriere del Cairo il giorno dopo la partenza degli Israeliti, invece di leggere un titolo sulla loro liberazione da parte del Faraone, avrebbe potuto leggere il titolo seguente: "Il Faraone espelle i puzzoni"  (la parola Ebrei era dispregiativa, e significava qualcosa di simile all'americano moderno wetbacks) [wetbacks è spregiativo che si dà agli immigrati clandestini dal Messico – nota del tr.]. In altre parole, anche sul piano storico di ciò che effettivamente accadde, le interpretazioni sarebbero state molto differenti. Narrata dal punto di vista del potere dominante, la storia dell'Esodo diventa la storia dell'espulsione dello straniero. Così, persino al livello letterale noi abbiamo la differenza tra l'affermazione che il Faraone, infine costretto ad accordare quello che YHWH voleva, liberò il suo popolo, e l'affermazione che il Faraone espulse gli stranieri. Entrambe sono interpretazioni, ed entrambe pretendono di essere interpretazioni su di un piano storico, quello che io chiamo letterale.

 

Sebbene vi possano essere affermazioni leggermente diverse tra loro, come"Gli Israeliti sono stati espulsi" o "L'Egitto è la potenza suprema" o "La società è stata purificata", nessuna di esse è un' interpretazione figurale basata su quella letterale. Qui la storia si chiude su sé stessa.

Su di un livello letterale senza dubbio questo tipo di interpretazione è vera. L'atto dell'espulsione è un atto violento ed è questo che rende vera letteralmente la proposizione "il Faraone ha espulso gli Ebrei". È la violenza dell'atto a rendere vara l'interpretazione. È questo che il Faraone ha fatto, questo è ciò che egli ha inteso, ed egli ha imposto il suo volere. La violenza ha la capacità di generare significato. Detto altrimenti, gli Israeliti sono espulsi e mediante l'espulsione si genera l'ordine nella società.

 

La verità della frase che descrive l'atto violento e la natura dell'ordine generato dall'atto violento sono analoghe: esse nella loro struttura sono sacrificali. Qualcosa è stato espulso al fine di strutturare quello che rimane, e quello che rimane è strutturato precisamente intorno alla vittima assente. L'affermazione "Il Faraone ha espulso gli Israeliti per mantenere l'ordine sociale" è insieme vera e fondata su di una menzogna. L'ordine reale che viene stabilito così è basato sulla menzogna secondo cui gli Ebrei erano causa di turbolenze. L'interpretazione si basa anche sull'esclusione dell'interpretazione data dagli stessi Ebrei. Gli Ebrei diventano capri espiatori al fine di promuovere la coesione sociale entro la classe dominante e il significato dell'affermazione può essere mantenuto solo fin tanto che gli Ebrei rimangono assenti. Il punto di vista arbitrario dei persecutori si impone ad esclusione del punto di vista delle vittime. L'affermazione "Il Faraone ha espulso gli Ebrei" è fattualmente corretta ma in ultima analisi storicamente erronea, dal momento che essa riflette e rivela come la logica del sacrificio sia implicata nell'arbitrarietà della violenza letterale.

 

Se l'interpretazione letterale corretta dell'Esodo fosse che il Faraone ha espulso gli Ebrei, allora non vi sarebbe alcuna possibilità di dire che YHWH li ha liberati. Il genio di Mosè si rivela nel preparare il popolo a sperimentare l'evento della sua espulsione in un altro modo. Gli oppressori diranno al popolo che sarà cacciato nel deserto, un luogo di morte. Ma Mosè gli dice che il suo Dio è il Dio del deserto e che sta preparando la sua liberazione. Egli lo conduce e lo libera.

Proviamo a spiegarlo da un altro punto di vista, leggermente differente.  Secondo Walker Percy (che dichiara di attingere da Charles Peirce), la struttura del linguaggio umano è tale: si ha un significante o parola, un significato od oggetto ed un associatore (coupler), ovvero un essere umano che associa il significante al significato. Il suo esempio è Helen Keller come associatrice col liquido chiaro e fresco che le piove addosso da un lato, e la parola A-C-Q-U-A che viene scandita dall'altro. Helen Keller associa i due elementi (ad imitazione del suo maestro, dovrei aggiungere) quando si rende conto che quel liquido è acqua. Voglio portare questa analisi un po' più avanti. Quando la parola e la cosa sono associate la natura dell'associazione in molti casi è ambigua. L'associazione può essere tale quale è nel caso di Helen Keller, in cui la parola apre, rivela l'inesauribile mistero dell'oggetto. L'umile cosa, acqua, e pertanto la cosa ancora più umile, il vocabolo A-C-Q-U-A, diventano capaci di veicolare il mistero – il battesimo. Essi diventano tipi. Ma l'associazione può anche essere tale che il mistero ontologico unico dell'oggetto viene assorbito diventando un puro caso di una più ampia classe di realtà – è solo acqua. Quando all'evento si dà un'interpretazione letterale violenta, o una struttura sacrificale, allora la connessione tra il segno e il referente è violenta, nel senso che essa esclude altri significati. Il risultato è ben noto: sia l'evento che le parole usate per nominarlo perdono il loro significato. Invece l'interpretazione secondo la quale Dio è intervenuto mediante Mosè conferisce ad un atto di espulsione tanto familiare un significato letteralmente nuovo e multidimensionale.

 

A questo livello la relazione tra gli attori del dramma storico ed anche tra gli elementi grammaticali diviene una relazione di donazione reciproca. Dio salva il suo popolo, e mediante questo esso diviene precisamente questo: il suo popolo. E ora le parole che rivelano questo evento possono iniziare a riferirsi ad una molteplicità di realtà, così che i loro significati si approfondiscono e allargano. Le parole diventano parti delle realtà a cui si riferiscono e questo tipo di unione diventa mutuamente arricchente.

 

Più possibilità di interpretazione

 

Fino a questo punto ho semplicemente opposto due possibili interpretazioni letterali, e asserito che quella non-violenta consente più significati. In un primo momento questo potrebbe dar a intendere che noi abbiamo semplicemente delle interpretazioni contrastanti dello stesso evento, ma io vorrei mostrare che questo non è del tutto vero. La novità della lettura giudaico-cristiana è che non solo può consentire la lettura sacrificale di un evento violento, ma che in un certo senso la presume. Questa tradizione può riconoscere la comprensione che il Faraone ha dell'Esodo, anche se le dà un nuovo significato letterale.

 

Per di più, non si tratta solo di due differenti interpretazioni che si confrontano. La tradizione biblica, mentre consente all'interpretazione del Faraone di rimanere, usa la propria nuova comprensione dell'evento per aprirsi a significati progressivamente più profondi. L'esempio principe di questo è lo schema di interpretazione allegorica sviluppato nel Medioevo, che raggiunge il suo apice nella poesia di Dante. La violenza corrisponde ad un'asserzione di significato in cui il significato letterale è vero e i significati figurali non lo sono. Essi diventano meramente metaforici. Le religioni bibliche consentono una nuova interpretazione che cambia questa interpretazione letterale e apre all'interpretazione figurale. Questo chiarificherà come l'interpretazione violenta corrisponda al linguaggio concepito lungo le linee del sacrificio, e il punto di vista biblico lo trasformi in una relazione di dono.

Lasciatemi prendere a prestito l'esempio che Dante utilizza nella sua famosa Lettera a Cangrande, che funziona come una sorta di riflessione sul suo modo di scrivere la Divina Commedia. «Per chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di quest'opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: "Durante l'esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio". Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benché questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici...»

Significativamente, è solo alla luce della teoria dell'allegoria che noi saremo in grado di comprendere il cambiamento nel significato che il Cristianesimo ha operato. Poiché, se è l'evento centrale della croce e resurrezione di Cristo che illumina sia a ritroso l'Antico Testamento sia in avanti la vita della Chiesa, allora quanto più drasticamente esso illumina l'interpretazione violenta in cui s'incunea. L'interpretazione violenta della morte di Gesù di Nazaret è che una persona turbolenta e sediziosa è stata messa a morte secondo la legge romana e la volontà di Dio. L'interpretazione cristiana è che lo stesso figlio di Dio e uomo giusto è stato messo a morte da altri esseri umani. Perfino nei Vangeli queste due interpretazioni sono poste l'una accanto all'altra. Caifa, il sommo sacerdote, espone la logica che ha fondato il mondo dal suo inizio: "È meglio che muoia un solo uomo piuttosto che perisca il popolo intero". Ma i cristiani dicono: "È morto secondo le scritture e secondo le scritture è risorto il terzo giorno". Queste non sono citazioni delle Scritture, ma piuttosto si riferiscono ad una certa loro logica.

 

Un'interpretazione del Cristianesimo in termini di interpretazione non dovrebbe sorprendere alcuno. Il Cristianesimo è una delle religioni del Libro. Esso chiama il Salvatore Parola di Dio, come lo sono le sue Scritture, suggerendo un'identificazione tra la persona e il testo. In aggiunta vi è la struttura complessa delle sue Scritture – due Testamenti, uno dei quali è inteso fornire la chiave interpretativa dell'altro. I due sono connessi mediante una serie di tipologie. Queste Scritture sono state interpretate nei modi più diversi per 2000 anni, e non vi è alcun segno che ciò debba terminare.

 

Ma il Cristianesimo è un'interpretazione della violenza? Nelle sue Scritture la prima morte è un omicidio. Il protagonista principale subisce l'esecuzione capitale da parte delle autorità statali su pressione dei leader religiosi. I suoi primi seguaci patiscono persecuzione violenta. Il suo più grande sostenitore del proselitismo nel mondo non giudaico inizia la sua carriera come persecutore della Chiesa. La stessa Bibbia termina con una visione apocalittica che fino ad oggi ha fornito all'immaginario popolare le immagini di una dissoluzione violenta della scena di questo mondo. La quantità e la gravità della violenza nella Bibbia potrebbe produrre uno shock negli impreparati. Vi è quindi un'ampia evidenza testuale a sostegno della tesi che ponga la violenza come il centro di un'interpretazione delle Scritture cristiane (1). Allora noi nella crocifissione di Cristo abbiamo il punto di confluenza di due interpretazioni. Vi era l'interpretazione della maggioranza dei partecipanti: quest'uomo è la causa dei nostri guai. Egli mette in pericolo la nazione, mina le tradizioni, minaccia di distruggere la nostra religione. Nel condannarlo noi eseguiamo l'ordine divino e la prova di ciò è che egli ora è appeso ad una croce: è maledetto da Dio, e noi abbiamo salvato la comunità.

 

Vi prego di notare la violenza duplice di questa interpretazione. Per prima cosa, le attività di Gesù vengono descritte come azioni violente: "mettere in pericolo", "minare", distruggere". In secondo luogo, questa interpretazione fa violenza all'interpretazione che delle sue azioni dà lo stesso Gesù. Gesù, quando i seguaci di Giovanni gli chiedono se sia lui il Messia, o se debbano aspettarne un altro, risponde: "Andate e dite a Giovanni quello che avete visto e udito: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono guariti, i sordi odono…ai poveri è annunciata la buona novella" (Mt 11,2-6). In questa interpretazione non vi è alcuna violenza. Ancora, io non credo che qui ci si presenti solo un nuovo "conflitto di interpretazioni" che significa che un'interpretazione vale un'altra. Gesù se stesso con le sue ultime parole a Giovanni preclude questa possibilità: "Beato chi non si scandalizzerà di me". Egli con questo intende che, piuttosto che un conflitto di interpretazioni, le sue azioni sono il vero compimento di quella stessa tradizione religiosa che egli è accusato di tentare di distruggere. Se Giovanni sta cercando un Messia, deve disporsi a vedere tutta la faccenda da una nuova prospettiva. Non si tratta della pretesa di essere Messia contro un'altra pretesa. Deliberatamente Gesù non avanza quella pretesa. Egli ama, perdona e risana. "Andate e dite a Giovanni quello che avete visto e udito". Ma queste azioni e questi insegnamenti presentano un'opzione chiara. O la tradizione intera conduceva a Gesù come suo stesso compimento, oppure no. Non si può evitare la scelta. L'opera di Gesù, considerato come il Messia, è uno scandalo, e ciascuno è chiamato a scegliere di non essere scandalizzato ma credente (2). I Cristiani sono coloro che vedono Gesù di Nazaret come innocente e odiato senza motivo. Essi vedono in lui il compimento della loro religione e il Salvatore del popolo. E la prova di ciò è lo stesso fatto che quelli che l'hanno condannato usano per giustificare la loro posizione: egli ora pende da una croce. Egli è maledetto e nello stesso tempo salva la comunità, perché rivela che è maledetto dagli uomini e non da Dio. Egli mostra che Dio non è responsabile della violenza umana, nonostante tutti i nostri sforzi di renderla rispettabile divinizzandola.

In questo modo, colui che è stato crocifisso, la vittima della violenza della folla, è al centro della fede cristiana. Egli pone il problema della violenza e la nostra partecipazione ad essa al centro dei nostri problemi personali e collettivi. Quindi noi non possiamo semplicemente identificare il problema, che sia il peccato o la violenza, e poi la soluzione, precisamente la redenzione mediante la croce. Questo farebbe presumere che noi disponiamo di una sorta di accesso epistemologico indipendente al peccato, o a ciò che potrebbe essere la nostra condizione umana senza Dio. In realtà, tuttavia, il peccato è rivelato per quello che veramente è solo nella luce dell'amore e del perdono divini, cioè la piena estensione del peccato è rivelata soltanto nella luce della croce e della resurrezione di Cristo. Senza la croce non abbiamo alcun modo di raggiungere qualcosa che somigli alla dottrina del Peccato Originale. La crocifissione di Cristo rivela che cos'è il peccato nel suo nucleo più profondo. Dunque, prima viene la redenzione in Cristo, e mediante quella noi comprendiamo che cos'è quello da cui siamo stati salvati.

 

Presentare la storia dal punto di vista della vittima rivela sia una nuova interpretazione o una nuova razionalità che una antica. Questa nuova interpretazione si afferma nel mezzo della vecchia.

Nell'esempio che abbiamo usato, il popolo ebreo è il sostituto, ovvero diventa il segno, delle piaghe che stanno affliggendo l'Egitto. Esso viene espulso in un mitico tentativo di liberare l'Egitto dai suoi mali. Mosè, tuttavia, vede ciò come Dio che libera il suo popolo. Come ho sottolineato continuamente, sembrerebbe che qui noi abbiamo due interpretazioni letterali opposte. È difficile vedere come si possa mediare tra di esse o su quali basi noi dovremmo privilegiare l'una o l'altra. Ma io ho cercato di mostrare che noi non abbiamo semplicemente due interpretazioni opposte. Invece, noi abbiamo una situazione in cui il Faraone, al fine di sostenere la sua stessa interpretazione sacrificale, è costretto a rigettare l'altra interpretazione letterale. Ma la visione di Mosè non si oppone in questo modo a quella del Faraone. Mosè può permettere alla visione del Faraone di persistere nonostante tutto. È la situazione violenta in cui la pace di Dio sta per irrompere. Dal momento che la visione di Mosè non è bloccata in un'opposizione a quella del Faraone nel modo in cui quest'ultima lo è rispetto alla sua, questa è aperta ad ulteriori interpretazioni e significati. La relazione tra il segno e il suo referente non è sacrificale e, sebbene sia convenzionale, questa forma di interpretazione permette alla parola, alla storia, di diventare parte della realtà che esprime. Consente alla storia di avere altri referenti. Il significato affonda nel mistero.

 

Parabole

 

Quello che vorrei fare ora è mostrare come questo tipo di interpretazione non sia qualche sorta di tarda aggiunta che tenta di aggirare la violenza contenuta nelle Scritture, ma sia il tipo di lettura richiesto dal testo stesso. Per far questo leggerò la versione della parabola del Seminatore offerta dal Vangelo di Marco, insieme con la richiesta del suo significato da parte dei discepoli e l'interpretazione dello stesso Gesù. Prima di leggerla vi sono alcune cose da notare. Anzitutto, è una delle poche parabole di cui Gesù personalmente fornisca un'interpretazione. In secondo luogo, dalla collocazione del testo e dal suo contenuto risulta chiaramente che esso intende fornire una chiave per aiutare il lettore a comprendere tutte le parabole. Infine, voglio semplicemente ricordare che tra tutti i generi quello della parabola è il più strettamente legato all'insegnamento di Gesù. Il Regno di Dio che egli proclama è una parabola. Comprendere la logica delle parabole ci aiuterà a comprendere la logica del Regno.

Leggiamo ora la parabola.

 

1 Gesù si mise di nuovo a insegnare presso il mare. Una gran folla si radunò intorno a lui. Perciò egli, montato su una barca, vi sedette stando in mare, mentre tutta la folla era a terra sulla riva. 2 Egli insegnava loro molte cose in parabole, e diceva loro nel suo insegnamento:
3 «Ascoltate: il seminatore uscì a seminare. 4 Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; e gli uccelli vennero e lo mangiarono. 5 Un'altra cadde in un suolo roccioso dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; 6 ma quando il sole si levò, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. 7 Un'altra cadde fra le spine; le spine crebbero e la soffocarono, ed essa non fece frutto. 8 Altre parti caddero nella buona terra; portarono frutto, che venne su e crebbe, e giunsero a dare il trenta, il sessanta e il cento per uno». 9 Poi disse: «Chi ha orecchi per udire oda».
10 Quando egli fu solo, quelli che gli stavano intorno con i dodici lo interrogarono sulle parabole. 11 Egli disse loro: «A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché: 12 "Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati"». 13 Poi disse loro: «Non capite questa parabola? Come comprenderete tutte le altre parabole?
14 Il seminatore semina la parola. 15 Quelli che sono lungo la strada, sono coloro nei quali è seminata la parola; e quando l'hanno udita, subito viene Satana e porta via la parola seminata in loro. 16 E così quelli che ricevono il seme in luoghi rocciosi sono coloro che, quando odono la parola, la ricevono subito con gioia; 17 ma non hanno in sé radice e sono di corta durata; poi, quando vengono tribolazione e persecuzione a causa della parola, sono subito sviati. 18 E altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine; cioè coloro che hanno udito la parola; 19 poi gli impegni mondani, l'inganno delle ricchezze, l'avidità delle altre cose, penetrati in loro, soffocano la parola, che così riesce infruttuosa. 20 Quelli poi che hanno ricevuto il seme in buona terra sono coloro che odono la parola e l'accolgono e fruttano il trenta, il sessanta e il cento per uno».

 

La struttura di questo passo è tipica di Marco: una singola storia o un singolo evento vengono divisi, ed un'altra storia o evento viene inserita nel mezzo. Invece di procedere direttamente dalla parabola alle sue interpretazioni, Marco inserisce un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli. È un dialogo che ha tormentato molti commentatori e traduttori perché chiaramente dice  che "a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano". Il senso immediato di questa parte della parabola è apparentemente chiaro: se uno non è all'interno, membro della cerchia interna, dove si parla secondo un codice, allora non sarà in grado di penetrarla. Vi torneremo sopra dopo aver guardato per un po' alla parabola e alla sua interpretazione.

 

Si tratta di una tipica parabola di Gesù. È una parabola agricola; è realistica; è aperta all'interpretazione. Nel Vangelo la rappresentazione del Regno di Dio come un seme, come un campo seminato, e il paragonare la crescita del Regno alla crescita di una pianta sono luoghi comuni. In questa particolare parabola il seme che viene seminato è buon seme, è la parola di Dio. Il terreno su cui cade rappresenta i cuori della gente che ode questa parola. Secondo il senso immediato dell'interpretazione data da Gesù alla sua parabola, possiamo dire che vi siano fondamentalmente due classi di persone: quelle che odono la parola, la ricevono in sé e portano frutto, e quelle che la ascoltano e per una qualche ragione non portano frutto. Come riflessione preliminare possiamo dire che coloro che portano frutto sono quelli all'"interno" che hanno ricevuto il segreto del Regno, mentre coloro che sono esclusi corrispondono a quelli "di fuori", che ottengono solo parabole.

 

Ognuna di queste due classi può essere ulteriormente suddivisa. Tra coloro in cui la Parola riesce a fruttificare vi sono vari livelli di fruttificazione. Gesù non specifica come la fruttificazione debba essere misurata, ma penso corretto assumere che coloro che rendono cento per uno siano le persone che noi chiamiamo santi, mentre quelli del sessanta per uno siano in qualche modo meno ricchi di virtù teologali, e quelli del trenta per cento i comuni credenti. Non insisto sulle varie classi di coloro che non portano frutto: la loro descrizione è molto chiara.

Secondo questa parabola, dunque, abbiamo un mondo che è diviso tra coloro che portano frutto e coloro che non ne portano, tra quelli che sono dentro e quelli di fuori, e queste due sfere possono essere ulteriormente suddivise. Tutto questo sembra plausibile, ma io credo che si tratti di un'interpretazione seriamente fuorviante. Per descrivere questo tipo di realtà non abbiamo bisogno dei Vangeli.

 

La chiave per comprendere come si debba interpretare la parabola, e anche come interpretare l'interpretazione, si trova nel dialogo tra Cristo e i suoi discepoli, che forma sia un ponte che un ostacolo tra la parabola e la sua interpretazione.

I discepoli vanno da Gesù perché non comprendono la parabola. Comprendere o non comprendere la parabola non può essere la caratteristica che distingue quelli che sono dentro da quelli che sono fuori. I discepoli hanno ricevuto la chiave del Regno dei Cieli senza aver compreso alcunché. È anche importante notare che Cristo non parla di quelli che sono dentro. Chi sono dunque questi poveretti di fuori che non si convertiranno mai? Io penso che questa discussione sia fatta apposta per portare il lettore a fermarsi e a porre, prima di procedere con l'interpretazione, questa domanda. Sembra molto probabile che comprendere la differenza tra quelli di fuori e gli altri ci aiuterà a comprendere correttamente chi siano quelli che ascoltano fruttuosamente la Parola di Dio e chi siano quelli che non lo fanno.

 

Chi sono quelli che stanno fuori? Io credo che quelli che stanno fuori siano le persone che pensano che vi siano un dentro e un fuori. Sono quelli che cercano un modo di distinguere se stessi dagli altri, quelli che vedono il mondo come ordinato in due gruppi (loro e noi) con suddivisioni in ciascun gruppo.  È precisamente questo modo di pensare, e, cosa più importante, questo tipo di visione del mondo che Gesù è venuto a superare. I suoi discepoli hanno ricevuto il "segreto" del Regno: non vi sono un dentro o un fuori – nessun gruppo esterno o gruppo interno. Tutti i gruppi che si delineano nell'interpretazione di Gesù devono essere visti come facenti parte sia della Chiesa, sia della mia vita come discepolo di Cristo. Sia su di un livello personale che comunitario, i Cristiani rifiutano la Parola; essi l'abbracciano e poi la lasciano; si fanno prendere dalle ricchezze del mondo; nei tempi di persecuzione cadono. Ma essi portano anche frutto, qualche volta frutto abbondante. Come appartenenti al Regno di Dio bisogna abbracciare tutto questo.

 

Penso che questa interpretazione non faccia violenza al testo. Essa può dar conto di quelli che sono di fuori, non col rigettarli o col definire noi contro di loro, ma col mostrare che è il loro modo di pensare a porli di fuori e che la porta è sempre aperta perché essi si possano liberare della porta e con essa della distinzione tra dentro e fuori. Inoltre, queste parabole e il tipo di interpretazione che richiedono sono costituiti in profondità dalla morte e resurrezione di Cristo. Infine è questo evento del ricevere violenza senza rispondervi che ci insegna il significato della parabola.

 

Conclusione

 

Il Cristianesimo non sembra aver intaccato la violenza nel mondo, ma, come abbiamo visto, le apparenze possono essere interpretate in modi differenti. La preoccupazione crescente per la violenza e il tentativo di comprenderla non nascono dal nulla. La situazione del Cristianesimo e della violenza può essere paragonata ai semi di alcune specie vegetali dell'Ovest americano. Perché germinino è necessario un incendio boschivo. Ma io non intendo che il fuoco significhi la violenza: questo vorrebbe dire conferirle ancora una volta un potere generativo. No, il fuoco è lo Spirito Santo che lentamente brucia il mondo dell'uccidere ed essere uccisi e fa scaturire nuove forme di vita. La violenza nelle nostre case, nelle nostre strade e tra le nostre nazioni sempre più viene esposta per quello che è: semplice violenza umana senza fascino e senza giustificazione.  Queste due grandi religioni sono centrali nel processo di rivelazione dell'inadeguatezza dell'interpretazione letterale che la violenza impone alla situazione. Esse ci forniscono nuove modalità di comprensione.

 

Note

 

(1) Probabilmente il miglior esame della violenza nella Bibbia è quello di Raymund Schwager in Must There be

Scapegoats? Violence and Redemption in the Bible, (Harper & Row, San Francisco 1987).

(2) Per questa comprensione dello "scandalo", cfr. S. Kierkegaard, La malattia mortale, Newton & Compton 2004.

 

GENERATIVA

 

BIBLIOSOFIA