DALLA  PARTE  DELLA  VITTIMA

La teoria mimetica di René Girard applicata al diritto

 

Angelo Pianca

angelopianca@tin.it

www.bibliosofia.net

 

 

INTRODUZIONE

 Il tema di fondo di questo lavoro può sintetizzarsi in un solo concetto: la fenomenologia della violenza. Nella società attuale sono molteplici le modalità sotto le quali da un lato appare e dall’altro viene percepita la violenza: intesa come atti di terrorismo, persecuzione di una vittima e non da ultimo come lesione di diritti individuali. Queste sono sostanzialmente le linee guida che ripercorrerò a breve servendomi costantemente dell’impostazione generale al problema data dal più grande “antropologo” contemporaneo: Renè Girard.

D’obbligo una precisazione: definire il Maestro come antropologo in senso stretto sarebbe un errore non indifferente visto che in ogni suo scritto egli tiene a precisare che la sua analisi ha ben poco (se non nulla aggiungerei io) a che vedere con le tecniche di cui si servono i vari autori riunibili nella grande categoria che va sotto il nome di antropologia culturale, autori con i quali non raramente l’autore francese si trova a polemizzare. Non è nemmeno un filosofo nella più ampia accezione del termine visto che le sue idee sono passo per passo confermate da un’attenta e minuziosa ricerca nel reale per il reale, la sua potrebbe al massimo esser definita filosofia antropologica. Quel che importa non sono le definizioni ontologiche fini a se stesse, bensì la costruzione di una teoria che a partire dall’analisi dell’uomo nei testi che parlano dell’uomo possa spiegare i comportamenti delle persone nella loro quotidianità, nelle gioie e soprattutto nelle crisi sociali. In poche parole si può definire Girard come una mente fuori dagli schemi, un autore capace di dare a problematiche filosofiche venature prettamente antropologiche attraverso un metodo di esegesi dei testi innovativo: la vera antropologia di Girard sta nel metodo di ricerca, nello studio dell’uomo così come appare nella realtà, così come è stato descritto anche nella Bibbia, nei Vangeli, nei Miti, una ricerca che giammai sia fondata su impressioni soggettive (a differenza degli etnologi a suo dire troppo tendenti all’opportunismo politico), bensì sull’osservazione imparziale o ancor meglio sull’osservazione antropologica girardianamente intesa. Poco importa se i miti sono miti e non verità, quello che interessa al nostro Autore è analizzare l’idea di violenza e di natura umana prevalente in una società e chi meglio dei più grandi autori della storia della letteratura possono fungere da paradigma del modo di pensare in un certo periodo storico?

Nella sua ultratrentennale attività di studio Girard è giunto all’elaborazione della teoria mimetica che contiene tutta la sostanza del suo pensiero, dalla nozione di natura umana al ruolo della morale cristiana nella risoluzione dei conflitti interpersonali. Di questa teoria mi servirò come presupposto di tutto il lavoro, come punto di riferimento, come incipit rivelatore per poter delineare la natura dei conflitti e delle crisi criminose, per dare una spiegazione della necessità dello Stato-Ordinamento, per sottolineare come la ratio dell’intero impianto giuridico dei sistemi occidentali sia, in certi casi più, in altri meno incentrato sulla morale giudaico cristiana, per dimostrare come non sia solo filosoficamente giusto dar tutela ai diritti della persona, ma come ciò sia antropologicamente necessario.

Prendendo come punto fermo, come ipotesi di partenza, la teoria mimetica si potrà notare come lo stesso principio di legalità (nella sua accezione strettamente giuridica) cardine del nostro sistema penalistico sia un’evidente conseguenza dell’accettazione, seppur implicita, delle teorie del Professore francese. Infatti uno Stato come l’Italia la cui cultura è da sempre stata di matrice cristiana non potrà che far propria la lezione dei Vangeli cristallizzata da Girard nella sua teoria e riassumibile in due parole: tutela delle vittime. Tutelare le vittime, è bene anticiparlo fin da subito, significa evitare il meccanismo di capro espiatorio ossia quell’escalation di violenza che conduce al sacrificio di un soggetto innocente la cui immolazione rappresenta il momento di riappacificazione della collettività e la ricomposizione della crisi. Il pensatore francese parla di meccanismo vittimario indicando quella serie di azioni che portano un gruppo di persone, membri di una società investita da una crisi intestina, ad unirsi, via via in un numero sempre maggiore, secondo il principio mimetico o dell’essere secondo l’altro contro un’unica vittima su cui sarà polarizzato l’odio generale e il sentimento di vendetta. Girard giunge alla conclusione che è il Cristianesimo l’unica via di scampo per una società che voglia preservare i suoi cittadini, tutti potenziali vittime, da atti arbitrari posti in essere da una folla accecata d’odio. Parla poi di trionfo della Croce che sconfiggendo il sistema vittimario esalta il primato dell’individuo e la sua natura divina in quanto creatura di Dio.

Intendo subito chiarire quale sia la ragione della scelta del Cristianesimo come modello per eccellenza idoneo a costituire il migliore esempio dinamico, la miglior rappresentazione di tutto il pensiero girardiano. Nei primi testi in cui inizia a trattare del ruolo della religione cristiana non sembra che essa funga da anello finale della sua teoria, non sembra che costituisca la soluzione della sua ricerca, la risposta a chi eventualmente gli rimproverasse di descrivere comportamenti senza proporre qualcosa di innovativo, bensì essa funge da paradigma esemplificativo dei suoi ragionamenti che può essere letto tra le righe di un’opera letteraria (e non Sacra!) così importante. Un esempio che avvalori la realtà del suo studio, un esempio come tanti altri che sono descritti nei testi (dal racconto di Apollonio di Tiana, al mito di Edipo, dai testi di Dostoevskij alle tragedie shakespeariane). Tuttavia ben presto il cristianesimo si eleva da semplice esempio a testo Sacro. Ma non testo Sacro inteso dal punto di vista religioso (il testo dei cristiani letto nelle Chiese), ma da quello antropologico: la Rivelazione di cui parla Girard è quella dei Vangeli che per la prima volta scoprono il millenario meccanismo vittimario sancendo Cristo (ecco il c.d. trionfo della Croce) come salvatore degli uomini e dei loro diritti. I Vangeli sconfessano satana si legge: ossia il sacrificio di Gesù rappresenta il primo momento in cui la storia prende coscienza della morte di un innocente in seguito ad un meccanismo di capro espiatorio. La sacralità di cui parlavo prima avrebbe potuto essere attribuita a qualsiasi altro testo che avesse avuto il merito di riconoscere la persecuzione delle vittime e rendere consapevole l’umanità intera di un problema che prima non era ritenuto tale. Solamente che né i miti né altri racconti sono stati in grado di rivelare all’uomo quello che invece i Vangeli hanno avuto il merito di fare. Quindi la rivelazione dei Vangeli non riguarda solamente il popolo cristiano, ma qualsiasi persona vivente: dal mussulmano all’induista all’ateo. Tutti devono essere difesi dal processo vittimario perché tutti sono egualmente figli di quel dio che ha permesso di scovare la menzogna satanica[1] opponendo alla violenza mimetica la figura di un innocente ingiustamente sacrificato. Dalla presa di coscienza dell’innocenza della vittima nasce l’esigenza di predisporre sistemi giuridici e statali idonei in primis a garantire la vita umana. Il concetto di persona trova la sua massima rappresentazione nei Vangeli.

 

Dopo questa premessa sarà possibile introdurre una originale concezione di diritti naturali connessa alla natura umana così come descritta da Girard. Una ipotesi che si serve degli effetti giuridico-filosofici della teoria mimetica nell’ambito della ricerca del fondamento dei diritti. Si parlerà di un Diritto Fondamentale per eccellenza: il diritto a non essere vittima. Situazione che caratterizza l’uomo e ne definisce la sostanza, l’uomo diventa persona quando le società si rendono conto della pericolosità e dell’inutilità del meccanismo del capro espiatorio adoperandosi per evitare la strumentalizzazione dell’individuo per scopi di ricomposizione delle crisi mimetiche violente. Attraverso un diritto certo e incentrato sul principio di legalità gli Stati si possono dire garanti dei diritti umani.

 

Come punto d’arrivo, come attuale banco di prova delle conclusioni a cui si è cercato di arrivare in questo lavoro ho scelto di trattare il problema del terrorismo dopo l’11 Settembre. Grazie al sostrato filosofico rappresentato dalla teoria di Renè Girard ed i relativi risvolti giuridici da me estrapolati sarà possibile analizzare sotto un’interessante angolatura cosa sia cambiato nel sistema giuridico americano dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. Si cercherà di rispondere alla difficile domanda se la reazione dell’America può considerarsi idonea a garantire la difesa del territorio e allo stesso tempo anche il diritto delle persone a non essere vittima; se il modello di Guantanamo può essere inquadrato all’interno di normali strategie difensive ovvero può rappresentare un ritorno al meccanismo vittimario attuato questa volta dallo Stato stesso attraverso una legislazione d’urgenza. A queste delicate questioni cercherò di dar risposta tenendo aperte molteplici vie: le interpretazioni girardiane al problema, la portate norme di diritto internazionale e non da ultimo alcune sentenze della Corte Suprema degli USA. Si concluderà, in poche parole, che le limitazioni ai diritti possono essere tollerate da un ordinamento democratico solamente fino a quando non si traducano in prevaricazione del diritto fondamentale a non essere vittima arbitraria di un sistema in crisi, fino a quando non sia oltrepassato il limite di ogni sistema penalistico incentrato sul principio di offensività ossia servirsi della persona come strumento per il raggiungimento di finalità di politica criminale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO  I

 

RENE GIRARD: TRA TEORIA MIMETICA E DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

 

 

  1. Interesse giuridico alla teoria mimetica: spunti introduttivi

 

Quello che si vuole qui sostenere è che dall’analisi delle riflessioni girardiane circa il meccanismo del capro espiatorio si evince la necessità di elaborare un sistema giuridico che si adatti alla società in cui i rapporti interpersonali si svolgono secondo logiche prettamente mimetiche. E’ l’esigenza di assicurare agli uomini il diritto di non essere vittime. Si vedrà a breve che questo può dirsi il diritto per eccellenza, quell’incipit fondamentale dal quale si dipanano tutte le altre garanzie individuali. Se sussiste in capo agli uomini un tale diritto, parallelamente lo Stato è gravato dall’obbligo di adoperarsi per garantirlo. Tuttavia supponendo ipoteticamente che in una comunità venga istituito uno Stato dopo anni di anarchia, in mancanza di una costituzione (che eventualmente codifichi il vincolo di cui sopra), nulla obbliga le neo nate istituzioni a garantire il diritto di non essere potenziali capri espiatori. Quindi, soffermandoci ancora un po’ su ragionamenti teoretici, la spiegazione della sussistenza del vincolo da un lato squisitamente giuridico-costituzionale (tralasciamo per ora i riverberi che la questione potrebbe assumere nel diritto internazionale) non è poi così soddisfacente proprio a causa dell’incertezza del rapporto stesso nell’ipotesi di assenza di norme supreme cui lo stato debba conformarsi. Ne consegue che differente deve essere la via da battere per trovare una soluzione al quesito che ci siamo posti. E’ la teoria mimetica di Girard che ci soccorre: infatti lo Stato deve adeguarsi alla norma fondamentale non tanto perché vi sia giuridicamente obbligato, bensì perché è antropologicamente necessario per la sua sopravvivenza. E’ soprattutto per motivi di opportunità che dev’essere predisposto un sistema giuridico che sia garantista (nel senso sopra indicato): infatti senza leggi idonee a contrastare la violenza mimetica questa stessa potrebbe ritorcersi contro le medesime istituzioni al culmine di una crisi intestina. Questo potrebbe essere il caso di un paese dotato si di un sistema giuridico, ma inidoneo a garantire il Diritto umano per eccellenza perché ad esempio lo Stato si serve del diritto per trasformare i cittadini in sudditi, in mezzi per il perseguimento di finalità antidemocratiche.

 

Per comprendere al meglio gli approfondimenti a questi preliminari spunti di riflessione è necessario trattare con ampio spazio la teoria mimetica.

 

 

  1. Presupposto: il principio mimetico o dell’essere secondo l’altro

 

L’intera costruzione teorica di Renè Girard trae le sue fondamenta da un’ipotesi precisa: la natura dell’uomo, i suoi comportamenti, le sue azioni, i pensieri e soprattutto i desideri sono determinati dal c.d. principio mimetico. Anzi è meglio non parlare di ipotesi mimetica, è piuttosto preferibile usare il termine presupposto in quanto in via generale s’intende per ipotesi un’affermazione aprioristica incontestabile, quando invece Girard si sforza in ogni sua opera di dimostrare la verità intrinseca, antropologica del mimetismo senza dare nulla per scontato.

L’uomo è l’individuo desiderante per eccellenza, ogni suo movimento si basa sull’essere secondo l’altro, sull’omologazione ai costumi, alle mode, ai pensieri e alle azioni di chi gli sta accanto.

Si tratta di riconoscere in ciascuno di noi un essere costitutivamente mancante, che non è autonomo né autosufficiente, ma che viene formandosi e trasformandosi attraverso l’altro nel corso delle incessanti interazioni umane[2].

Si può constatare come la differenza principale tra persone ed animali, non consista essenzialmente nell’intelligenza, ma nella natura dei movimenti: si parla di mero appetito a guida delle bestie e di desiderio definitorio dell’uomo. Il concetto di desiderio è totalmente diverso da quello di appetito: si vuole qualcosa perché la vuole anche l’altro, è il principio mimetico dell’essere secondo l’altro che muove l’individuo nella società. L’animale invece agisce secondo appetiti dettati dall’istinto, l’uomo di contro osserva e successivamente imita. Ad esempio il fatto che in un certo periodo storico si sia preferito un determinato tipo di abbigliamento e in un altro uno del tutto opposto non significa che i gusti delle persone si siano evoluti in quanto l’essenza di un dato vestito non piace più a qualche anno di distanza, ma perché la tendenza generale della maggioranza è propensa verso un altro modello di abito in quel preciso momento. Le cose che noi vogliamo avere non le desideriamo nella loro essenza, ma perché sono possedute dal modello a cui ci omologhiamo.

 Quanto si chiama desiderio o passione non è imitativo, mimetico, accidentalmente o di tanto in tanto, bensì sempre. Lungi dall’essere ciò che è più intimamente nostro, il nostro desiderio proviene dagli altri. Esso è per definizione sociale[3].

Girard schematizza questo meccanismo servendosi dello schema di rapporto triangolare il quale rappresenta quella situazione in cui un individuo desidera di possedere un oggetto che un altro dispone. C’è quindi uno stretto rapporto tra persona desiderante (a) - modello imitato (b) - oggetto desiderato (c) tale da provocare inevitabilmente uno scontro nel momento in cui l’oggetto non sia divisibile o usufruibile da entrambi. Si parla di modello-ostacolo quando risulta impedito ad un terzo il godimento di una cosa o di una persona che per forza di cose è indivisibile.

E’ il triangolo soggetto-modello-oggetto che dà forma al desiderio. L’oggetto può essere un’altra persona, un simbolo, uno status sociale, qualsiasi cosa; è il terzo che acquista valore ai miei occhi perché desiderato dal modello. In quanto nostro modello, ammirato e amato, l’altro è anche il nostro maggiore rivale, perché sarà sempre laddove vorremmo essere e non siamo (…). La rivalità si accresce come un torrente in piena, proprio per il fatto che non è l’oggetto ad alimentare la sfida, ma l’essere del nemico, con quel suo sguardo così avido come il mio (…). Il rivale coincide, stridendo, con il modello. E non è più possibile dividere il campo tra “me” e “l’altro”: il “me” perde i suoi confini, non si distingue un’identità unica, chiara e netta, dai contorni ben precisi, ma si intravede una trama di relazioni intrecciate tra loro. Il “me” sconfina in un “noi”[4].

L’idea di perdita di identità del soggetto desiderante di fronte al modello è magistralmente descritta da Dostoevskij soprattutto in Delitto e Castigo dove i molteplici momenti di disturbo mentale del protagonista Raskol’nikov chiuso nella sua solitudine psicologica altro non sono che effetti del risentimento in una situazione di rivalità mimetica. Scrive Tomelleri: “in ogni risentito rifiuto di comunicare da parte dell’individuo si nasconde, secondo Girard, una volontà negata di comunicare il proprio desiderio di essere desiderati dall’altro”[5]. C’è dunque un rapporto con il modello-rivale di amore e odio allo stesso tempo.

Ritornando al rapporto triangolare si deve specificare che il concetto di scandalo è prettamente mimetico: la parola greca σκάνδαλον significa ostacolo, insidia. E’ proprio l’altro con cui entro in conflitto triangolare che funge da ostacolo per il soddisfacimento del mio desiderio. Già si noti un indice di violenza originaria nell’uomo: la natura delle persone non è buona, ma aperta ai conflitti, agli scandali intesi nel senso appena specificato.

 

Nelle pagine che seguono si noteranno molteplici connessioni del principio mimetico con le tematiche trattate: la teoria girardiana è connotata da una forte circolarità interna. Tutti i concetti sono riconducibili al mimetismo e parallelamente tutti i concetti entrano in correlazione tra loro per il medium del presupposto stesso. Ma la circolarità del pensiero non è apprezzata solo dal punto di vista meramente interno alle opere di Girard, ma soprattutto nei rapporti esterni con tutta una serie di fenomeni della quotidianità che l’autore francese non ha mai esplicitamente trattato. Ad esempio metterò in luce le connessioni con cruciali problematiche giuridiche. La teoria mimetica è in campo giuridico una sorta di prova del nove per valutare le presunte violazioni dei diritti individuali. Quel che voglio sostenere è che la teoria mimetica non è fine a se stessa, non inizia e finisce con i libri di Girard, ma è un mezzo quasi universale per la comprensione della realtà nelle sue più ampie sfaccettature qualora si assuma come obiettivo la tutela della persona.

 

 

  1. Il meccanismo vittimario

 

Girard, lo ribadiamo, in primo luogo definisce la natura umana come mimetica poiché le azioni delle persone sono intraprese in quanto viste fare da un modello.

 

Dopo aver brevemente delineato il presupposto su cui è costruito il pensiero dell’antropologo francese è ora opportuno introdurre il tema che precipuamente interessa il mio lavoro: il meccanismo vittimario o del capro espiatorio. Naturale conseguenza giuridica delle seguenti analisi che accolgono, lo si è potuto già apprezzare, come fulcro indiscusso la centralità della persona sarà la necessità di predisporre un sistema idoneo a garantire e tutelare l’inviolabilità dei diritti umani e un sistema garantista incentrato sul giusto processo tale ad evitare ogni meccanismo che possa rappresentare una “giustizia” sommaria ed arbitraria.

Girard afferma che il sacro, la religione, i miti nascono in seguito al processo vittimario che esplode quando la comunità sociale si trova a dover affrontare situazioni connotate da specifici attributi. Queste determinate situazioni non sono altro che momenti di grave crisi intestina che mina la solidità del gruppo e ne minaccia la sopravvivenza. Ad esempio una carestia o una pestilenza. Sono periodi che sconvolgono l’esistenza della comunità che, incapace di farvi fronte, necessitano di un escamotage grazie al quale ricomporre la crisi riconciliando gli animi. Qui entra in gioco la trascendenza che si manifesta all’interno del meccanismo vittimario che ora delineerò. Girard propone questa teoria antropologica analizzando i comportamenti umani durante una crisi collettiva. Conclude che in ogni occasione simile ci si trova di fronte ad una precisa tipologia di risoluzione del problema che funziona così: le singole rivalità tra gli uomini degenerano velocemente dando vita ad un desiderio unanime e indifferenziato di vendetta. Il propagarsi del sentimento di vendetta (alimentato da una forte dose di risentimento) è definito come contagio mimetico che si espande a macchia d’olio all’interno della comunità colpendo qualsiasi cittadino anche il meno coinvolto. Successivamente viene a formarsi una folla, contagiata, pronta a scegliere una singola vittima contro cui polarizzare l’odio generatosi. E’ interessante soffermarsi sulla folla: ci troviamo di fronte ad una massa di uomini che, esasperati dalla crisi interna, si uniscono in preda a frenesia mimetica in quanto l’essere secondo l’altro fa in modo che da un gruppo ristretto e circoscritto di “contestatori” si passi alla consolidazione di una collettività pronta a lasciarsi andare ad un episodio di violenza arbitraria. Una volta individuata la vittima essa viene sacrificata, linciata dalla comunità in preda a mimetismo violento degenerato ed a seguito dell’atto finale si verificherà la ricomposizione della situazione conflittuale.

E’ ora necessario approfondire il sistema vittimario considerando le ragioni che portano alla scelta del singolo capro espiatorio e il motivo per cui la folla non si sottrae dal compimento di un atto barbaro come il sacrificio. Innanzitutto l’autore francese, analizzando sia i miti e soprattutto molteplici eventi storici, è giunto alla conclusione che la folla in preda a frenesia mimetica sceglie le proprie vittime non in base ad un criterio di colpevolezza, ma a seconda di caratteristiche fisico-biologiche. Quindi non si ricorre ad un procedimento incriminante tipico dei processi democratici (nel diritto penale italiano esso: commissione di un fatto antigiuridico e colpevole punito da una norma irretroattiva, entrata in vigore prima della commissione del fatto-reato, con una pena non contraria al comune senso di umanità), ma ci si scaglia contro un individuo che, da una analisi meramente esteriore, è causa potenziale della crisi che ha investito la comunità. Basti ricordare le accuse agli ebrei di aver contaminato le città diffondendo la peste: già in partenza i giudei erano visti in modo tutt’altro che positivo dalla maggiorparte delle varie congregazioni civili e sarà sufficiente una testimonianza anche falsa o lacunosa per far scatenare la vendetta della folla. Un altro esempio è dato dalla persecuzione dei minorati, o degli stessi ebrei da parte dei nazisti: persone oggettivamente innocenti ma accusate di corrompere la purezza della razza ariana. Per non parlare poi dei processi alle streghe, agli eretici, ai delitti dell’Inquisizione. Come si vedrà più avanti il meccanismo vittimario, seppur implicitamente, è magistralmente descritto da Manzoni nelle pagine dedicate alle condanne degli untori nella “Storia della colonna infame”. Tuttavia non è sufficiente un mero difetto fisico per scatenare la violenza della massa accecata dal mimetismo. Infatti, considerando ad esempio lo specifico episodio degli untori si può notare come solo dopo le testimonianze, poco importa se fallaci ed assurde, i singoli accusati vengono “processati” e condannati: è sufficiente la parvenza di colpevolezza, anche minima, non supportata da alcuna prova certa, per dare vita alla scintilla che porta all’immolazione. Il contagio mimetico acquista un potere incriminante incredibile: dalla testimonianza di due sole donne sui comportamenti di un “untore” si arriverà a raccogliere un vero e proprio dossier completo di accuse rilasciate in vario numero da altri cittadini: questo è spiegabile perché ciascuno, imitando il modello iniziale, in una situazione di crisi quale la pestilenza, fa di tutto per ricordare anche un episodio secondario che possa però esser utile a far condannare il presunto colpevole; si giungerà addirittura a formulare accuse perché il sospettato è stato visto camminare in modo strano oppure troppo vicino ai muri di una casa. E’ evidente come in momenti di crisi intestina il rapporto triangolare non provochi la rivalità tra persona desiderante e modello invidiato perché tutti si riconoscono danneggiati allo stesso modo e in cerca di giustizia allo stesso modo: tutti sono in quest’occasione amici di tutti tranne che del capro espiatorio contro il quale si coalizzano. Il contagio mimetico comporta questo tipo di aggregazione spontanea. La folla una volta scelta la propria vittima è unita e sicura che il sacrificio di essa sia giusto e utile alla ricomposizione della crisi. Questo perché, una volta contagiati, gli uomini sono letteralmente accecati e perciò incapaci di rendersi conto del male che stanno andando a fare, dell’estrema ingiustizia ed infondatezza della violenza contro il capro espiatorio. Ma il motivo principale è che il meccanismo vittimario ha sempre funzionato da quando vi si è ricorsi: la situazione conflittuale è sempre stata ricomposta, seppur momentaneamente, consentendo la conciliazione delle genti. Viene spontaneo chiedersi come mai il meccanismo vittimario riesca a riportare la pace tra gli uomini attraverso un omicidio o un’espulsione dalla comunità. Bisogna analizzare il modo in cui viene sacrificata la vittima e la successione degli eventi dopo l’esecuzione dell’atto. Si rende però necessario, in questo momento, specificare come se da un lato la prima fase del processo vittimario fin qui esaminata sia uguale per qualsiasi singolo episodio di tale natura, dall’altro è differente invece la fase conclusiva a seconda se si prende in considerazione un episodio mitologico o un episodio avvenuto in età cristiana dove per età cristiana s’intende tutta la storia dell’umanità che inizia con la Rivelazione, con il messaggio di Cristo e dei Vangeli. Di questo tratterò a breve. Girard afferma che il denominatore comune dei miti consiste in due transfert: il primo, detto anche transfert di aggressività, consiste nella lapidazione o l’espulsione della vittima da cui deriva un beneficio concreto per l’intera comunità (la ricomposizione della crisi e la seguente pace, seppur temporanea), mentre il secondo, detto transfert di divinizzazione, pone fine al processo e consiste nella venerazione della vittima immolata da parte della comunità riappacificata, venerazione giustificata dal potere conciliatorio del capro espiatorio.

  Le divinizzazioni mitiche si spiegano perfettamente per opera del ciclo mimetico, e si basano sulla capacità che hanno le vittime di polarizzare la violenza. Se il transfert che demonizza la vittima è potentissimo, la riconciliazione che ne consegue è così improvvisa e perfetta da apparire miracolosa e da suscitare un secondo transfert che si sovrappone al primo, il transfert di divinizzazione della vittima[6].

Il problema che nasce ora è molto rilevante: infatti, come ho sopra sottolineato, quasi sempre le tregue conseguite con il meccanismo vittimario sono temporanee, di breve durata. Giocoforza ne consegue un nuovo ricorso al capro espiatorio e così via in una serie di violenze ininterrotte. Secondo Girard è per evitare e scoraggiare simili risvolti che si rende auspicabile un intervento esterno di qualcuno in grado di svelare il processo vittimario rendendo i membri delle folle consci del male che stanno per andare a fare contro la vittima e dell’inutilità di episodi di violenza arbitraria. Tuttavia per svelare ciò si deve essere immuni al contagio mimetico che colpisce gli uomini in modo da osservarne il funzionamento per poi descriverlo e rendere dotte le persone “accecate”. E’ chiaro come una persona con tale capacità debba essere meta-umana poiché uno degli aspetti consustanziali all’individuo è quello di essere preda del mimetismo, si prospetta perciò un intervento della trascendenza. Costui è Gesù, la seconda persona della Trinità che è sia uomo sia allo stesso tempo uomo fatto della stessa sostanza del Padre e quindi dotato di natura divina.

E’ ancora prematuro trattare in modo dettagliato ed approfondito del ruolo di Cristo nel pensiero girardiano in quanto è preferibile proporre qualche esempio concreto di meccanismo vittimario per poi meglio comprenderne l’essenza. I primi due casi attengono all’età pre-rivelatoria, l’ultimo invece è tratto dalla “Storia della colonna infame” di Manzoni.

 

 

3.1. Esempio di meccanismo vittimario: la lapidazione di Efeso

 

Girard in più d’un libro presenta come chiaro paradigma di capro espiatorio l’episodio della lapidazione di Efeso narrato da Flavio Filostrato nel suo testo “Vita di Apollonio di Tiana”. In questo libro sono raccolte le descrizioni dei momenti più significativi della vita di questo guru del II sec. d.C. che fu successivamente citato da gruppi pagani come esempio inconfutabile della superiorità della loro religione rispetto al Cristianesimo. Innanzitutto la lapidazione di Efeso è posta in essere in un periodo in cui la città è assalita da una tremenda pestilenza che ha già causato moltissime vittime. Ecco il presupposto fondamentale: una grave crisi interna, irrisolvibile attraverso normali procedure (medicina in primis), che mette in pericolo la sussistenza della stessa comunità.

Leggiamo queste righe esemplificative: “-Fatevi coraggio, perché oggi stesso metterò fine a questo flagello- (la pestilenza). E con tali parole (Apollonio) condusse l’intera popolazione al teatro, dove si trovava l’immagine del dio protettore. Lì egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante, il quale astutamente ammiccava gli occhi come se fosse cieco, e portava una borsa che conteneva una crosta di pane; era vestito di stracci e il suo viso era imbrattato di sudiciume. Apollonio dispose gli Efesi attorno a sé, e disse: -Raccogliete più pietre possibili e scagliatele contro questo nemico degli dei-. Gli Efesi si domandarono che cosa volesse dire, ed erano sbigottiti dall’idea di uccidere uno straniero così palesemente miserabile, che li pregava e supplicava di avere pietà di lui. Ma Apollonio insistette e incitò gli Efesi a scagliarsi contro di lui e a non lasciarlo andare. Non appena alcuni di loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante che prima sembrava cieco gettò loro uno sguardo improvviso, mostrando che i suoi occhi erano pieni di fuoco. Gli Efesi riconobbero allora che si trattava di un demone e lo lapidarono sino a formare sopra di lui un grande cumulo di pietre. Dopo qualche momento Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di rendersi conto di quale animale selvaggio avevano ucciso. Quando dunque ebbero riportato alla luce colui che pensavano di aver lapidato, trovarono che era scomparso, e che al suo posto c’era un cane simile nell’aspetto a un molosso, ma delle dimensioni di un enorme leone. Esso stava lì sotto i loro occhi, spappolato dalle loro pietre, e vomitando schiuma come fanno i cani rabbiosi. A causa di questo la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il demone era stato ammazzato”.

 Ho messo graficamente  in evidenza alcune parole significative dalle quali si possono comprendere i meccanismi classici del sistema vittimario. Questo brano rappresenta chiaramente come in seguito ad una situazione di grave crisi intestina (pestilenza) la folla in preda al panico si fa plagiare da un individuo, Apollonio, al quale sono attribuiti strani poteri magici. Tuttavia l’elemento fondamentale è che Apollonio, conoscendo molto bene il funzionamento del sistema del capro espiatorio, si pone nei confronti della città in modo emblematico: convince la gente che uccidendo un singolo individuo i problemi sarebbero scomparsi. Infatti una volta scelta la vittima riesce facilmente a far vedere alla folla oramai contagiata dal mimetismo (si comporta come vuole il guru) quello che egli stesso vuole che sia osservato, ossia che non si tratta di un uomo ma di un demone che in quanto tale è responsabile della pestilenza e dell’odio verso la comunità. Non a caso il capro espiatorio scelto è un mendicante straniero, vestito di stracci, sporco e apparentemente cieco. Rappresenta quella tipologia di persona che sta agli antipodi della comunità sociale, è il classico emarginato in genere mal visto da tutti perché portatore di chissà quali segreti. Proprio per questo gli Efesi possono convincersi della colpevolezza del pover’uomo che se fosse stato invece una persona di spicco non sarebbe probabilmente scattata alcuna scintilla tale da innescare l’atto violento. Il brano si conclude con la ricomposizione del conflitto, con la conciliazione della folla ed un sentimento di giustizia raggiunta. Non bisogna sottovalutare la presenza nel testo della figura di Eracle: come visto sopra il meccanismo vittimario dei miti prevede un transfert di divinizzazione che permette, attraverso il riconoscimento della trascendenza della vittima, di nascondere e di far passare in secondo piano il transfert violento e barbaro cosicché la folla non comprenda il male commesso così da permettere un’ulteriore ricorso al capro espiatorio quando sarà richiesto. Tuttavia il “miracolo” di Apollonio non rientra nella tipologia dei miti classici, come ad esempio il Dionisismo, ma presenta delle differenze essenziali che lo rendono un mito incompleto e di conseguenza incapace di nascondere pienamente la violenza commessa dalla massa. Infatti dopo la lapidazione gli Efesi non sembrano riconoscere al mendicante ucciso, anzi all’animale che sembra aver preso il suo posto, alcuna forza divina. Ed è proprio per questo che viene subito posizionata la statua di Eracle sul posto. Non ci si trova di fronte ad un meccanismo completo e spontaneo, ma ad un abbozzo di mito che proprio per questa deficienza permette di rendere ancor più chiara e comprensibile a noi la barbaria e l’aggressività esperita contro il capro espiatorio.

 

 

3.2. Esempio mitologico di meccanismo vittimario: il Dionisismo

 

L’analisi del Dionisismo permette di prendere contatto con l’essenza di un mito “originale”, di intuire le differenze con la lapidazione di Efeso e soprattutto di apprezzare la necessità dell’intervento salvifico dei Vangeli attraverso il “trionfo della croce”.

Girard, prima di parlare dei Baccanali, premette che per afferrare pienamente tale fenomeno bisogna esporre il significato antropologico delle feste. Le persone si riuniscono accomunate da caratteristiche comuni quali ad esempio l’appartenenza ad un gruppo di amici. e all’interno del “convivio” le differenze tra i vari partecipanti vengono a mancare in quanto tutti sono ugualmente partecipi della festa. Notiamo quindi uno stato di comunione di idee, azioni e quant’altro si vuole. La caratteristica più importante del ritrovarsi insieme consiste nella trasgressione: i limiti imposti dalla vita quotidiana in cui ognuno occupa un ruolo per così dire istituzionale passano in secondo piano permettendo il compimento di azioni fuori dagli schemi ordinari che infrangono regole, divieti o anatemi imposti ad esempio dalla morale comune o dal ruolo ricoperto nella collettività.

La festa rappresenta il gioco della violenza attraverso la trasgressione.

In quasi tutte le società vi sono feste che conservano a lungo un carattere rituale. L’osservatore moderno vi ravvisa soprattutto la trasgressione dei divieti. La trasgressione va iscritta nel quadro più vasto di un generale annullamento delle differenze: le gerarchie familiari e sociale sono temporaneamente soppresse o invertite. I figli non obbediscono più ai genitori, i domestici ai padroni, i vassalli ai signori. L’annullamento delle differenze, come ci si può aspettare, è spesso associato alla violenza e al conflitto. Imperversano i disordini e la contestazione[7].

 Tale osservazione antropologica è valida anche per i Baccanali. Le baccanti costituiscono un gruppo di persone unite dalla comunione con Dioniso raggiungibile attraverso il rituale descritto da Euripide nella celebre tragedia. Nel caso specifico il tema dell’opera consiste nel rito bacchico, nello sparagmòV del capro espiatorio. Il carattere festivo dei Baccanali è evidente: i vecchi si confondono con i giovani, le donne con gli uomini, i belli con i brutti. Questo è permesso dalla potenza unificatrice del dio: attraverso un potente contagio mimetico posto in essere dalla “sue fedeli” baccanti asiatiche che imperversando a Tebe ne introducono il culto. Dioniso è conscio di quello che va a fare, egli vuole contagiare le tebane per farsi riconoscere dio a tutti gli effetti da Penteo, re della città, il quale si ostina a non volerlo venerare. Si crea di conseguenza un rapporto conflittuale tra Penteo e Dioniso, rapporto che avrà il proprio epilogo tragico con l’immolazione del re da parte delle baccanti accecate dall’estasi dionisiaca che altro non è che il contagio mimetico così come descritto da Filostrato nella Vita di Apollonio. Come gli Efesi accecati vedono nel mendicante un demone, così le Menadi tebane, anch’esse accecate, scambiano Penteo con un animale (in questo caso un leone) che costituisce il capro espiatorio di ogni rituale dionisiaco. Tra Bromio ed il re di Tebe intercorre una rivalità tipica dei doppi mimetici: l’uno odia l’altro, ma ne è necessariamente attratto per il raggiungimento del proprio scopo. In questo caso la superiorità del dio, trascendente, è rivelata in quanto egli, immune al contagio mimetico e fondatore di esso, attende il passo falso di Penteo, umano e aperto al contagio, che ad un certo punto non resiste dal restare escluso dal quel rituale segreto e misterioso che si svolge alla porte della sua città. Ecco che le Menadi vedono in lui, uomo, il capro espiatorio perfetto: quella persona pericolosa per l’unità del gruppo. Il baccanale sul Citerone quindi degenera, com’è potenzialmente possibile in una normale festa, nella violenza: Penteo viene smembrato consentendo alle Menadi di venire in comunione con il proprio dio e terminare il rituale. Ecco il doppio transfert automatico ed inconscio che qualifica come mito il Dionisismo: all’immolazione del capro espiatorio (transfert dell’aggressività) segue il riconoscimento della trascendenza della vittima che consente la comunione con Dioniso attraverso il corpo smembrato (transfert di divinizzazione spontaneo). Il dio ha raggiunto il proprio scopo: farsi vendetta. Un primo raffronto tra i due esempi concreti qui riportati riguarda la vittima; il medicante di Efeso appare a tutti i lettori innocente, mentre Penteo (come d’altronde anche Edipo) è in qualche modo doppiamente colpevole, da un lato di non venerare una divinità, dall’altro di aver infranto le regole del baccanale travestendosi da donna per parteciparvi: la violenza conclusiva appare giustificata. Le baccanti al risveglio dall’estasi dionisiaca non si rendono conto del male fatto in quanto la comunione con Dioniso ha nascosto tale meccanismo. Si può notare come i miti per raggiungere la pace sociale scacciano la violenza con la violenza. Non è presente né un processo alla vittima, né la possibilità per essa di difendersi: se questo fosse consentito allora il mito non sarebbe concluso, il disordine sociale imperverserebbe ancora. Ma non può essere possibile nemmeno una società votatasi alla violenza totale.

 

 

3.3. Esempio di meccanismo vittimario: la “Storia della Colonna Infame”

 

Manzoni scrive questo testo come appendice alla prima edizione dei Promessi con lo scopo di delineare la situazione della giustizia dell’epoca (prima metà del 1800) ed in particolare le modalità di svolgimento dei processi e le motivazioni con cui i giudici giustificavano le sentenze di condanna. Si può rilevare una posizione di sfiducia nei confronti delle istituzioni in quanto Manzoni critica da un lato il fatto che i processi, inquisitori, siano condotti in modo alquanto sommario ed irrispettoso dei diritti fondamentali degli individui coinvolti, dall’altro la sussistenza del ricorso a sistemi di tortura finalizzati all’estorsione all’imputato di una confessione necessaria per giungere alla condanna a morte. Per  meglio comprendere il ruolo della tortura, della pena capitale, delle accuse di stampo delatorio come quelle contro i cosiddetti untori nel periodo della peste si possono richiamare le teorie girardiane.

Del capitolo primo è interessante questo passo: “E, cose che in un romanzo sarebbero tracciate d’inverisimili, ma che pur troppo l’accecamento della passione basta a spiegare, non venne in mente né all’una né all’altra (due signore che testimoniano contro l’untore). (…) troppe altre ugualmente strane inverosimiglianze. Ma il più strano ed il più atroce si è che non paressero tali neppure all’interrogatore, e che non ne chiedesse spiegazione alcuna. O se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non  averne fatto menzione nel processo”. Manzoni, dopo aver riportato le deposizioni delle due donne chiamate a testimoniare, dichiara esplicitamente come tali racconti siano talmente assurdi da non essere degni neppure di un romanzo. Significativo è il termine accecamento in quanto Manzoni, ancora una volta, descrive inconsapevolmente uno degli elementi principali del meccanismo vittimario teorizzato da Girard. Quando le folle sono in preda ad un contagio mimetico i componenti di essa sono letteralmente accecati, sono inconsapevoli di quanto vanno a fare, di ciò che vedono e della giustizia o meno dei propri atti. Infatti è più volte usato il termine “pareua”: alle persone interrogate sembrava di vedere gli untori all’opera, ma non ne erano del tutto sicure; tuttavia quest’incertezza diviene presto certezza sia dopo aver saputo che altre persone testimoniavano le medesime cose incoraggiate dall’inquisitore, sia al momento del processo in cui le accuse saranno confermate, sia al momento dell’esecuzione della sentenza quando la gente sarà del tutto sicura e convinta della giustezza dell’espulsione dell’individuo pericoloso. Maggiori saranno le testimonianze, seppure basate sul pareua, tanto più le persone saranno invogliate ad andare anch’esse a dare la propria versione dei fatti perché a pensarci bene ognuno ha visto qualcosa che potrebbe essere collegato all’untore e che potrebbe contribuire all’incriminazione di costui. Chiara conseguenza del contagio mimetico. Manzoni sottolinea poi come nemmeno l’addetto al raccoglimento delle prove sia neppure un poco colpito dalla stranezza delle versioni degli accadimenti, dalle palesi incongruenze e dal fatto che le descrizioni non mettano in luce un comportamento tipico di un trasgressore, ma i normali atteggiamenti di qualsiasi uomo come l’andare avanti e indietro, il guardarsi attorno, soffermarsi in un posto, sfiorare una parete, e così via. Le stesse autorità che dovrebbero essere garanti dei diritti e della giustizia sono dei normali cittadini aperti anch’essi al contagio mimetico che è favorito e reso più veloce dalla situazione di crisi: la mancanza di prove certe dell’esistenza degli untori e l’incapacità di sconfiggere la peste con i mezzi scientifici. E’ proprio quest’ultima ragione che fa nascere la figura dell’untore in quanto se tutto fosse stato risolto scientificamente in pochi giorni la comunità non avrebbe cercato un capro espiatorio sul quale far convogliare tutta il malessere sussistente per ottenere un beneficio seppure temporaneo; ma al termine di questo effetto apparente, il problema ritornerà e di conseguenza si cercheranno nuovi capri espiatori. A differenza dei due casi sopra proposti questa storia di espulsione si verifica nel contesto post rivelazione cristiana quindi è facile rendersi conto di come Manzoni stesso narri gli episodi dal punto di vista della vittima e non della folla in modo che il lettore si convinca della sua innocenza riconoscendo la rappresentazione del meccanismo vittimario palesemente condannata mettendone in risalto l’inutilità ed il male che commette nei confronti di persone innocenti. Nella Storia sono presenti tutti gli elementi tipici che costituiscono la crisi mimetica, il suo svolgimento e la sua conclusione. E’ interessante poi soffermarsi su un dettato delle sentenze di condanna agli untori: il giudice ordina per prima cosa la demolizione dell’abitazione ad egli appartenuta e successivamente che venga eretta in quel luogo una colonna che umili ed infami ulteriormente l’uomo condannato. La colonna infame oltre ad essere un simbolo, un monito alle persone sembra ricordare quel transfert che in un modo o nell’altro sacralizza l’avvenimento e permette l’effetto conciliatorio: sembra essere un simbolo della trascendenza (ricordiamo l’episodio della Lapidazione di Efeso) senza la quale le genti non avrebbero motivo di sentirsi bene. Tuttavia trattandosi del contesto post rivelazione non ha senso parlare di transfert di divinizzazione poiché non c’è nulla da divinizzare, la vittima è stata e rimane vittima innocente ingiustamente sacrificata agli occhi di qualsiasi lettore o attento osservatore dell’epoca scampato al contagio mimetico.  Manzoni esprime la propria sfiducia nei confronti delle autorità che non sono state capaci di fare giustizia, ma di commettere solamente torti e violenze arbitrarie contro degli innocenti

 

 

  1. Il ruolo dei Vangeli e il “Trionfo della Croce”

 

E’ d’obbligo una specificazione iniziale: viene spontaneo chiedersi perché sia proprio il Cristianesimo a scoprire, condannare e risolvere il problema del meccanismo vittimario. La risposta è semplice: perché il Cristianesimo riconosce fin da subito il presupposto del processo espiatorio ossia riconosce nei sui principi cardine, nei 10 Comandamenti, il mimetismo e le sue conseguenze. E’ fin da subito consapevole della natura umana tendente all’essere secondo l’altro e di conseguenza aperta ai conflitti. Gli effetti negativi dell’imitazione, del desiderio sono condannati in modo imperativo nel nono e decimo comandamento: non desiderare la donna d’altri, non rubare (non desiderare la cosa altrui).

Trattiamo dunque il fondamentale ruolo di Cristo: egli essendo della stessa sostanza del Padre, possedendo un’essenza metafisica è immune al contagio mimetico potendo così osservare il meccanismo vittimario dall’esterno in modo tale da svelarne la violenza, la barbaria, il male e l’insensatezza. I Vangeli spazzano via i miti rivelandone il meccanismo, rivelando che la vittima sacrificata non è colpevole in quanto capro espiatorio, non deve essere immolata poiché violenza non scaccia violenza, ma ne crea ancor di più, contribuisce a costituire un circolo vizioso nel segno della violazione dei diritti umani. Il capro espiatorio è anch’esso una persona, è una creatura di Dio.

Girard analizza, i Vangeli dal punto di vista antropologico sottolineando il primato dell’insegnamento Giudaico-Cristiano che si vota al rispetto della persona, alla tutela delle vittime innocenti e immolate ingiustamente.

 I Vangeli rivelano tutto quello di cui gli uomini hanno bisogno per comprendere la loro responsabilità nelle infinite violenze della loro storia. L’elaborazione mitica si fonda su un’ignoranza, anzi su un’inconsapevolezza persecutoria che i miti non arrivano mai a identificare, dal momento che ne sono dominati[8].

 L’autore francese identifica l’età pre cristiana (quella dei miti) con il regno di satana: satana è il portatore di violenza per eccellenza, è il padre dei miti e della menzogna, è il fondatore del meccanismo vittimario in quanto lo sostiene e lo dirige. Cristo si rivolge così alle genti parlando di satana: “Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché  non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv.8, 43-44). Non bisogna però avvicinarsi a satana dal punto di vista eminentemente religioso, ma da quello meramente antropologico: egli è il portatore di scandali per eccellenza dove per scandalo s’intende la causa del meccanismo vittimario e delle sue inevitabili conseguenze tragiche. Satana è, prendendo alla lettera i testi evangelici, il re delle tenebre: secondo Girard le tenebre non sono altro che una metafora per indicare la condizione di accecamento della folla in preda a frenesia mimetica che non sa quello che fa. Ecco perché Cristo in punto di morte chiede perdono per i suoi aguzzini che non sanno quello che fanno: sono ancora incapaci di comprendere il male che vanno a commettere e che le folle hanno commesso in secoli di storia caratterizzata dai miti e dal processo vittimario.

E’ la famosa frase che Gesù pronuncia dopo essere stato crocefisso: -Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno- (Luca, 23, 34). Come per le altre frasi di Gesù, dobbiamo guardarci dallo svuotare queste parole dal loro senso fondamentale riducendole a una formula retorica, a un’iperbole lirica. Ancora una volta bisogna prendere Gesù alla lettera. Egli descrive l’incapacità, da parte della folla scatenata, di vedere la frenesia mimetica che la scatena. I persecutori credono di << far bene >> e sono convinti di operare per la verità e la giustizia, credono di salvare in tal modo la loro comunità[9].

 Ma come riesce Gesù a svelare il meccanismo vittimario consentendo agli Apostoli di descriverlo nella sua brutalità nei Vangeli? Girard per rispondere a questa essenziale domanda analizza la persecuzione di Cristo da un punto di vista antropologico raffrontandola con il classico processo del capro espiatorio tipico della mitologia. Innanzitutto sostiene che fino al momento della Resurrezione il procedimento è quasi uguale: la comunità giudaica si sente minacciata dalle predicazioni di Cristo ed individua in lui un perfetto capro espiatorio. In preda a frenesia mimetica il popolo, all’unanimità, lo condanna a morte. Anche i discepoli sembrano essere inglobati nel contagio mimetico: infatti Pietro rinnega il suo Maestro non volendo contestare l’opinione comune nel rischio di essere immolato.

Tuttavia l’unicità del messaggio cristiano sta nella Resurrezione: se il primo transfert, quello dell’aggressività è stato compiuto, quello conclusivo invece viene evitato, per la prima volta il meccanismo vittimario è sconfitto, satana è stato sconfitto. Già il Venerdì Santo i fenomeni atmosferici descritti dai Vangeli al momento della morte di Cristo fanno sorgere una minoranza contestataria: alcuni persecutori si rendono conto del proprio errore, capiscono che hanno commesso un atto ingiustificato, riconoscono la straordinarietà di colui che hanno crocefisso. Ma questo non sarebbe sufficiente. Dopo tre giorni Gesù appare, risorto, agli Apostoli, porta con sé il dono della Grazia, la redenzione dell’umanità colpevole per secoli di aver messo a morte o espulso ingiustamente dei loro simili, degli uomini anch’essi figli di Dio. Attraverso i Vangeli Matteo, Marco, Luca e Giovanni fanno conoscere il messaggio di Cristo, rendono consapevoli le comunità della falsità del regno di satana (mitologia, processo vittimario) e del primato del Regno di Dio che è il Regno dell’amore, del perdono (altrimenti se mancasse il perdono a favore della vendetta di Dio non avrebbe senso assegnare al Cristianesimo il ruolo che Girard ha teorizzato!), della vita pacifica, del riconoscimento dei diritti umani, del riconoscimento dell’inviolabilità della persona in quanto creatura divina. Non ci devono essere più vittime espiatorie, mai più sacrifici inconsistenti e ininfluenti per il raggiungimento della pace sociale. Il Cristianesimo segna il trionfo della Croce e la sconfitta di satana che “cade come la folgore”, vede infrangere il suo principato votatosi alla violenza mimetica. Cristo risorge e fa vedere all’umanità come è morto, come è stato sacrificato.

 Il trionfo della Croce non è ottenuto con la violenza, ma al contrario è il frutto di una rinuncia così totale alla violenza che quest’ultima può scatenarsi a sazietà su Cristo, senza sospettare di rendere palese proprio con il suo comportamento ciò che le sarebbe vitale nascondere, senza sospettare che tale scatenamento le si ritorce stavolta contro, perché sarà registrato e rappresentato nella maniera più esatta nei resoconti della Passione[10].

Ed ancora: la sofferenza sulla Croce è il prezzo che Gesù accetta di pagare per offrire all’umanità questa rappresentazione vera dell’origine di cui resta prigioniera, e per privare a lunga scadenza il meccanismo vittimario della sua efficacia[11].

 Qualora non ci fossero stati i Vangeli l’umanità sarebbe tutt’ora sottoposta ai processi che culminano con il sacrificio del capro espiatorio, con atti di pseudo-giustizia sommaria, con atti di usurpazione del potere difficilmente apprezzabili dagli osservatori.

E’ laddove non è rappresentata che la frenesia mimetica può esercitare un ruolo generatore per il fatto stesso che non è rappresentata. Le società mitico-rituali sono prigioniere di una circolarità mimetica alla quale non possono sottrarsi proprio perché non la identificano[12].

Gesù, con i suoi comportamenti, istituisce un contro-modello cristiano che, opponendosi a quello tipico della mitologia, fa sì che chi lo segue interrompe il ciclo di violenza satanico infrangendo la barriera della folla unanime che si scaglia contro il capro espiatorio. Per la prima volta una minoranza contestataria segue Cristo e non la folla, segue il modello buono. Imitare Cristo significa imitare indirettamente Dio.

 

 Oltre alle sostanziali differenze che ho fin qui menzionato Girard sostiene che se da un lato nei miti la narrazione vede come soggetto la folla scatenata contro una vittima colpevole, i Vangeli invece narrano le vicende di Cristo, soggetto, come vittima innocente sacrificata per il bene dell’umanità. Si potrebbe pensare che anche la crocifissione faccia parte del meccanismo “violenza scaccia violenza” e ciò non è sbagliato, ma se nella mitologia questo circolo è infinito, sempre necessario, con la morte di Gesù invece esso ha termine una volta per tutte: la violenza tutti contro uno non sarà più, almeno in teoria, fondamentale, Cristo ha rivelato ed introdotto il regno dell’amore di Dio, del rispetto per la persona umana ei suoi diritti.

 La Bibbia stessa è perfettamente consapevole della sua opposizione a tutte le religioni mitiche. Essa le bolla come idolatriche ed io penso che la rivelazione di un’illusione persecutoria nella mitologia sia parte essenziale di questa lotta contro l’idolatria. Qui noi potremmo passare ad esempio alla storia di Caino e Abele e confrontarla col mito di Romolo e Remo. Nella storia di Caino e Abele l’assassinio di un fratello da parte dell’altro è presentato come un crimine che è anche la fondazione di una comunità. Ma nella storia romana questa fondazione non può essere considerata un crimine, è un’azione legittima da parte di Romolo. Il punto di vista della Bibbia intorno a tali eventi è del tutto differente da quello del mito[13].

 

La storia sembrerebbe però contraddire la teoria girardiana: analizzando ad esempio le persecuzioni razziali, l’Olocausto, i processi per stregoneria ed i roghi medievali si potrebbe concludere che il messaggio di Gesù è stato inascoltato ed inutile. Queste sono infatti le maggiori argomentazioni utilizzate da chi si oppone al Cristianesimo definendolo una religione che non condanna la violenza e che non presta la dovuta attenzione alle vittime sacrificali, ma anzi propone un modello violento per reprimere la violenza stessa (la Crocifissione). Tuttavia l’antropologo francese specifica come queste accuse non sussistano: la rivoluzione concreta operata dai Vangeli e dalla Bibbia consiste nell’aver formato una minoranza contestataria, anche esigua come ad esempio erano ab origine gli Apostoli, capace di riconoscere i tentativi di meccanismo vittimario (consustanziali all’uomo: da tener ben presente che per Girard la natura umana è pur sempre tendente alla violenza) e di conseguenza ferma nel condannarli. Qualora non ci fossero stati gli anti nazisti il progetto di Hitler avrebbe trionfato: il mondo avrebbe visto lo sterminio degli Ebrei come un qualcosa di giusto e necessario! Lo stesso vale per i roghi medievali condannati in più di una occasione dal Papa che ha chiesto perdono per la morte di vittime innocenti. Il fatto che l’uccisione di Gesù rappresenti un esempio di violenza è innegabile, solamente che il meccanismo del capro espiatorio classico, quello dei miti, non si completa perché è svelato e condannato. Il transfert di aggressività è completo, ma non si realizza invece quello di divinizzazione della vittima il cui sacrificio funge da beneficio per la collettività. Cristo è divinizzato per aver rivelato la violenza su vittime innocenti, Cristo è fin dall’inizio una vittima innocente (e non colpevole come ad esempio Edipo) e lo rimarrà anche dopo la morte.

 

 

4.1            Violenza, Diritto e modello cristiano: appunti critici all’impostazione girardiana

 

Mi sembra d’obbligo una conclusiva considerazione critica che riassuma quanto visto fino ad ora in un’ottica distaccata dalla teoria mimetica. Ci si potrebbe chiedere: è così onnicomprensiva e perfetta la teoria girardiana? O meglio: è in grado di spiegare la violenza e allo stesso tempo di offrire mezzi sostanziali idonei ad evitarla? Si tratta dell’immancabile contraddittorio tra aspetti formali e soluzioni sostanziali. Si può dire che una teoria è perfetta quando è solo in grado di analizzare aspetti formali senza proporre alcunché di pratico, di funzionale? Per rispondere in modo affermativo si deve accettare il presupposto che da un lato Girard propone un modello astrattamente idoneo a spiegare la violenza in modo esaustivo e che dall’altro la sua lezione è mera teoria, è priva di risvolti pratici utili a differire la violenza. Mi sembra impossibile negare alla costruzione girardiana il crisma della perfezione formale, una volta entrati nella circolarità del pensiero mimetico è pressoché impossibile trovare una falla interna al sistema: tutto è riconducibile al presupposto mimetico, ogni forma di violenza è paradigmatica, il risentimento umano è figura sintomatica di crisi interiore causata da rivalità mimetica e dunque potenzialmente idonea a sfociare in violenza esterna. Apparentemente si potrebbe poi concordare con l’ipotesi secondo cui in realtà Girard dopo tante splendide pagine non riesce a proporre una teoria concreta, utile all’umanità. Perché un lettore disattento potrebbe arrivare a questa conclusione? Perché sembrerebbe che conditio sine qua non della differenziazione della violenza sia la conoscenza dei Vangeli da parte delle persone, conoscenza che da sola sarebbe sufficiente a plasmare le menti dei cittadini verso il bene inteso come rispetto delle vittime. Beh questo è desumibile dall’opera dell’autore francese se interpretata letteralmente. Ma quello che sto cercando di mettere in evidenza è che la grandezza della teoria mimetica è la sua estendibilità ad altri ambiti del sapere umano e che grazie a un sincretismo di materie differenti si può costruire un sistema credibile in grado di combattere la prevaricazione dei diritti delle vittime innocenti: vittime di un sistema o di una crisi collettiva istantanea. La simbiosi di materie a cui mi riferisco è appunto diritto e  teoria mimetica: “antropologia girardiana”[14] e norma sostanziale possono cooperare, una volta che il diritto fa propria la teoria mimetica allora sarà idoneo a garantire veramente, perdonate il gioco di parole, uno stato di diritto. E’ quello che cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono, soprattutto nel capitolo secondo.

Ma facciamo un passo indietro. E’ corretto muovere una critica a Girard qualora gli si contesti la troppa sicurezza negli effetti dell’insegnamento contenuto nei Vangeli ai fini della rinuncia alla violenza mimetica nei confronti di un capro espiatorio. Infatti è storicamente comprovato che esempi di violenza contro minoranza innocenti non sono mai mancati (e ahimè mai mancheranno). Girard risponderebbe giustamente che la grandezza della Rivelazione cristiana sta nel fatto non di aver debellato la violenza, ma di averla resa palese, di aver ridato la luce agli uomini dopo secoli di accecamento, di aver spiegato quanta ingiusta persecuzione è stata consumata nei confronti di persone innocenti. Ma è proprio qui il limite contestabile: si può evitare in concreto la violenza facendo affidamento sul senso civico degli uomini? E’ un’utopia, significa pensare ad uno Stato senza diritto penale, senza tribunali. Dobbiamo interpretare Girard non tanto su quello che ci dice espressamente, ma su quello che lascia intendere tra le righe della sua opera. E solo tra le righe troviamo la soluzione sostanziale al problema della violenza: senza diritto non c’è tutela delle vittime. Non tanto perché gli uomini non conoscono la lezione dei Vangeli, ma perché la loro natura è cattiva ex ante e di certo una lezione ex post non sarebbe sufficiente ad eliminare un qualcosa insito nella stessa idea di uomo. Credo, apro una breve parentesi, che Girard inciampi su qualcosa che conosce bene e di cui ci mette in guardia fin dalle prime opere: ciò che è cattivo è la Natura umana e come si può far affidamento unicamente sulla stessa quando sappiamo già bene come è (negativamente) configurata? Ottimismo fin troppo roseo. Chiusa la parentesi. Mutuando il concetto giuridico di “annullabilità” e adattandolo a questo contesto mi sembra possibile affermare che gli effetti della lezione cristiana siano paragonabili a quelli di una sentenza di annullamento. Infatti come quest’ultima annulla ex nunc gli effetti, ad esempio, di un contratto, così la morale giudaico cristiana fatta propria da un sistema giuridico (specialmente penale) è in grado di contrastare, secondo Giarard, per il mezzo di minacce di pene da parte del legislatore, nonché attraverso condanne e sanzioni decise dai tribunali gli effetti della violenza mimetica, le conseguenze della naturale tendenza umana all’immolazione delle vittime per trarne un beneficio collettivo. La natura violenta nasce prima del rimedio ad essa stessa: rimedio che comunque non potrà mai essere definitivo, ma solo un mero strumento di riduzione degli effetti negativi dell’indole umana. Quel che è necessario sottolineare è che in sé la Rivelazione contenuta nei testi evangelici è solo teoricamente idonea a differenziare la violenza, ma non lo è sostanzialmente. E’ idonea a scovare la menzogna satanica (intesa come irrilevanza agli occhi dei persecutori dell’atto arbitrario contro il capro espiatorio a favore di una prospettiva benefica del medesimo per la società che l’ha messo in opera) e a mettere in allerta le persone. Dunque a mio avviso necessita di un mezzo per poter esplicare i suoi effetti di tutela degli individui. E questo medium è per l’appunto il diritto. Diritto gestito da organi istituzionalmente terzi ed imparziali. E di questo Girard se ne rende benissimo conto specialmente nel suo ultimo testo[15] in cui tralascia l’impostazione teorica fondata sul primato della conoscenza dell’insegnamento evangelico per preferire un approccio più concreto. Indice di ciò è l’uso molto frequente del termine “differenziazione” riferito alla violenza: si rende conto che ancor più di ieri, è oggi che si apprezza maggiormente l’esigenza di rimedi sostanziali. Eric Gans, studioso contemporaneo americano teorizzatore della c.d. Antropologia Generativa, individua subito il potenziale limite della teoria mimetica e facendo propri i presupposti girardiani circa la natura dell’uomo si sforza di elaborare una teoria che spieghi come risolvere i conflitti interindividuali puntando tutto sulla differenziazione della violenza tramite il linguaggio. Interessante all’uopo questo passo di Girard: “immaginavano (i discepoli, n.d.a.) che il mondo di lì a poco sarebbe stato influenzato così radicalmente dalla morte di Cristo che il sistema dei capri espiatori avrebbe cessato subito di funzionare, quando invece duemila anni non sono bastati perché l’influenza della Passione penetrasse davvero nel mondo e sovvertisse tutti i fenomeni vittimari, allo scopo di rivelare la non colpevolezza delle vittime e l’illegittimità delle persecuzioni e dei sistemi fondati sullo sfruttamento: allo scopo, insomma, di rivelare tutti i sistemi basati sulla violenza, che si stanno decomponendo da duemila anni. L’unico errore dei discepoli – ma in definitiva non era un errore – è stato di credere che si potesse concentrare tutto ciò in un istante, passando direttamente dall’anno 37 o 38 all’anno 2000”[16]. Coglie esattamente il problema che sto mettendo in evidenza in queste righe: la Rivelazione non è da sola sufficiente a combattere la violenza, ma solo a svelarla creando quella consapevolezza dell’ingiustizia del meccanismo vittimario che non era afferrata nell’età pre-cristiana. Girard appare fin troppo ottimista quando munisce la Rivelazione di effetti che da sola non è in grado di produrre. Essa è solo il primo passo di un lungo cammino. E come ho già detto a mio avviso l’unico mezzo per combattere efficacemente gli episodi di strumentalizzazione dei capri espiatori è il Diritto. Un diritto con la D maiuscola, non il diritto italiano, francese, americano, ma il Diritto di tutti i paesi del mondo. Pocanzi ho suggerito una definizione dell’operatività della teoria mimetica come connotata da sorta di effetto di annullabilità della violenza. Credo che questa impostazione possa essere confermata dalle seguenti parole di Girard: “gli orrori dell’ultima guerra (e aggiungerei io anche dei recenti attacchi terroristici alle Twin Towers) costringono gli occidentali a riflettere sulla propria violenza. E’ un effettivo progresso, di cui si può sperare che beneficerà un giorno la nostra conoscenza della religione”[17]. E’ proprio la conoscenza ex post della grandezza del messaggio universale cristiano che è in grado di inoculare negli uomini quel senso di rispetto dei diritti inviolabili dei propri simili. Il vero problema è che l’idea di universalità del messaggio evangelico sta nel fatto che è contenuto in un testo sacro. Di fronte agli estremismi, ai fondamentalismi è difficile pensare che ogni sistema giuridico vada oltre la logica del particolarismo religioso preferendo l’ottica dell’universalità dei diritti umani, la logica di quello che ho chiamato diritto con la D maiuscola. E’ difficile far capire a tutti che la violenza mimetica non esiste solo in occidente, ma in ogni parte del mondo. E’ difficile rendere consapevole chiunque del fatto che l’unico testo che scopra la mimeticità della natura umana e la sua naturale tendenza al fenomeno del capro espiatorio è il Vangelo. Tuttavia è un dato di fatto qualora si scelga come punto di partenza la teoria girardiana. Ma forse qualcuno si augura ancora che in certi paesi siano invalse nella pratica norme palesemente contrarie al comune senso di umanità[18] pur di non rinunciare al primato delle proprie tradizioni. Alla violenza universale[19] si deve rispondere con un rimedio universalmente valido. E alla base di un rimedio giuridico universalmente valido deve esserci la conoscenza del meccanismo vittimario e l’adozione parallela di adeguati sistemi volti ad evitarlo. Molto più facile sarebbe stato se la Rivelazione dell’ingiustizia del processo espiatorio fosse stata resa pubblica da un testo non sacro. Girard se ne rende benissimo conto, infatti in ogni sua opera sottolinea più o meno ampiamente che la sua ricerca è antropologica, non teologica e studia i testi sacri in quanto mere opere letterarie. Cioè disincorpora gli scritti dalla sacralità. Nella sua idea filosofica primato del Cristianesimo significa primato dei diritti inviolabili dell’uomo, primato della rinuncia alla violenza. La nozione di capro espiatorio non è peculiare solo della civiltà occidentale, ma di qualsiasi collettività umana, di qualsiasi luogo in cui si verifichi un’espulsione rituale di un individuo. Ciò che distingue i capri espiatori descritti nei miti da quelli moderni è il fatto che adesso, dopo la Rivelazione di Cristo, siamo in grado di apprezzare l’ingiustizia dell’immolazione. La ritualità è attenuata perché condannata dagli osservatori quando un tempo invece, essendo l’attenzione polarizzata sulla collettività e non sulla vittima, la ritualità era completa. Tuttavia sempre di capro espiatorio si tratta: “Noi siamo ormai in grado di riconoscere senza alcuna fatica questo singolare fenomeno, per la ragione che i riti non sono più presenti fra noi per manipolarlo e nasconderlo alla nostra vista. (…) i capri espiatori continuano a esistere, in forme più delle volte attenuate, ma sempre fondamentalmente identiche a quelle della religione arcaica”[20]. Per chiudere il cerchio e affermare il primato del Vangelo in quanto primo testo in grado di rendere palese l’ingiustizia dei meccanismi vittimari fino ad allora perfettamente conclusisi sono esemplari queste parole: “tutti loro (i capri espiatori, n.d.a.) sono accusati e condannati ingiustamente. Se si arriva a capire la potenza strutturante di questa menzogna, tutte le forme mitiche e sacrificali si lasciano decifrare. Se la messa in stato d’accusa di Gesù avesse pieno successo, se questo capro espiatorio provocasse come gli altri l’unanimità definitiva contro di lui, allora i Vangeli non sarebbero in realtà che un mito di più. Ma l’accusa contro Gesù fallisce, e i quattro resoconti della Passione rendono tale fallimento manifesto. La Croce di Cristo ha davvero il potere universale di rivelazione”[21].

 

 Concludendo questa serie di appunti critici si può dire che l’auspicio è che le conclusioni a cui si arriverà nelle pagine seguenti possano essere mutuate non solo dall’ordinamento di tutti i paesi occidentali, bensì da tutti i sistemi giuridici mondiali. Il proposito dev’essere quello di evitare la prevaricazione dei diritti individuali per tutelare potenziali vittime innocenti dei meccanismi espiatori messi in atti sia da una collettività in crisi intestina, sia dallo stato medesimo. Lo scopo è il Diritto con la d maiuscola.

 

 

 

 

  1. Il ruolo del diritto nell’opera di Girard

 

E’ in questo frangente che si può introdurre il discorso sul sistema giuridico, tema a cui Girard dedica varie pagine senza però mai approfondire interessanti questioni che in seguito vedremo essere naturali conseguenze delle sue deduzioni generali.

 

Esaminiamo in primo luogo il piatto della bilancia che contiene i nostri successi: dall’alto Medioevo in poi, tutte le grandi istituzioni umane si evolvono nel medesimo senso, il diritto pubblico e privato, la legislazione penale, la pratica giudiziaria, lo statuto giuridico delle persone. All’inizio tutto si modifica assai lentamente, ma il ritmo si accelera sempre più nel corso del processo e, se esaminiamo le cose nel loro insieme, vediamo che l’evoluzione va sempre nella stessa direzione, l’addolcimento delle pene, la protezione crescente delle vittime potenziali. La nostra società ha abolito la schiavitù e poi l’asservimento. (…) Ogni giorno si varcano nuove soglie. (…) L’unica voce sotto la quale si può raccogliere ciò che sto qui sintetizzando alla rinfusa, e senza alcuna pretesa di completezza, è la preoccupazione verso le vittime[22].

 

Girard sostiene che la funzione principale di un sistema giuridico dev’essere quella di allontanare il grave pericolo della vendetta in quanto, basti considerare le società arcaiche, qualora sia innescato un meccanismo di giustizia privata basato sul ricambiare il torto subito tale spirale di violenza sarà potenzialmente interminabile. Si darebbe avvio così ad un blood feud, ad una concatenazione di singoli episodi di vendetta che potrebbero portare all’estinzione della comunità sociale.

 C’è un circolo della vendetta che noi non sospettiamo neppure a qual punto gravi sulle società primitive. Per noi tale circolo non esiste. Perché un simile privilegio? A questa domanda è possibile offrire una risposta categorica sul piano delle istituzioni. E’ il sistema giudiziario che allontana la minaccia della vendetta. Non sopprime la vendetta: la limita effettivamente a una rappresaglia unica il cui esercizio è affidato a un’autorità suprema e specializzata nel suo campo. Le decisioni dell’autorità giudiziaria s’impongono sempre come l’ultima parola della vendetta[23].

Come si può notare anche all’interno delle istituzioni giuridiche, è praticata una particolare tipologia di vendetta: una vendetta pubblica, che più che vendetta è preferibilmente definibile come tutela degli interessi della comunità in generale. Un sistema che non preveda alcuna pena sembra una mera utopia, infatti sarebbe plausibile solo qualora l’uomo vivesse nel rispetto dei diritti altrui, in pace e concordia, ma tale ipotesi è subito scartata perché sia sulla scorta dell’insegnamento di Hobbes, sia soprattutto dallo studio del pensiero girardiano possiamo realizzare come l’uomo non sia un essere buono per natura, ma aperto ai conflitti, tendente alla violenza. Poco importa che questi conflitti derivino da guerre intestine, o dalla minaccia al diritto di proprietà, o dal degenerare di rapporti mimetici triangolari. Quello che importa è ribadire che una società priva di organi giurisdizionali garanti della pace, del rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali non può esistere senza lo spettro di crisi (soprattutto criminose) interpersonali. Da quanto detto fin qui sembra essere, quello proposto da Girard, un modello plasmato dai principi dello stato di diritto quali per citarne alcuni separazione dei poteri, sovranità impersonale della legge, rispetto della dignità umana. La magistratura ha il monopolio della violenza, è l’unico organo titolare del potere di emettere condanne per prevenire cicli infiniti di vendette private.

Tirando le somme di questi primi spunti di riflessione si può riassumere il fulcro delle problematiche su cui a breve ci si soffermerà ampiamente con queste parole di Giuseppe Fornari[24]: “L’imitazione è di per sé un fatto collettivo, e può coinvolgere in qualunque momento un’intera comunità, in modo positivo o distruttivo. Allorché si scatena la rivalità tra due o più persone l’imitazione reciprocamente violenta dei contendenti viene facilmente imitata a sua volta, portando al diffondersi contagioso della violenza che si può osservare nelle risse e nelle vendette (…). Quale può esserne la difesa? Il mezzo difensivo che le civiltà più evolute hanno elaborato è quello del sistema giudiziario, un’istituzione che appare come trascendente e che detiene il monopolio delle punizioni, mettendo così fine in linea di principio alla catena infernale delle violenze reciproche e delle vendette private. Ma cosa avveniva quando il sistema giudiziario non esisteva, come si può riscontrare nelle culture più primitive? La sola difesa di cui le testimonianze ci parlino è lo scaricare la colpa di ciò che << va storto >> su un’unica vittima, che viene distinta dagli altri per un qualunque motivo e che viene sacrificata sfogando su di essa la violenza di tutti. E’ la figura che siamo soliti chiamare capro espiatorio.”[25]

L’unico punto su cui non concordo è la definizione di sistema giudiziario come trascendente. La giustizia e il suo ordinamento sono prodotto del sistema legislativo-costituzionale che sulla base delle comuni nozioni giuridiche nulla sembra presentare di metafisico. Le derivazioni di un comportamento prettamente umano e immanente (quale è il processo di formazione delle leggi) sono secondo logica anch’esse contingenti. Tanto più che l’effetto di tendenziale ricomposizione dei conflitti interpersonali connesso alle sentenze è precisamente quello che la legge si è prefigurata come scopo al momento dell’entrata in vigore. Seguendo questo ragionamento si può oltretutto sottolineare come la stessa previsione di sistemi di riparazione agli errori giurisdizionali siano indici della consapevolezza del legislatore stesso che anche una sentenza può essere causa di conflitto, di ingiustizia, di risentimento laddove siano state palesemente travisate le rationes delle varie norme applicate. E perciò l’effetto riappacificante fornito dal sistema giudiziario non è dovuto tanto alla sua trascendenza, bensì all’attitudine peculiare del provvedimento decisorio di interpretare la legge in modo tale da farne propria la ratio che ognuno auspica essere diretta ad evitare la ribellione dei consociati. Per assurdo si può delineare la figura di una magistratura come organo trascendente ipotizzando Dio come un giudice: allora sarebbe giusto sostenere che la conciliazione delle parti è dovuta più che al mero atto sentenza alla connaturata idea di Giustizia di cui Dio stesso si connota. Quindi passerebbe in secondo piano il contenuto della decisione rispetto alla trascendenza del giudice-persona. Invece nelle aule di tribunale avviene esattamente l’opposto: è il contenuto della sentenza ad essere o non essere idoneo a risolvere nel modo più corretto possibile una lite privatistica ovvero una crisi criminosa.

Interessante un excursus circa il concetto di persona. Abbiamo già sottolineato in via d’anticipazione che lo scopo delle istituzioni e in primis dei sistemi giuridici è quello di garantire il diritto a non essere vittima. Garantire ciò significa proteggere la libertà e la dignità della persona umana, non dell’uomo in generale. Infatti il concetto di persona è molto più profondo, racchiude un’essenza particolarmente somma, un’essenza perfettamente descritta da Girard. Persona significa singolo individuo concreto provvisto di una sua intrinseca sostanza razionale che lo contraddistingue dalle cose, dagli animali. Secondo Boezio la nozione di persona può essere estesa anche a Dio creatore dell’uomo, Eckart invece afferma che l’uomo per giungere alla suprema nobiltà del proprio essere e alla intuizione del supremo bene, che è Dio stesso, deve in primo luogo conoscere se stesso[26]. E’ proprio la ragione che permette all’uomo di conoscere cosa sia il bene supremo, è la ragione che fa si che la persona possa conoscere se stessa. E cosa significa conoscere se stessi e così giungere a Dio inteso come supremo bene? Significa essere consapevoli dell’esistenza del meccanismo vittimario che rappresenta l’opposto del bene supremo inteso come dignità della persona e relativa necessità di tutela della vittima innocente. E’ la ragione lo strumento per far proprio l’insegnamento di Dio, la ragione è quella facoltà che contraddistingue la persona dalla bestia e gli permette di essere parte di Dio in senso prettamente mimetico. Conoscere se stessi significa saper prevenire gli eccessi di violenza che connotano i soggetti in un periodo di crisi. “Il senso ultimo del suo (di Eckart) ragionamento è però lo stesso: la sottolineatura della dignità umana attraverso l’elevazione dell’uomo a Dio e la sua compenetrazione in lui”[27]. L’uomo si eleva a Dio quando riesce ad essere partecipe del suo insegnamento e della sua essenza: Dio attraverso Cristo è il rivelatore per eccellenza degli scandali mimetici, delle violenze perpetrabili nei confronti del capro espiatorio innocente. Ancor più emblematiche alla luce dei nostri ragionamenti sono le parole di Paracelso: “Dio infatti, che è nel cielo, è nell’uomo. (…) Dio prende l’uomo e fa di lui ciò che vuole; ne deriva però che, se si opera secondo quanto detta la coscienza, si è adempiuto tutto. (…). L’uomo non è nulla senza Dio; seguire la coscienza è la via maestra per operare moralmente, ma questo perché è Dio che ci ha foggiato, che ha operato in noi. La dignità dell’uomo (Paracelso non usa il termine ma il concetto è implicito) deriva da questa sua totale dipendenza da Dio”[28]. Ovviamente Paracelso si serve della figura di Dio come figura morale e religiosa a differenza di quanto fa Girard. Infatti l’autore francese tiene a precisare che la sua ricerca prescinde dalle sue personali credenze religiose e che la figura di Cristo funge da personificazione della lotta contro il meccanismo vittimario, così come satana è il portatore di scandali per eccellenza. La morale cristiana potrebbe anche chiamarsi con un altro nome, è la sostanza dell’insegnamento dei Vangeli che eleva questi testi a punto di riferimento per ogni comunità democratica. La coscienza di cui parla Paracelso è la stessa che Girard esalta nei sui lavori, l’attenzione per le vittime innocenti ei loro diritti. Operare secondo morale significa rispettare, sancire, garantire la dignità umana e il diritto a non essere capri espiatori. Sulla scorta di quelle affermazioni Paracelso condanna l’intolleranza religiosa e le conversioni forzate nonché la pena di morte intesa come esempio di omicidio che pur legalizzato va comunque contro uno dei principali comandamenti, va contro la legge di Dio. 

E’ Kant che in ultima analisi ci offre altri interessanti spunti di comparazione con il pensiero girardiano. Innanzitutto la seconda formulazione dell’imperativo categorico fissa un punto fermo del principio di offensività del diritto penale: “Agisci in modo da trattare l' umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Il legislatore infatti, si dirà meglio a breve, non potrà punire fatti privi di offensività ed il limite dei fatti meritevoli di tutela è individuato dalla figura della persona: qualora la finalità punitiva si serva dell’individuo come mezzo per finalità di politica criminale allora il diritto perde la sua finalità propria, è distratto dal suo scopo naturale di tutela dei diritti dell’uomo tramite la previsione di sanzioni. In un certo senso l’uomo fungerebbe da capro espiatorio, da strumento per il raggiungimento di interessi particolari mutevoli nel tempo. Circa la definizione di diritto Kant dice: “Il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, in base alle quali l’arbitrio dell’uno può essere accordato con l’arbitrio dell’altro in base a una legge universale di libertà”[29]. Sottolinea l’universalità del diritto naturale che dovrebbe essere positivizzato in ogni paese. Questo perché un sistema con tali caratteristiche garantirebbe da un lato il differimento del risentimento attraverso una sorta di compromesso realizzato dalla norma (bilanciamento di interessi contrapposti), dall’altro la sintonia con quell’universale legge di libertà che appare essere ancora una volta, seppure con parole differenti, il diritto a non essere strumentalizzati, a non essere vittime.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO  II

 

MIMETISMO, DIRITTI NATURALI E PRINCIPIO DI LEGALITA’

 

 

  1. Diritti umani e tutela delle vittima

 

 Facendo il punto della situazione fin qui abbiamo visto come sia accettabile il presupposto di Girard secondo cui gli uomini sono per natura portati a seguire l’esempio dell’altro a cui si conformano fino al punto che giungendo a desiderare la medesima cosa del modello esso diventa un ostacolo per il raggiungimento dell’oggetto del desiderio. Tale situazione triangolare se estesa ad un’intera collettività in momenti di particolare crisi può dar vita al risentimento violento e idoneo da un momento all’altro ad esplodere nel meccanismo vittimario consistente nella polarizzazione della violenza e dell’odio comune nei confronti di una singola persona che funge da capro espiatorio. Dopo l’immolazione la folla accecata da furore mimetico si placa dando sfogo al proprio desiderio di vendetta e realizza che la crisi seppure momentaneamente è stata ricomposta. Tuttavia il problema consiste nella ritualità di questo comportamento, nel degenerare del meccanismo vittimario in un ciclo di violenza-scaccia-violenza difficilmente contenibile. Nelle società arcaiche descritte nei miti il processo del capro espiatorio imperversava a livelli di quasi legalità visto che la vittima era ritenuta colpevole (anche se per essere più precisi si deve dire che poco importava se la vittima fosse innocente o colpevole una volta selezionata) ed il beneficio dell’immolazione era percepito dalla collettività in crisi. Con il Cristianesimo invece viene invertito il meccanismo ponendo l’accento non più sulla crisi della comunità e le esigenze della folla (come fanno i miti soccombendo così al contagio mimetico), bensì sulla vittima ingiustamente sacrificata (resistendo al mimetismo, descrivendolo nei dettagli, svelandone le caratteristiche negative). La gente, pentita, si rende conto di aver ingiustamente condannato un innocente. Di conseguenza le società si muniscono di sistemi giuridici tali da garantire i diritti degli uomini, tutti potenziali vittime sacrificali.

 

A partire da queste conclusioni è possibile elaborare una convincente ipotesi circa la natura dei diritti individuali, di quelle garanzie fondamentali delle quali ogni ordinamento dovrebbe essere tutore.

E’ fin da subito utile porre l’accento su questa questione: i diritti umani esistono in quanto esiste una persona alla cui sfera giuridica essi appaiono come consustanziali ovvero esistono in quanto un ordinamento ne prevede tutela effettiva? Domanda problematica e dalle molteplici sfaccettature. Per prima cosa, a scanso d’equivoci, per diritto umano non è da intendere una qualsiasi situazione giuridica soggettiva, il diritto di proprietà ad esempio, opponibile giudizialmente contro colui il quali si presume esserne il violatore. Non è una garanzia riconosciuta nei confronti dei terzi cittadini, bensì qualcosa di più importante, qualcosa di più ampio, una garanzia superiore ai diritti soggettivi dei quali si può dire che funga da presupposto. Sono quei diritti dei quali lo Stato e solo lo Stato può rendersi garante e allo stesso tempo anche violatore. Infatti se prendiamo come ipotesi che in linea di massima i diritti umani sono quelli contenuti nelle dichiarazioni universali ne consegue che solamente delle istituzioni dotate di un sistema legislativo (che li pone), esecutivo (che ne elabora la previsione e ne coordina la tutela) e giudiziario (che applica le norme positive introdotte a garanzia degli stessi) sono in grado sia di riconoscerne il valore attraverso mezzi coercitivi, sia di negarne tutela, sia di ripristinare la stessa in caso di violazione avvenuta ed accertata dagli appositi organi.

 E’ con il giusnaturalismo ed il razionalismo giuridico che si iniziano ad elaborare queste categorie ipotizzando un limbo naturale dei diritti (lo stato di natura) nel quale l’interprete apprezza come vivono le persone prive di qualsiasi costrizione giuridica e dotate del potere a tutto su tutto. Con il passaggio alla società civile, attraverso il contratto sociale l’uomo si spoglia dei propri diritti naturali assegnandoli ad una autorità statale che li garantisce attraverso la legge. Le teorie di Hobbes e Locke sono chiaramente convenzioni funzionalizzate alla legittimazione del potere costituito più che elaborazioni dottrinali e disinteressate circa il fondamento dei diritti delle persone. Tuttavia riprendendo la domanda che ci siamo posti quel che mi interessa specificare è che secondo le teorie giusnaturalistiche i diritti umani pre-esistono rispetto alle leggi (positive) che nei vari ordinamenti ne conferiscono tutela. Posizione differente è invece quella dei giuspositivisti: non si può scindere il momento di nascita dei diritti da quello della loro effettiva tutela positiva. Quindi non ipotizzano la presenza di diritti innati a prescindere dalla presenza di leggi che li riconoscano, infatti la pienezza di una garanzia soggettiva può dirsi attuata solamente in presenza di un’adeguata tutela del diritto medesimo. Rifiutando una concezione metafisica dei diritti non possono che concludere nel senso della negazione dell’esistenza di situazioni giuridiche che lo Stato deve tutelare in virtù di una deduzione universalmente valida a partire dal concetto di natura umana. E’ corretto parlare di diritti storici non assoluti in quanto un diritto assoluto presuppone la dimostrazione dell’insussistenza di argomentazioni volte a sostenere che un dato diritto non dev’essere tutelato (una sorta di criterio metagiuridico, troppo filosofico, inconcludente all’interno di un ragionamento rigorosamente positivistico, matematico); un diritto è storico quando è figlio di un attuale sistema normativo. Un diritto positivo è universale quando sulla necessità di tutela del medesimo è riposto il generale consenso da parte della comunità.

Per dare una risposta alternativa alla domanda cruciale di cui sopra sembra interessante percorrere ancora la strada verso cui Girard ci ha indirizzato. Una strada che presenta punti di comunanza sia con le teorie giusnaturalistiche sia con quelle giuspositivistiche, ma che tuttavia vi si differenzia a partire dal presupposto. Il presupposto è la concezione antropologica di natura umana offertaci dal Maestro francese. Per rendere più chiara l’impostazione inizio dalla soluzione finale: si vedrà che interpretando sistematicamente la teoria mimetica collegandola agli spunti analizzati poco fa la conclusione è per la sussistenza originaria dei diritti umani, anzi per la sussistenza originaria del diritto essenziale per eccellenza ossia quello di non essere vittima. Per giungere a quest’affermazione si deve anzitutto partire dall’idea di natura umana: l’uomo è un essere mimetico tendente alla violenza. Questa come sopra visto non è una conclusione aprioristica, ma frutto di una ricerca antropologica nei testi e negli episodi di vita quotidiana, frutto dell’osservazione dei comportamenti delle persone in società prima e dopo la lezione cristiana. Ma in fin dei conti cosa vogliono veramente insegnarci i Vangeli? Lo scopo è quello di far prendere coscienza l’uomo dell’insensatezza del meccanismo vittimario volto si a ripristinare l’ordine sociale, ma attraverso il sacrificio di una vittima innocente. Quindi il diritto per eccellenza che connota l’uomo in quanto soggetto mimetico è quello di non essere soggetto passivo nella forma di capro espiatorio posto che il sacrificio rappresentando un palliativo per la collettività richiederà altro sacrificio fino a quando si sarà raggiunta la ritualità di esso in ogni situazione particolarmente problematica. Non è necessaria l’idealizzazione di uno stato di natura dove l’uomo è libero (nel bene e nel male) per poter comprendere i passaggi del processo espiatorio e individuare i rimedi giuridici per farvi fronte, è sufficiente guardare i comportamenti quotidiani delle persone e la loro evoluzione nella storia. Quello che Hobbes descrive quando parla di homo homini lupus altro non è se non l’analisi dei comportamenti dell’uomo inteso come individuo desiderante e aperto ai conflitti. Lo status di bellum omnium erga omnes è semplicemente il degenerare dei conflitti interpersonali. Situazione così grave da indurre Hobbes a proporre come soluzione l’istituzione di uno Stato Assoluto. Quello che vuol evitare passando alla società civile sarebbe il sacrificio della vittima che tuttavia continua sempre ad essere uno spettro attuale e non solo di un ipotetico stato di natura vissuto solo nelle pagine di chi lo ha idealizzato! Il fatto che questo diritto primario sia naturale non significa tanto che esso è connaturato all’essenza umana astrattamente ipotizzabile in un limbo ideale (un non luogo), bensì è naturale perché da quando esiste l’uomo esiste il mimetismo violento ed esiste parallelamente la necessità di opporsi alle conseguenze a cui condurrebbe siffatta natura. Anche in questo caso è evidente il concetto di doppio tanto caro a Girard: l’uomo è sia vittima sia persecutore. A ben vedere però la nostra coscienza di protettori delle vittime che ci permette di individuare il diritto fondamentale non è a sua volta innata come lo è il diritto stesso, bensì è nata a posteriori, sviluppatasi dopo l’insegnamento dei testi sacri. Quindi per molto tempo è mancata l’affermazione “ufficiale” dell’esistenza di un diritto essenziale che in realtà era già vivente ma latente… sepolto sotto l’aurea di cecità che colpiva gli osservatori prima della lezione cristiana, prima che l’attenzione si spostasse dai persecutori alle vittime innocenti. Ma può essere sufficiente una mera presa di coscienza?

Ovviamente non può esserlo e qui si notano le intuizioni dei giuspositivisti che legano biunivocamente l’esistenza di un diritto con la sua parallela tutela normativa. Sembrerebbe, leggendo tra le righe l’opera di Girard, che la lezione cristiana fosse di per sé sufficiente ad interrompere il meccanismo vittimario, il sacrificio di capri espiatori innocenti. A riprova di ciò è il dato di fatto che in rapporto all’intera argomentazione antropologica lo spazio che il diritto assume è limitato. A noi giuristi appare chiaro che il passo verso il primato del diritto all’interno della teoria mimetica è molto breve, anzi se non fosse sottolineato e fatto emergere il ruolo decisivo che assume la norma garante dei diritti umani la stessa costruzione girardiana sarebbe messa in crisi, sarebbe una favolosa interpretazione del reale ma poco idonea ad essere applicata nel concreto come poco fa ho messo in evidenza[30]. E’ lo stesso autore francese a mettere bene in chiaro che la sua non vuol essere un’analisi filosofica, fine a se stessa, ma un’opera che descriva la realtà umana in modo da poter esser utile nella comprensione e soluzione dei problemi quotidiani. Il sistema deve fondarsi su quella garanzia primaria quale è il diritto a non essere vittime. Da esso si dipanano poi tutti i singoli diritti della persona direttamente connessi a quello fondamentale. Una volta precisato che nessun processo espiatorio possa trovare riconoscimento legale vien da sé l’individuazione delle prime garanzie necessarie a tale scopo: il diritto alla vita e contemporaneamente la condanna di ogni forma di tortura. Importante quest’ultimo aspetto dato che un processo sommario, come quelli contro gli eretici, è foriero di meccanismo vittimario: attraverso la sofferenza fisica si induce l’imputato a confessare una colpa, per evitare il dolore, che non ha mai commesso ledendo da un lato la libertà di autodeterminazione processuale (nemo tenetur se detegere) e dall’altro il diritto all’integrità fisica. Ulteriore conseguenza del diritto fondamentale è il principio di colpevolezza nel diritto penale. Il meccanismo del capro espiatorio, lo dice la parola stessa, è agli antipodi di un sistema incentrato sulla legalità e sul principio della personalità della responsabilità. Alla folla in crisi mimetica nulla importa se la vittima sia colpevole o innocente.

Capiamo facilmente come sia necessaria una effettiva tutela delle varie garanzie brevemente passate in rassegna. Quelli che abbiamo definito essere diritti naturali in senso mimetico (o meglio il diritto fondamentale e i suoi derivati) perderebbero la loro sostanza qualora non fossero adeguatamente tutelati da un sistema normativo efficiente. Senza tutela, pur esistendo ugualmente, i diritti diventano passibili di elusione a tal punto da rischiare un propagarsi della violenza mimetica anche in età moderna quando le persone dovrebbero invece essere sensibili verso la condizione della vittima in base alla morale tramandataci dai Vangeli. Tuttavia mi sento di sostenere che se mancasse la garanzia sostanziale normativa difficilmente la prospettiva di Girard troverebbe riscontro nella realtà. Non mi sembra cioè sufficiente, come ho già detto, la mera norma (morale) anti vittimaria perchè priva di coercibilità. Uno dei principali caratteri differenziali tra norma giuridica e morale è proprio il fatto che solo quella giuridica è coercibile attraverso gli strumenti che l’ordinamento propone (es. se m’impossesso del terreno di Caio legittimo proprietario costui avrà diritto all’azione di rivendica. Non sarebbe sufficiente a ricomporre il conflitto una eventuale norma morale che imponga di non ingerire nel pacifico godimento della cosa da parte di chi ne è proprietario. Infatti il diritto si fa portatore di essa munendola di coercibilità). Gli uomini sono troppo aperti ai conflitti mimetici per farsi scrupoli nel momento in cui una vittima sta subendo una violazione ingiusta dei suoi diritti (chiaramente non mi riferisco alla lapidazione ma a qualsiasi altra prevaricazione illegittima nei confronti di un capro espiatorio, anche se non di rado dalle cronache televisive veniamo a conoscenza di tentativi di linciaggio di vario tipo: non da ultimo l’omicidio del presunto terrorista che stava preparando un attentato contro il presidente russo Putin causato da un pestaggio degli agenti di sicurezza durante gli interrogatori). Il diritto assume il ruolo di salvatore della lezione cristiana, salvatore della vittima, salvatore della stessa teoria mimetica. Dalle gravi conseguenze sarebbe invece la situazione in cui un sistema giuridico non avesse come esempio ispiratore l’insegnamento dei Vangeli, la tutela della vittima. Qualora non ci si rendesse conto del pericolo della violenza mimetica di conseguenza anche quelli che oggigiorno siamo concordi nel definire diritti essenziali sarebbero messi in discussione.

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Necessità dello Stato

 Abbiamo appena concluso che senza un’adeguata tutela giuridica i diritti fondamentali delle persone rimarrebbero privi della loro essenza e incapaci di combattere efficacemente il propagarsi della violenza mimetica. Prima delle tutele è necessario che esista chi ha il potere di accordare le tutele stesse. E’ lo Stato che attraverso le apposite istituzioni deve da un lato sostanzializzare i diritti naturali nel suo sistema normativo e dall’altro farne assicurare il rispetto tramite le sanzioni. Ma la presenza dello Stato funge da duplice garanzia: prima di tutto perché si doterà di un sistema giuridico e poi perché sarà soggetto di diritto internazionale. Interessante questo secondo aspetto in quanto se anche il singolo stato si renda consapevole di manovre antidemocratiche sarà soggetto alla condanna da parte degli organismi internazionali in applicazione delle norme consuetudinarie. Essendo la consuetudine la fonte di primaria importanza ed essendo caratterizzata da un comportamento reiterato mantenuto per un tempo costante (diuturnitas) dalla generalità degli stati che lo sentono come giuridicamente doveroso (opinio iuris seu necessitatis) è facile aspettarsi che i diritti fondamentali saranno affermati innanzitutto sul piano generale. Altro aspetto che rende l’idea di quanto sia importante a livello internazionale il rispetto dei diritti fondamentali consiste nella possibilità ammessa dallo statuto delle Nazioni Unite che gli stati membri intraprendano azioni di forza per fermare situazioni di violazione dei diritti umani da parte di un altro stato.

Sarebbe possibile alla luce della lezione girardiana ipotizzare una collettività priva di istituzioni? Sarebbe ammissibile l’anarchia? Chiaramente no. Assenza di governo e di sovrastrutture statali significherebbe il caos, significherebbe lasciare l’uomo in preda alla sua natura. Questo è assolutamente da evitare come dimostrato sopra poiché la natura umana è cattiva, è influenzata dal mimetismo e dalle conseguenze violente di esso. Anarchia nella lettura girardiana significa stato di natura di Hobbes. Assenza di governo, di istituzioni, di punti di riferimento è sinonimo di incertezza dei ruoli, della stessa esistenza di una società. Al massimo si potrebbe parlare di sussistenza di molteplici gruppi allo stato diffuso ognuno dei quali si propone degli scopi da raggiungere tramite l’osservanza di regole spontaneamente osservate. Ma il fatto che non siano presenti istituzioni comuni fa si che il meccanismo di spontanea osservazione delle regole interne al gruppo entri in crisi non appena i gruppi inizino a combattersi tra loro. E’ la naturale conseguenza della mancanza di uno stabile assetto organizzativo unitario. Senza uno Stato e un governo che ne dia orientamento politico la collettività sarebbe preda della propria natura, non sarebbe tutelato il diritto fondamentale a non essere vittime. Infatti ogni crisi, soprattutto criminosa, latitando le istituzioni, potrebbe potenzialmente essere risolta tramite il linciaggio del capro espiatorio. Senza norme processuali garanti della presunzione di non colpevolezza (recte: di innocenza) il meccanismo vittimario avrebbe carta bianca: alla folla in preda a furor mimetico poco importa se l’accusato di un grave delitto che ha scosso la comunità (soprattutto oggigiorno i reati di pedofilia) sia il reale colpevole ovvero un estraneo. In quel preciso momento se le autorità non preservassero il diritto ad un giusto processo il sospettato sarebbe stato sommariamente condannato dai suoi concittadini. Troppe volte i c.d. processi mediatici favoriscono la logica del capro espiatorio, troppe volte assistiamo a condanne sulla base di meri indizi che nella maggior parte delle volte sono frutto di speculazioni giornalistiche in nome dell’abusato diritto di cronaca. Mancando i tribunali e la legge che i giudici sono chiamati ad applicare il passo verso il meccanismo espiatorio sarebbe brevissimo. Votarsi all’anarchia (istituzionale e parallelamente religiosa) vorrebbe dire buttare al vento duemila anni di cultura che ha visto nella tutela delle potenziali vittime uno dei suoi aspetti più peculiari. Dire duemila anni di cultura cristiana significa dire duemila anni di tutela delle vittime almeno dal punto di vista teorico. Scegliere l’assenza dello stato e del suo bagaglio storico vorrebbe dire invece ritornare al tempo dei miti. Fortunatamente, a parte limitate eccezioni, l’uomo del ventunesimo secolo è consapevole di quest’aspetto. La presenza dello Stato è garanzia della differenziazione della violenza attraverso un sistema giuridico in grado di tutelare il diritto fondamentale. Altro problema consiste nella forma di Stato. Chiaramente Girard opterebbe per un’organizzazione democratica che abbia come scopo la tutela dei cittadini e non lo sfruttamento di essi come mezzi per il raggiungimento di finalità differenti. Non sono le persone a doversi identificare con lo Stato, bensì viceversa. Facendo un passo in avanti si deve dire che assicurare l’ultima parola ai giudici (dello Stato) in ambito di conflitti interpersonali significa munire la sentenza di una forte autorità tale da rendere impossibile una vendetta da parte del soccombente in caso di risentimento nei confronti di chi gli ha dato torto. Infatti non avrebbe senso una protesta violenta contro funzionari statali, contro un sistema giudiziario il cui compito è applicare la volontà popolare. Difficilmente, salvo casi di eccezionale usurpazione della legge, si propagherebbe trai consociati un risentimento contro i giudici idoneo a sfociare nella violenza mimetica. Ciò perché l’autorità pubblica dotata di mezzi coercitivi distrae gli scontenti dal farsi giustizia privata.

La giustizia è un fatto straordinario perché è l’ultima parola della vendetta. Lo stato moderno generalmente è troppo potente perché si possa tentare di vendicarsi di lui. Coloro che non sono soddisfatti dell’operato della giustizia non possono attaccare lo Stato moderno come potrebbero attaccare un’altra famiglia, un’altra casata, in una situazione di vendetta privata. La giustizia è la vendetta pubblica, imperfetta, ma è comunque sempre una vendetta e noi siamo qui, nel mondo moderno, a nutrire una sorta di malcontento perché non abbiamo ancora concepito qualcosa di superiore a questa forma di giustizia. Cerchiamo di raffinarla, di complicarla, ma, malgrado tutto, l’essenziale viene meno: la giustizia è la vendetta pubblica.  Gli uomini arcaici erano terrorizzati dall’idea di vendetta interminabile, di una violenza senza fine. La giustizia arresta la vendetta[31].

 

 

 

 

  1. Principio di legalità e nozione di colpevolezza

 Il diritto comincia là dove, al posto di una vittima scelta arbitrariamente, si stabilisce una nozione razionale di colpevolezza. Naturalmente ci sono persone nella società che commettono azioni incompatibili con la vita collettiva. Per comprendere la nascita del diritto è necessario comprendere la necessità di una razionalizzazione della colpa: perché questo sia possibile è necessario un sistema giudiziario reale che possa ristabilire chi è il colpevole. In una società arcaica questo è praticamente impossibile, perché non esiste una struttura altrettanto forte e potente, in grado di stabilire la giustizia tra gli uomini, di far rispettare la razionalità della punizione[32].

In poche righe Girard riassume i cardini del nostro sistema penalistico: il principio di legalità e di colpevolezza. Se da un lato lo Stato deve dotarsi di un sistema punitivo codificato dalla legge e non creato ad hoc nei momenti di bisogno, dall’altro non è sufficiente la norma per garantire la tutela dei diritti della persona coinvolta nelle crisi criminose bensì è necessaria una relazione tra fatto-reato e colui che ne è ritenuto essere l’autore. Da un punto di vista generale il sistema deve incentrarsi su norme entrate in vigore prima della commissione del reato, da un punto di vista particolare la norma può produrre l’effetto punitivo solo nei confronti di chi sia colpevole. Legalità e colpevolezza sono due facce della stessa medaglia, una più statica l’altra più dinamica. La prima dev’essere un connotato dell’intero diritto penale, la seconda un elemento essenziale del reato per cui si procede.

Per principio di legalità (processuale e sostanziale) ci riferiamo alla garanzia posta dall’art. 25  della Costituzione: “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Entrambi i precetti rappresentano l’uno il complemento dell’altro: senza una legge entrata in vigore prima che il fatto sia stato commesso non può esserci un processo, di contro senza un processo che ne dia dinamica attuazione la norma costituzionale esisterebbe solo sulla carta. Così come il fatto dev’essere pre-determinato, altrettanto il giudice dev’essere quello del luogo in cui c’è interesse al processo (locus commisi delicti) e quello che una norma individua competente in base a criteri tassativi conoscibili da tutti prima dell’azione medesima.

Prendendo come accettato il presupposto secondo cui lo Stato deve servirsi del proprio potere coercitivo per garantire il diritto fondamentale a non essere vittima è facilmente intuibile la portata del principio di necessarietà del diritto penale: le norme punitive non devono rispondere all’esigenza di mantenere tranquille le folle tramite la paura, infatti la legislazione penale trova giustificazione laddove ci sia bisogno della pena che in tali casi dev’essere rispondente ai criteri di meritevolezza (punire solamente i fatti idonei a ledere o mettere in pericolo un bene giuridico), bisogno (pena come ultima ratio) e chiaramente legalità. Qualora uno Stato evadesse da questa norma di principio sulla facoltà punitiva determinerebbe una situazione di sfruttamento dei soggetti per finalità che astraggono dalla tutela della personalità degli individui e del loro diritto a non essere capri espiatori. Ad esempio all’interno delle legislazioni penali degli Stati totalitari era consuetudine disporre norme penali repressive di qualunque forma di opposizione al sistema ed in questi casi le minoranze fungevano da capro espiatorio, da mezzo sacrificale per il raggiungimento di una situazione politica ideale. Oltrepassare il confine della legalità significa distrarsi dallo scopo primario della legislazione penale.

Legalità consiste innanzitutto riservare alla legge (nullum crimen sine lege, garanzia operativa sul piano delle fonti) la pre determinazione della fattispecie criminosa come indicano gli art. 25.2 Cost e 1 c.p.; non è sufficiente solo che la legge preveda fatti-reato ma è anche necessario che siano tassativamente descritti da essa in modo da avere una formulazione quanto più precisa sia della fattispecie sia della sanzione. Ulteriore conseguenza della stretta legalità è il divieto di analogia (operante sul piano dell’applicazione della norma) della norma penale incriminatrice: infatti se l’art. 5 c.p. richiede la conoscibilità della legge salvo casi di ignoranza inevitabile è ovvio che il giudice non possa creare la norma ad hoc sulla base di casi simili, ma non tassativamente coincidenti con quello oggetto del giudizio. Tale garanzia è oltretutto presidio del diritto di difesa di cui all’art. 24 co. 2 Cost in quanto un avvocato si troverebbe in difficoltà a contestare una condanna sulla base non già di una norma specifica precostituita per il caso specifico, bensì sulla base di un’operazione logica del singolo giudice. Essendo in gioco la libertà dei soggetti è necessario che sia lo Stato a indicare quali siano i comportamenti meritevoli di sanzione penale e non i magistrati tramite interpretazioni soggettive di fattispecie simili. Anche il principio di irretroattività (e parallelamente di non ultrattività della legge) è presidio della legalità: infatti nessuno può essere punito per un fatto che, seconda la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato[33]. Quindi è lo Stato che deve decidere quali siano i fatti-reati prima della loro commissione e secondo una logica garantista qualora  in futuro mancasse la volontà di continuare a punire quel fatto allora le sentenze di condanna precedenti cesseranno di produrre effetto. Infatti se accadesse il contrario ciò rappresenterebbe una violazione del principio di eguaglianza di fronte alla legge: i condannati per il reato X abolito sopporterebbero una discriminazione irragionevole dato che continuerebbero a pagare per un fatto che per lo Stato non è più considerato degno di tutela penale.

 Per quanto concerne invece la colpevolezza si deve dire che essa assume un duplice significato, uno più generale e l’altro più specifico: se da un lato è comune opinione di tutti che il condannato debba essere colpevole di qualcosa, dall’altro è anche necessario che l’autore del fatto tipico abbia agito colpevolmente. E’ questa nozione eminentemente penalistica che interessa alla nostra analisi. Per dire che Tizio è colpevole del delitto di omicidio volontario è necessario non solo provare che ha cagionato la morte di Caio ma che abbia agito ad esempio con dolo. La colpevolezza è l’elemento psicologico del reato, l’elemento che tiene conto non solo delle azioni od omissioni dell’autore, ma della sua condizione soggettiva durante la commissione del fatto. Si può essere punibili a titolo di dolo (agire secondo l’intenzione con volontà e consapevolezza dell’evento dannoso o pericoloso), colpa (agire contro l’intenzione commettendo un evento non voluto, ma evitabile e prevedibile secondo norme cautelari di condotta), preterintenzione (agire oltre l’intenzione causando un evento più grave rispetto a quello minore voluto: trattasi, secondo la preferibile impostazione di Mantovani[34], di dolo misto a colpa[35]) e responsabilità oggettiva (addebito dell’evento come conseguenza causale della mera condotta dell’agente). Se circa l’imputazione di un reato a titolo di dolo e colpa non sorgono particolari problemi, è per le due rimanenti categorie che la dottrina nutre seri dubbi di conformità a costituzione (art. 27 co.1: personalità della responsabilità penale). Senza addentrarci nell’ambito forse più affascinante del diritto penale è qui sufficiente dire che le obiezioni investono situazioni ancora presenti nel nostro ordinamento[36] in cui sembrerebbe che il colpevole sia condannato solo in base ad un mero rapporto causale che collega la condotta all’evento. Tuttavia la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito a simili questioni senza mai giungere a declaratoria d’illegittimità: da ricordare che nella sentenza 364 del 1988 il Giudice delle Leggi ha posto come requisito necessario affinché un soggetto possa dirsi colpevole della commissione di un reato la presenza almeno della colpa negli elementi più significativi della fattispecie tipica.

Quel che a noi interessa qui sottolineare è che non si può essere puniti né senza una legge che renda tassativa la fattispecie di reato, né se non sia provato un titolo di colpevolezza che connetta psicologicamente l’imputato alla commissione dell’evento.

Altra domanda interessante: fino a dove il legislatore può spingersi nella previsione di reati? Quale è il limite alla potestà punitiva dello Stato? Supponiamo il caso di una norma penale che punisca con la reclusione colui che volontariamente passeggi lungo la riva del mare. Di cosa difetta questo ipotetico reato? L’attenzione va spostata al problema dell’offensività di una condotta. E’ opinione comune che il legislatore non possa punire condotte inoffensive ossia inidonee a causare una lesione ovvero una messa in pericolo di un bene giuridico meritevole di tutela. Tralasciando il fatto che nell’esempio portato manca un bene giuridico meritevole di tutela (al massimo sarebbe possibile legittimare l’ipotesi qualora la spiaggia sia zona sottoposta a quarantena per salvaguardare la salute pubblica e la contaminazione di una persona potrebbe causare gravi danni all’intera collettività) il vero problema sta nel fatto che la condotta sembra inoffensiva ex art. 49 co.2 c.p.[37]. Tuttavia è sufficiente una norma di legge ordinaria a fungere da criterio guida per tutti i casi previsti da altre leggi ordinarie? La dottrina critica ciò in quanto tra atti di pari rango vige il principio della lex posterior e quindi nulla vieterebbe al legislatore di derogare all’art. 49.2 con una legge successiva. Ecco come si apprezza la necessità di ancorare a Costituzione il principio di offensività: l’anticipazione della tutela penale non può andare al di là della funzione naturale dell’ordinamento che coincide con il dovere di garantire il diritto fondamentale a non essere vittime. Ergo una norma è inoffensiva quando servendosi del cittadino come mezzo per scopi di politica criminale disattende quel complesso di garanzie costituzionali atte a tutelare la libertà dell’individuo. Indici di strumentalizzazione dell’individuo per finalità extrapenali sono ad esempio uno svilimento della pena in misura di prevenzione (non di sicurezza: avente funzione preventiva della recidiva in persone la cui pericolosità sociale è accertata; ma misura di prevenzione caratterizzata dalla prevenzione della pericolosità sociale stessa) oppure un mutamento di finalità della pena da tendente alla rieducazione a pena come retribuzione.  Si noti che manca una norma rubricata “principio di offensività” quindi è onere dell’interprete ricavarne la portata in tutto il nostro ordinamento, dal codice penale alla Costituzione in un’ottica interpretativa sistematica.

Ma cosa succederebbe se un ordinamento accettasse l’incertezza del proprio sistema penale sostanziale e processuale? Un caso concreto aiuta a delineare la situazione.

 V’è un episodio minuscolo, riposto tra le pieghe del periodo confuso ai margini della seconda guerra mondiale, che converrà qui proporre quale emblematico avvio sulla funzione garantistica del processo. E’ il maggio del 1945 quando, nell’area incandescente della Trieste occupata dalle truppe jugoslave, tre individui, ex militi della milizia ferroviaria fascista, incolpati di aver rubato un maiale, sono accerchiati dalla folla e trascinati all’interno di una caverna fumosa adibita a taverna; qui si svolge un processo burla, dall’esito scontato, al termine del quale i tre vengono spinti all’aperto, fatti spogliare, messi a morte, gettati, infine, in una fossa comune. L’autorità giudiziaria qualche tempo dopo individua alcuni responsabili dell’episodio e li trae in giudizio; la Corte d’Assise di Trieste, il 16 gennaio 1948, pronuncia nei loro confronti sentenza di condanna per il delitto di omicidio volontario[38].

E’ facile scorgere in queste righe il riassunto di tutti i ragionamenti fin qui elaborati: da una situazione di crisi collettiva (la guerra) si sviluppa un contagio mimetico (tra la folla jugoslava) che ben presto degenera in violenza contro una vittima sacrificale (i tre militi fascisti) immolata senza dar alcuna importanza al giudizio di colpevolezza o innocenza. Il risultato è il benessere della comunità. La situazione di illegalità è stata ricomposta solo grazie all’intervento di uno Stato (modernamente intesto) munito di un ordinamento giuridico fondato sul principio di legalità e di colpevolezza, su una procedura penale tutrice delle garanzie dell’imputato e dei suoi diritti, in primo luogo della presunzione d’innocenza.

Emblematiche queste parole di Giuseppe Capograssi a commento dell’episodio della caverna: “Giudicare è un atto di giustizia; e significa: un giudice che sia tale per designazione della comunità anteriormente al fatto che si tratta di giudicare; un processo, nel quale l’incolpato abbia modo di conoscere l’accusa, di difendersi, si difenda e sia difeso; una legge, la quale stabilisca esattamente l’illecito da punirsi; e una pena, esattamente proporzionata all’illecito, che la legge prevede. (…) Se (il giudizio) non si realizza così, non è altro che assassinio, non potendo una condanna che non nasce traverso e mediante un consapevole meditato e predeterminato complesso di azioni che rispondono a queste regole e condizioni razionali, essere altro che uccisione di uomini per opera e mano di altri uomini, i quali, come nella specie, ben sanno che uccidere tre disgraziati privi di ogni possibilità di difesa e per un furto di maiali è puramente e semplicemente assassinio”[39]

Ricordando la lezione girardiana questa è un’ulteriore conferma di come operi il meccanismo vittimario nella società post rivelazione cristiana: gli episodi di violenza mimetica sono facilmente individuabili grazie all’attenzione che le società moderne hanno per i capri espiatori. Episodi evitabili per mezzo di un sistema giuridico e processuale fondato sulla legalità, sulla presunzione d’innocenza e sul diritto alla difesa di fronte ad un giudice terzo ed imparziale precostituito per legge.

Continua Capograssi: “Ma infine questa sentenza, tanto essa è ricca, ci fa vedere anche in concreto che cosa è la civiltà. La civiltà in sostanza non è altro che la differenza che passa tra quello che accede nella e fuori la taverna, e quello che è accaduto nel processo di cui la sentenza è conclusione. Nella taverna tutto è caduto nel caos originario, nella cupa orda dei primitivi: il giudice è la folla urlante; il processo è l’oppressione di tre inermi; la sentenza è un ritorno al nudo istinto di vendetta della tribù. (…) Bisognerebbe ricordarsi sempre che la storia è sempre al bivio tra la taverna-caverna e il tribunale. Che basta un nulla perché dal tribunale si precipiti nella caverna[40].

Ho messo in evidenza qualche parola chiave che sta ad indicare la lucidità di Capograssi nel separare processo vittimario tipico delle società non fondate sulla legalità, da processo moderno inteso come garanzia avente le proprie fondamenta su un sistema giuridico che recepisce il messaggio rivelatorio cristiano, i suoi presupposti, le sue conseguenze.

 

 

 

 

  1. Il mimetismo nel c.p. italiano: l’art. 62 numero 3

 

Abbiamo concluso che un sistema penale democratico deve incentrarsi sul principio di legalità della fattispecie e della pena e sul principio di colpevolezza. Requisiti che sono presenti nel nostro ordinamento.

 

Il codice Rocco si spinge oltre al principio di legalità e di colpevolezza. Sembra riconoscere anche gli effetti del mimetismo violento dando riprova della verità della teoria antropologica girardiana. La norma che mi porta a questa conclusione è l’art. 62 che al numero 3 recita: “Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 3) l’aver agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale o delinquente per tendenza”. Si tratta di una circostanza attenuante comune a tutti i reati (ovviamente solo quelli compatibili) che comporta la riduzione di un terzo della pena base. Prima di entrare nel merito della questione si deve sottolineare l’importanza di questa scelta. Il legislatore dimostra di riconoscere la realtà del contagio mimetico e delle sue conseguenze nel comportamento dei soggetti. Quello che l’art. 62 prevede è l’accecamento delle persone all’interno di una crisi mimetica dai risvolti violenti. La scelta è quella di diminuire la pena qualora il reato commesso sia circostanziato dal furor mimetico, quando l’individuo si trovi nel mezzo di un tumulto collettivo all’interno del quale le differenze si sbiadiscono e lo sfogo violento è antropologicamente comprensibile seppure condannabile come ci insegnano i Vangeli (girardianamente interpretati) da più di duemila anni. Il codice Rocco ha ben presente quest’ultimo aspetto quando prevede una diminuzione di pena ma non una scriminante del fatto: qualora l’“illecito mimetico” fosse stato non punibile ciò avrebbe significato legittimazione del meccanismo vittimario contro il capro o meglio i capri espiatori su cui si è polarizzata la violenza della folla in tumulto con conseguente prevalenza delle ragioni dei persecutori accecati, a discapito della tutela dei diritti fondamentali della vittima innocente. Scelta inaccettabile per un paese fondato sull’insegnamento cristiano e la conseguente attenzione per la tutela giuridica della vittima. Optando invece per la mera riduzione della pena senza intervenire sul disvalore della condotta criminosa si dimostra da un lato di avere conoscenza degli effetti antropologici del mimetismo violento e dall’altro di far proprio l’insegnamento dei Vangeli in ordine alla crudeltà dell’immolazione di una vittima. Il diritto fondamentale a non essere immolati rimane prevalente anche se entra in giudizio di bilanciamento con le conseguenze soggettive dei tumulti mimetici. Bisogna chiarire un punto finora dato per sottinteso, ma di notevole rilevanza: requisito essenziale affinché possa trovare applicazione la circostanza in esame è che il reo si sia trovato in mezzo alla folla senza aver già maturato la volontà di commettere il crimine, perché qualora avesse già premeditato il reato allora il dolo è da far risalire non al momento in cui si esplicano gli effetti del furor mimetico, bensì ad un momento temporale antecedente; ergo mancherebbe la ratio, il presupposto dell’intera costruzione legislativa che intende mitigare la pena constatando che la volontà dell’agente è stata deviata, suggestionata dall’eccitamento di massa. Quando la persona partecipa all’adunanza non deve né aver premeditato il reato, né secondo me aver previsto il degenerare in violenza della riunione stessa. Anche gli istigatori della massa possono giovare dell’attenuante qualora si dimostri che essi stessi siano stati contagiati dall’eccitazione globale del caos mimetico e le loro azioni siano state alterate dalla passionalità collettiva[41]. Sono posti dei precisi limiti all’applicabilità dell’attenuante: non ne giovano i partecipanti a riunioni o assembramenti illegali (limite oggettivo) e i delinquenti professionali o abituali o per tendenza (limite soggettivo)[42]. Se il limite soggettivo non fornisce interessanti spunti di riflessione (finalità preventive nei confronti di soggetti pericolosi particolarmente motivati a commettere reati in recidiva), è invece quello oggettivo che merita un approfondimento. Anticipando subito il punto fondamentale si può dire che per il codice penale laddove il mimetismo violento sia prevedibile esso dev’essere evitato e qualora il soggetto si sia sottratto da quest’obbligo legale allora non gioverà della diminuzione della pena per il reato commesso. Volendo definire lo status mentale di accecamento esso potrebbe venire paragonato all’incapacità di intendere e di volere. Il mimetismo violento infatti provoca un impossessamento più o meno volontario delle azioni della persona conducendole alla violenza. Tuttavia questa impostazione è troppo estrema e inaccettabile. Si potrebbe anche sostenere che il codice opti per una capacità attenuata ma pur sempre presente, altrimenti se optasse per uno stato di incapacità naturale il reo dovrebbe essere assolto ex art. 85 c.p. Il fatto che la capacità sia presente ma in modo non pieno potrebbe essere desumibile dalla previsione dell’attenuazione della pena ex art. 62 numero 3 c.p.. Tuttavia è giusto obiettare che in realtà il giudice al momento di applicare l’attenuante ha già in mente la pena base comminata dopo l’analisi degli elementi essenziali del reato e l’accertamento della presenza di una capacità sufficiente per procedere a condanna. Questa a mio avviso è l’impostazione da seguire. Il giudice accerta la presenza del reato, accerta la piena capacità di intendere e di volere e prevede una pena base che sarà successivamente ridotta di un terzo. Ovviamente la nozione di capacità qui in gioco è eminentemente positiva, è quella fornita dal codice penale e non dalla scienza psichiatrica. Infatti la capacità è per il codice piena: non sussistendo alcuna infermità tale da escludere (art. 88 c.p.) ovvero scemare grandemente senza escluderla (art. 89 c.p.) la pena non deve essere né esclusa, né diminuita in forza dell’attenuata capacità naturale (art. 89 c.p.: l’agente “risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”). Qualora però il mimetismo eventualmente integrasse un’ipotesi di infermità allora le norme applicabili sarebbero quelle circa l’incapacità totale o parziale e non l’attenuante di cui all’art. 62. Perché dunque il legislatore si sente in dovere di intervenire con un’attenuante e diminuire la pena per circostanze palesemente connesse allo status psicologico dell’agente al momento della commissione del fatto? L’intervento è necessario per poter ovviare all’inconveniente appena visto, ossia che per il legislatore penale la capacità è piena quando non ci sia infermità. Non prevede vie di mezzo, non prevede il mimetismo all’interno dell’analisi delle norme dedicate all’attitudine del reo di comprendere il significato delle sue azioni. Potrebbe sembrare più corretto individuare una via di mezzo tra infermità e furor mimetico qualora l’accecamento non costituisca causa di infermità, ma si fermi ad uno stadio meno grave. Credo che il codice abbia fatto la scelta giusta. Allargare le maglie dell’incapacità significherebbe dettare norme si soggettive, ma destinate ad essere applicate oggettivamente sia al reo di prima condanna sia al delinquente abituale; al partecipante della riunione sia legale sia vietata; a chi aveva già premeditato il reato e a chi invece non aveva maturato alcun proposito illecito. Invece a ben vedere il mimetismo come espressione della natura violenta dell’uomo è un fenomeno da riconoscere, ma allo stesso tempo da combattere. Lo stato di incapacità naturale è un quid su cui non si possono esprimere giudizi di merito, mentre il mimetismo violento è un aspetto da tenere controllato e non da essere per così dire liberalizzato. Prevedere esclusione della pena per aver agito in stato di furor di massa (incapacità che potremmo definire mimetica) significherebbe dare al soggetto con intenzioni criminose un motivo in più per non esimersi dal proposito. Incoraggiarlo a far in modo da trovarsi in mezzo ad una folla in tumulto. In tali casi estremi la soluzione andrebbe ricercata nell’ art. 87 c.p.: “La disposizione della prima parte dell’art. 85[43] non si applica a chi si è messo in stato in incapacità di intendere o di volere al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa”. Qualora si volesse introdurre il mimetismo nel c.p. esso al massimo dovrebbe trovare collocazione accanto alle norme sullo stato di ebbrezza o tossicodipendenza tali da escludere o scemare grandemente i freni inibitori. I conti tornano: la stessa attenuante comune sembra far propri i ragionamenti sottesi agli art. 91 ss quando esclude il beneficio per coloro che hanno partecipato a riunione o assembramento vietato. E’ qui che eventualmente si può richiamare il parallelismo con le c.d. actiones liberae in causa[44] di cui all’art. 87 c.p. I casi sono due: l’individuo o entra volontariamente a far parte di una folla costituitasi contro la volontà della legge ad esempio accettando il rischio del potenziale sbocco in violenza dell’adunata stessa (actio libera dolosa) ovvero pur essendo ciò prevedibile non lo evita partecipando ugualmente (actio libera colposa). L’interpretazione che ho proposto ruota attorno all’estensione della portata originaria dell’art. 87 dato che esso collega l’incapacità preordinata ad un reato specificamente individuato, non invece alla pericolosità di una situazione generica (cioè la violenza della folla che di per sé non integra alcuna fattispecie di reato). Colui che prende parte ad un assembramento illegale non accetta il rischio di un reato che ha già previsto (saremmo qui al confine tra dolo eventuale e colpa cosciente circa un reato X), bensì accetta quello dello scoppio della violenza mimetica nella sua più ampia accezione. Quindi la ratio della circostanza attenuante sembra essere quella di voler escludere dal beneficio ogni persona che, pur essendo prevedibili potenziali esiti pericolosi della riunione (quali esiti intesi in termini di reati specifici abbiamo detto che il soggetto non lo deve sapere, anzi meglio, prevedere), non ha obbedito alla regola cautelare che impone l’astensione dalla partecipazione alla medesima. Dall’art. 62 numero 3 pare emergere l’idea di prevedibilità e parallela evitabilità di una situazione pericolosa come l’accecamento mimetico di una folla. Se però la riunione fosse legale allora ai partecipanti non è rivolto alcun obbligo di astensione cautelare. E se la folla pur formatasi legalmente degenererà all’insegna della violenza, i membri di essa autori dei vari reati (chi lesioni, chi omicidio, chi ingiuria ecc. sempre qualora un’eventuale aggravante non sia valutata dal giudice come prevalente in sede di bilanciamento di circostanze di opposta natura) beneficeranno della riduzione della pena pari ad un terzo sempre che non avessero già ideato un piano per commettere il reato e allora la norma dominante sarebbe l’art. 87 c.p. come visto sopra. Il fatto che il c.p. riconosca il mimetismo lo si evince proprio dal binomio prevedibilità – evitabilità in tema di riunioni illegali potenzialmente degenerabili in violenza in modo statisticamente maggiore rispetto alle riunioni legittime.

Ecco un limite di un’attenuante così costruita: da un’interpretazione letterale sembra che il soggetto involontariamente tirato in mezzo ad una folla, illegalmente formatasi, in pieno furor mimetico che commette un reato non beneficerà della diminuzione di pena. La circostanza tiene conto del dato oggettivo: una riunione vietata. Non invece delle condizioni psicologiche di ciascun membro. 

 

Ma perché allora il c.p. ha previsto una mera circostanza e non una norma ad hoc inseribile ad esempio tra gli art. 91 e 96? Secondo me la ragione è semplice e dimostra un “errore” (ampiamente giustificabile) del legislatore nel qualificare il mimetismo non inserendolo trai fenomeni limitativi della capacità naturale. Infatti se per il codice l’accecamento mimetico fosse una causa limitativa dei freni inibitori come alcol e droga avrebbe trovato il suo esatto collocamento, invece il mimetismo è inteso come un particolare stato emotivo e passionale pur se connotato da caratteristiche proprie. Qualora non fosse prevista l’attenuante comune allora il reato commesso da persone accecate da una folla in tumulto non avrebbe beneficiato di alcuna diminuzione di pena ex art. 90 c.p.: “Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Il furor mimetico a mio avviso ha qualcosa in più dei sentimenti di gelosia, rabbia, risentimento, emotività, ansia e via dicendo. Esso è inquadrabile in un ambito collettivo, non individuale. E infatti il legislatore si rende conto di ciò prevedendo l’attenuante.  Questa è una ragionevole e condivisibile scelta di politica criminale che tuttavia in campo medico non sarebbe probabilmente accettata così facilmente. Avrebbe potuto essere prevista una norma generale ad hoc operativa a monte e non una mera circostanza operativa a valle per poter così ricomprendere in essa anche l’eventualità di un individuo trovatosi in mezzo per caso fortuito ad una folla illegittimamente costituitasi. Il codice si rende conto del fenomeno senza osare una qualificazione più netta. Le ragioni sono di politica criminale, di coerenza con una linea penalistica che non vuole lasciare spazio agli stati emotivi e passionali intesi come categoria molto ampia in cui viene inserito anche l’accecamento mimetico che stato emotivo e passionale in senso stretto a mio avviso non è. Ecco che il codice compensa questa visione restrittiva con la previsione di una circostanza: cerca di attenuare una scelta criticabile dal punto di vista formale, ma comprensibile dal punto di vista della tutela della vittima. Riprendendo la definizione di Diritto Fondamentale a non essere vittima esposta nei paragrafi precedenti la scelta del legislatore di prevedere solo un’attenuante è giustificabile dal momento che tende a limitare al massimo i benefici per la folla persecutrice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III

 

LA MINACCIA DEL TERRORISMO DOPO L’11 SETTEMBRE: MISURE DIFENSIVE E DIRITTI VIOLATI

 

 

1.     Profili di “diritto di guerra” sostanziale e processuale americano

 

Facciamo brevemente il punto della situazione: partendo dal presupposto che la natura umana sia mimetica e facilmente aperta alla violenza nei confronti di vittime innocenti siamo arrivati a sostenere la necessità della presenza dello Stato e del suo ordinamento per garantire il diritto fondamentale della persona di non fungere da capro espiatorio. Delineando i caratteri di un diritto penale garante di quest’esigenza si è sottolineato il primato del principio di legalità e di colpevolezza.

 

Interessante banco di prova di questi ragionamenti ci è dato dalle misure adottate dal governo Bush per combattere (recte: prevenire) la minaccia del terrorismo dopo i tragici eventi dell’11 Settembre. Per ragioni di ampiezza di un argomento dai mille risvolti traccerò uno schematico quadro complessivo dal quale sia facile evincere i principali punti critici dell’intera questione.

 Anzitutto l’America non è nuova ad episodi di terrorismo (l’autobomba alle Twin Towers nel 1993,  gli attentati del 1998 contro gli obiettivi USA in Kenya e Tanzania) quindi non priva di rimedi ad hoc presenti nella legislazione penale ordinaria. Da notare subito che nei casi sopra menzionati gli autori sono stati processati, come qualsiasi altro imputato di terrorismo prima delle leggi speciali post 11/09, da Corti Distrettuali penali ordinarie come prevede la costituzione del 1787 che altresì garantisce all’imputato il diritto ad un processo breve e pubblico, di presentare testimoni a discarico, di usufruire dell’assistenza di un legale. Con l’ Authorization for Use of Military Force” del 14/09/2001 il Senato assegna al Presidente Bush (in quanto comandante in capo delle forze armate) ogni potere (militare e non) idoneo a combattere gli autori della strage di Manhattan e a prevenire future minacce al paese[45]. Conseguenza di questo atto adottato all’unanimità dal Senato è l’accentramento in mano all’esecutivo del potere normativo in tema di reati connessi al terrorismo. Se con il Patriot Act del 26/10/2001 ancora non si introducono norme palesemente in contrasto con i diritti degli imputati[46] è invece rilevante l’impatto con il sistema previgente del Military Order del 13/11/2001 emanato dal Presidente in virtù del suo status di comandante in capo delle forze armate. Tale atto pone le basi del c.d. diritto di guerra che disciplina ex novo diritto penale sostanziale e processuale in materia di terrorismo. Diritto di guerra che è diverso sia dal diritto penale, sia dal diritto militare. Il nome diritto di guerra è stato individuato dalla dottrina per assonanza con i war powers del Presidente, poteri dai quali è nato il sistema che stiamo commentando. L’atto è intitolato: “Detenzione, trattamento e procedimento nei confronti dei non cittadini durante la guerra contro il terrorismo”, esso istituisce le Commissioni Militari nuovo organo giudiziario (che non è né giudice ordinario, né giudice militare competente in base al diritto militare “ordinario”) avente competenza a decidere nei confronti degli stranieri imputati di reati a sfondo terroristico sulla base di successive norme dettate appositamente dalle instructions del Ministro della Difesa. Quindi da un lato è istituito un giudice speciale, dall’altro sono poste le basi per la creazione di un nuovo diritto sostanziale e processuale ad uso esclusivo delle medesime Commissioni. Un diritto fatto di norme retroattive (infatti lo scopo è punire gli attentatori dell’11 settembre e tutti coloro che ruotano attorno ad Al Qaeda) che si colloca in posizione parallela al diritto penale statunitense (applicato dai giudici ordinari, le Corti Distrettuali) rimanente in vigore per le ipotesi non specificamente contemplate dal diritto di guerra. Riservandomi di riprendere l’argomento a breve accenno solo che le Commissioni Militari dovranno applicare il diritto di guerra nei confronti dei detenuti a Guantanamo, base militare situata in territorio straniero concessa al governo statunitense dal 1903.

Entriamo nel merito di questo nuovo diritto di guerra: l’atto principale a cui si deve far riferimento per conoscere le norme sostanziali incriminatici è la “Military Commission Instruction N°2”[47]. Una prima norma esemplificativa delle finalità di questi provvedimenti è collocata nella sezione terza laddove si legge che le norme saranno applicate anche retroattivamente in quanto non si tratta di un diritto nuovo, bensì di un insieme di norme di ius gentium, meramente ricognitive del sistema legislativo attuale: “this document is declarative of existing law, it does not preclude trial for crimes that occurred prior to its effective date”[48]. E’ molto problematico sostenerne la legittimità dato che il diritto di guerra è nato con il l’executive order del 13/11/2001 e non prima, infatti la giurisdizione delle Commissioni non era previste da alcuna norma processuale né tantomeno norme sostanziali in tema di terrorismo erano state dettate per essere conosciute da simili organi giudiziari in casi così settoriali e autonomi.

Nella sezione quarta è indicato l’elemento psicologico richiesto per i reati sostanziali: il dolo generico[49]. La ratio è chiaramente preventiva dato che facilita moltissimo l’incriminazione dal momento che non sarà necessario provare quelle finalità ulteriori che nel nostro ordinamento invece sono necessarie per poter condannare un imputato di un reato a dolo specifico, quindi le ulteriori finalità psicologiche sono presunte o meglio fatte rientrare nel dolo generico idoneo a coprire ogni possibile sottoclassificazione della categoria attraverso una presunzione di dolo specifico (nel caso del reato di terrorismo di cui alla sezione sesta è presunta l’intenzione specifica di intimidazione e violenza nei confronti della popolazione oppure di influenza della politica governativa attraverso atti intimidatori o violenti).

Il diritto di guerra conosce singole incriminazioni slegate l’una dall’altra e di conseguenza è specificato che il criterio da seguire sarà quello del cumulo materiale della pena, non si fa menzione a criteri diretti a temperare la pena complessiva, vale il principio “tot crimina tot poenae”.

A completamento dei criteri generali d’incriminazione la medesima sezione 4 lettera A non richiede ai fini della condanna la prova da parte dell’accusa di tutti gli elementi essenziali del reato in quanto è sufficiente dimostrare dolo e commissione del fatto tipico. Notiamo un inversione dell’onere della prova dall’accusa alla parte accusata che per poter esser scagionata dovrà provare la non antigiuridicità del comportamento contestato. Apparentemente la norma potrebbe sembrare meno penalizzante di quanto in realtà è: i detenuti di Guantanamo sono però sottoposti a rigide limitazioni del diritto di difesa essendo precluso al difensore una normale conversazione con il proprio assistito, anzi prima dell’intervento della Corte Suprema non era nemmeno diritto del detenuto conoscere le motivazioni concrete della sua detenzione.

Lo specifico reato di terrorismo può essere contestato anche sulla base di una mera intenzione di agire senza però aver commesso alcun atto idoneo a commettere il delitto medesimo. E’ punibile la mera volontà non seguita da atti attivi od omissivi, dannosi o pericolosi. Infatti è considerato reato di associazione a delinquere con finalità terroristiche anche il mero apporto psicologico esterno ossia il mettere a disposizione materiale didattico ad esempio in tema di costruzione di ordigni esplosivi.

 

E’ intuibile la ratio sottesa al sistema che emerge dall’excursus appena tracciato: la finalità delle norme esaminate è chiaramente preventiva di atti idonei a ledere la personalità dello Stato. Al centro della tutela è collocato l’interesse alla preservazione dello Stato e delle sue finalità in primis economiche (questo è il vero danno di dimensioni catastrofiche causato dagli attacchi alle torri gemelle). Dopo la seconda guerra mondiale i nuovi codici penali hanno inaugurato la parte speciale dettando norme a tutela della vita dei cittadini, il bene giuridico sotteso è anzitutto il diritto all’integrità fisica delle persone. Delle persone appunto, non degli uomini in generale. Infatti grazie alla lezione di Renè Girard abbiamo appurato come il concetto di persona ha un autonomo significato inscrivibile nel processo mimetico e nelle conseguenze di esso. Tutelare la persona significa essere a conoscenza del pericolo del meccanismo del capro espiatorio e riconoscere la necessità di predisporre un sistema statale funzionale alla garanzia dei diritti fondamentali dei suoi cittadini così come li abbiamo definiti nella sezione precedente. Non a caso il nostro codice penale inaugura la parte speciale con norme volte a tutelare l’integrità dello Stato persona, infatti è nato nel ventennio fascista dove erano chiari gli scopi politici della legislazione. Le stesse teorie filosofiche fatte proprie dai fascismi pongono in primo piano lo Stato inteso come fine ultimo a cui gli individui devono tendere, come luogo di destinazione, come entità superiore nella quale le persone trovano realizzazione individuale. Ergo si intuiscono le matrici normative. Questo diritto di guerra americano è l’emblema del ritorno ad un’ideale statocentrico. La finalità di tali misure così invadenti la sfera soggettiva degli imputati è chiaramente preventiva: ma non preventiva delle strumentalizzazioni della persona umana, ma preventiva di atti esterni contro lo Stato. Il vertice della piramide sono gli Stati Uniti d’America intesi come soggetto operante nel mercato internazionale. Solitamente le norme sono dedotte dal principio di centralità della persona umana, invece a quanto pare siamo di fronte ad una legislazione di carattere discendente: dall’idea di Stato sono ricavate le singole tutele. Non voglio essere così critico di queste misure chiaramente necessarie per tutelare non solo un paese, ma tutta l’immagine dell’occidente, bensì sottolineare gli eccessi di una normazione che perde la propria meta, che antepone in modo troppo netto ed evidente gli interessi istituzionali a quelli di tutela delle vittime. Anzi con disposizioni come quella in merito all’inversione dell’onere della prova in tema di antigiuridicità si rischia di servirsi dell’accusato come strumento di evoluzione della giustizia. Senza il volontario intervento di colui il quale è onerato dal dover discolparsi il processo si concluderebbe con una sentenza che alla luce della nostra Costituzione sarebbe sommaria, incostituzionale per varie ragioni tra cui la violazione del diritto alla difesa e al principio di eguaglianza (ci sarebbero accusati di serie A e altri di serie B all’interno del medesimo sistema). La responsabilità penale perde il suo profondo significato garantista. Il principio del contraddittorio sembra svilito. Tuttavia ciò non sorprende più di tanto se si considera che la volontà è quella di concludere velocemente i processi contro i questi detenuti speciali in modo da esibire come trofeo quella che in realtà ci appare come una giustizia troppo carente. L’idea sarebbe quella di opporre al terrore la fermezza e l’efficienza di un sistema giuridico che riconosce i colpevoli e li condanna duramente. In poche parole le condanne dovrebbero fungere da esempio, dovrebbero incutere timore nei potenziali terroristi. Ma ricordando le parole di Girard è questa vera giustizia? Oppure sembra un chiaro ritorno al meccanismo vittimario strumentalizzato dallo Stato per finalità penalistiche di matrice preventiva generale e soprattutto retributivistica? A mio avviso il rischio è appunto questo, servirsi dei poteri legislativi per andare al di là di quello che dovrebbe essere lo scopo del diritto penale: non punire per punire, ma punire per tutelare.

 

 

2.     La situazione a Guantanamo: tra diritto internazionale e giurisprudenza della Corte Suprema degli USA

 

 La baia di Guantanamo è situata nel territorio di Cuba e dal 1903 è sotto il controllo delle forze statunitensi. Non a caso le autorità americane hanno deciso di detenere presso le carceri della base di Guantanamo i sospetti terroristi affiliati alla rete di Al Qaeda ovvero implicati nella strage dell’11 settembre; soggetti che dovranno essere giudicati come sopra visto dalle Commissioni Militari competenti in base al nuovo diritto di guerra. Infatti nella sentenza Johnson vs Eisentrager del 1950 la Corte Suprema afferma che gli stranieri catturati e detenuti in territorio estero non possono godere dei diritti che la Costituzione degli Stati Uniti garantisce per i propri cittadini e per coloro che si trovano nel territorio. Questa sentenza prende in considerazione il caso di alcuni militari tedeschi catturati in Cina dopo la fine della seconda guerra mondiale, catturati e processati da un tribunale americano per crimini di guerra commessi dopo la resa della Germania. Eisentrager chiese con una petizione di poter godere dei diritti che la Costituzione USA prevede, in particolar modo di essere giudicato da un tribunale ordinario e di conoscere i fatti contestati per potersi difendere efficacemente. La Corte invece rigetta la domanda sancendo il principio di inapplicabilità delle garanzie costituzionali nei confronti di stranieri processati all’estero. E’ dunque chiara la ragione sottesa all’istituzione delle Commissioni Militari e la reclusione dei sospetti in Guantanamo: secondo la S. Johnson essendo Guantanamo in territorio cubano le garanzie costituzionali non troverebbero applicazione durante i processi speciali.

La questione necessita di essere esaminata anche sotto l’ottica del diritto internazionale. La Terza Convenzione di Ginevra circa il trattamento dei prigionieri di guerra del 12 agosto 1949 all’art. 102 dispone che in caso di violazione di norme di guerra la giurisdizione è assegnata al giudice che avrebbe competenza a decidere nei confronti di un soldato dell’esercito che tiene in custodia i prigionieri stranieri[50]. La giurisdizione delle Commissioni Militari sembrerebbe contrastare l’art. 102 in quanto in base al diritto statunitense potrebbero essere competenti o la Corte Marziale ordinaria (qualora si faccia rientrare il reato di terrorismo trai crimini di guerra) ovvero le Corti Distrettuali Penali (qualora si qualifichi il terrorismo come reato autonomo). A quanto pare la soluzione preferibile è la seconda visto che sarebbe al quanto problematico ritenere il terrorismo di Al Qaeda un crimine di guerra visto che una guerra intesa come contrapposizione tra Stati attualmente non c’è.

A ben vedere il concetto chiave su cui ruota e si fonda la portata dell’art. 102 della Convenzione di Ginevra è “prigioniero di guerra”: da parte del governo USA da un lato non si è mai parlato di guerra così come intesa dal diritto internazionale e dall’altro non si è mai ritenuto prigionieri i detenuti a Guantanamo. Di conseguenza l’art. 102 non dovrebbe trovare applicazione mancando due elementi necessari per far scattare la tutela della Convenzione (stato di guerra e condizione di prigioniero). E’ la stessa Convenzione però che all’art. 4 indica i requisiti soggettivi del prigioniero: dev’essere o un membro delle forza armata di uno stato, oppure appartenente ad un gruppo di resistenza organizzata a condizione che essa sia dotata di un’organizzazione gerarchica, faccia uso di armi, presenti un segno distintivo e rispetti gli usi di guerra durante le proprie azioni. Nel caso di Al Qaeda e simili organizzazioni terroristiche è scontato che non si tratti di membri delle FF.AA. di uno Stato (ad es. dell’Afghanistan) e problematica è la loro collocazione nella categoria dei gruppi di resistenza organizzati. In caso di incertezza nell’interpretazione dell’art. 4 caso per caso, detenuto per detenuto, è prevista l’istituzione di un apposito tribunale competente a decidere se un soggetto sia o meno da considerarsi prigioniero di guerra[51] ed in caso di dubbio si propende per lo status di prigioniero.

Ma quale è allora la condizione giuridica dei sospetti terroristi imprigionati a Guantanamo? Più volte il Segretario alla Difesa Rumsfeld ha parlato di “combattenti illegittimi” , una categoria non espressamente riconosciuta dal diritto internazionale né da quello interno per così dire ordinario. E’ solo il diritto di guerra ad essere applicato nei confronti di codesti prigionieri atipici. Il governo USA ha affermato con una decisione autonoma e diretta nei confronti dei detenuti a Guantanamo che costoro sono tutti indistintamente combattenti illegittimi. Osserviamo le conseguenze di questa definizione sul piano processuale. Ritenendo il terrorismo un reato autonomo non rientrante nei crimini di guerra si possono aprire vari scenari. Se il detenuto è cittadino americano la giurisdizione sarà quella delle Corti Distrettuali così come la Costituzione sancisce al XIV Emendamento dove si parla di due process (in merito si ricordi il caso del c.dtalebanoJohnny: cittadino americano convertito all’Islam catturato in Afghanistan e condannato nel rispetto delle tutele costituzionali da un giudice distrettuale sulla base del diritto penale ordinario), se invece è uno straniero le soluzioni possono essere due: giurisdizione delle Corti Distrettuali se catturato nel territorio USA o all’estero ma trasferito nelle carceri territoriali, ovvero delle Commissioni Militari se catturato all’estero ma inviato a Guantanamo. Si noti l’assoluta dipendenza del foro competente da atti discrezionali di chi decide dove vadano trasferiti i catturati all’estero. Quest’aspetto potrebbe non essere più di tanto rilevante sul piano sostanziale qualora il diritto applicabile dal giudice ordinario e speciale fosse uguale: invece nel diritto di guerra il rischio di essere condannati a morte è molto più alto.

 

 E’ facile notare come il la linea di rotta in tema di diritto penale sia stata invertita dopo l’11 settembre: al centro della tutela si trova l’interesse dello stato e non la tutela delle vittime. Si potrebbe obiettare che è pur sempre tutelata la vittima potenziale che nel caso specifico sono i cittadini americani. Tuttavia il concetto di vittima che abbiamo acquisito a partire dalla lezione girardiana non è esauribile in una definizione così ristretta, è un concetto che deve andare di pari passo con quello di capro espiatorio. E si apprezza quindi che capro espiatorio può essere sia il cittadino vittima di barbari ed assurdi attentati terroristici commessi nel nome del Nulla, sia d’altro canto la persona accusata del reato stesso. Quello che emerge dall’analisi sopra  vista è che i detenuti a Guantanamo non sono semplici persone accusate di un grave delitto, bensì sono sostanzialmente dei presunti colpevoli. Si è visto che un sistema penale e processuale rispettoso dei diritti dell’uomo dev’essere incentrato sul principio sostanziale di colpevolezza e processuale di presunzione di innocenza. Diritto sostanziale e processuale interagiscono tra loro dando vita ad una reale tutela dell’accusato. Il diritto di guerra viola apertamente il principio colpevolezza: l’accusato di un fatto tipico che non si difenda dimostrando la non antigiuridicità della condotta posta in essere è condannato. L’onere della prova non è in capo all’accusa, bensì alla difesa. Qualora la difesa fosse particolarmente efficace e attiva si potrebbe magari pensare di giustificare questa norma, ma siccome fin dal Patriot Act sono stati posti stretti limiti all’attività dei difensori degli imputati di terrorismo internazionale questa regola è doppiamente illegittima. Se introdotta nel diritto italiano non resisterebbe un giorno al vaglio del sindacato della Consulta. Rivolgendo poi l’attenzione alle misure cautelari adottate a Guantanamo si rileva che gli imputati detenuti 24 ore su 24 per un tempo indeterminato, senza diritto ad una costante assistenza legale non si possono dire presunti innocenti, bensì presunti colpevoli. Infatti ulteriore indice di presunzione di colpevolezza è lo stesso diritto di guerra e l’istituzione di giudici speciali. Qualora non si avvertisse la minaccia di presunti terroristi non si sarebbero adottate queste drastiche misure. La prigionia a tempo indeterminato funge da anticipazione della pena per coloro che appaiono colpevoli fino a prova contraria. Il giudicato di condanna funge in questi termini solo da atto formale conclusivo. Sembra palese poi l’elusione del diritto internazionale in tema di tutela dei prigionieri: servendosi della pronuncia della Corte Suprema nel 1950 si è cercato di agire sfruttando le incertezze del diritto internazionale di fronte al fenomeno del terrorismo dopo l’11 settembre. Infatti interpretando in una certa maniera la Convenzione di Ginevra il risultato è stato di riuscire a qualificare i nemici come combattenti illegittimi e quindi ottenere la massima libertà di disciplinare lo status di una categoria nuova. Tuttavia la soggezione all’autorità militare a Guantanamo è indice di uno stato sostanziale di prigioniero. Quindi la ratio della Convenzione deve essere rispettata anche dal diritto di guerra. Altro principio ad uscirne sconfitto è quello di certezza del diritto intesa come certezza della pena e della giurisdizione. Una persona deve poter conoscere le conseguenze delle proprie azioni specialmente laddove entrino in gioco limitazioni alla libertà personale; colui che intende attentare alla vita delle altre persone dovrebbe poter conoscere con certezza cosa la legge prevede nel suo caso, a quali pene potrebbe andare incontro. Ed invece il diritto di guerra lascia aperte molteplici opzioni a seconda che il soggetto sia straniero o cittadino, catturato negli States ovvero nel territorio di un altro stato. E la discrezionalità è ampia come sopra illustrato. I sospettati di terrorismo sono dunque strumentalizzati per finalità di politica criminale. Gli stessi processi a Guantanamo dovrebbero svolgersi a porte chiuse e con possibilità di appello solo al Presidente stesso.

 

Una situazione dai connotati testè esposti non rappresenterebbe di certo la chiusura ideale del cerchio aperto con la teoria mimetica e le sue conseguenze giuridiche. Infatti cadrebbe la mia ipotesi secondo cui il diritto (in particolare quello penale) dei paesi democratici moderni è funzionalizzato alla tutela delle vittime in quanto la coscienza moderna è sensibile al problema del capro espiatorio in qualsiasi sua forma di manifestazione: giuridica o meno. Infatti il diritto di guerra si è dimostrato essere tutore solamente di un tipo di vittima (i cittadini americani, o anzi meglio, gli interessi globali del sistema America) servendosi del meccanismo vittimario nei confronti dei presunti terroristi di Al Qaeda sacrificati ai superiori interessi dello stato e della sua politica in materia criminale.

Ho lasciato per il finale l’analisi di tre recenti sentenza (giugno e novembre 2004, le prime due della Corte Suprema, l’ultima della Corte Distrettuale di Washington)  proprio per  cercare la quadratura del cerchio dimostrando la primazia del diritto fondamentale a non essere vittime anche nel diritto di guerra.

 

 

3.     Il caso Hamdi vs. Rumsfeld

 

Hamdi è un cittadino americano catturato nel 2001 in Afghanistan, detenuto a Guantanamo fino all’aprile del 2002 e attualmente in una base militare del South Carolina[52]. Il governo lo classifica fin da subito come combattente illegittimo giustificando in base a ciò la detenzione a tempo indeterminato (fino alla fine delle operazioni belliche in Afghanistan). Per un anno e mezzo gli è stato sempre negato il diritto di inviare e ricevere comunicazioni in prigione nonché di ottenere una consulenza legale per difendersi di fronte ad un giudice terzo e imparziale. Successivamente suo padre agisce contro tali provvedimenti restrittivi nelle forme e nei modi permessi dal diritto statunitense denunciando una violazione del quinto (detenzione solo in vista di un due process of law, giammai quindi a tempo indeterminato) e del quattordicesimo emendamento (diritto dei cittadini americani al due process of law ossia davanti ad un giudice ordinario). La Corte Suprema rigetta il ricorso ex 5° emendamento in quanto la detenzione a tempo indeterminato (per evitare che quei presunti terroristi possano essere ancora pericolosi una volta rilasciati) è legittimata dai war powers che il Congresso ha all’unanimità assegnato al Presidente con l’Authorization for Use of Military Force. Tuttavia aggiunge che è necessario un giudizio di bilanciamento degli interessi nazionali di difesa con i diritti umani dei detenuti, quindi dev’essere esclusa una detenzione per un tempo incerto senza la possibilità di disporre di un avvocato e far valere i propri diritti di fronte ad un giudice ordinario come garantisce la Costituzione. Quindi per motivi di opportunità la Corte evita di dichiarare illegittima la prigionia, ma dispone che coloro i quali sono definiti “nemici combattenti” devono avere il diritto di difendersi e dimostrare di non essere terroristi fin dal primo giorno di custodia di fronte ad un giudice ordinario terzo e imparziale. Non a caso la Corte parla di giudice Terzo, in quanto precludendo i ricorsi alle corti distrettuali l’unico giudice a cui appellarsi rimarrebbero quelle Commissioni Militari che rispondono direttamente al Presidente ed operano secondo le norme dettate dai regolamenti del ministero della Difesa. Ecco che è aperta la strada a ricorsi presso giurisdizioni ordinarie attinenti alla legalità della detenzione a Guantanamo e soprattutto alla parallela limitazione dei diritti personali, in primis processuali.

 

 

4.     Il caso Rasul vs. Bush

 

A differenza del caso sopra riportato qui invece i detenuti non sono cittadini americani ma due australiani e dodici kuwaitiani detenuti a Guantanamo. Come già osservato la base cubana è sotto il controllo americano dal 1903. I ricorrenti denunciano l’illegalità della detenzione affermando di non essere nemici degli USA e di avere diritto di provare di fronte ad una Corte Distrettuale in linea con le garanzie che la Costituzione prevede. Tuttavia la sentenza Johnson vs. Eisentrager del 1950 aveva negato l’estensione dei diritti costituzionali anche ai territori stranieri ove si svolgano operazioni militari delle FF.AA. americane ma dove non ci sia esercizio di sovranità. La Corte Suprema rivede la portata della sentenza del 1950 affermando che la Costituzione produce effetti anche in quei territori su cui di fatto si manifesta il controllo sovrano del governo statunitense (c.d. territorial jurisdiction). Questo è chiaramente il caso di Guantanamo. Le conseguenze di questa decisione si apprezzano prima di tutto circa il diritto alla difesa: gli imputati devono poter disporre di un avvocato, adire le Corti Distrettuali per poter dimostrare la propria innocenza e porre così fine ad una detenzione a tempo indeterminato. La garanzia principale che la Costituzione offre è la difesa, il diritto di contestare un addebito che funge da presupposto della custodia cautelare. Qualora si permettesse senza limiti la carcerazione preventiva essa fungerebbe da misura di sicurezza troppo estrema, in talune occasioni si potrebbero verificare delle situazioni kafkiane in cui ad esempio un individuo detenuto in base ad una mera somiglianza fisica con un terrorista non possa difendersi perché detenuto in una base situata in territorio straniero, un luogo dei non diritti e della giustizia sommaria. Una seconda, non in ordine di importanza, tutela che offre la sentenza in esame è quella del principio del contraddittorio. La giustizia è dialettica, non materiale. Le parti devono essere chiamate a contribuire alla decisione finale in una condizione, se non proprio di parità, almeno di isonomia. Ai forti poteri inquisitori delle amministrazioni militari deve corrispondere un parallelo diritto degli imputati a controbattere le accuse mosse attraverso gli istituti che il diritto ordinario mette a disposizione nel territorio americano.

 

 

5.     Il caso Salim Ahmed Hamdan

 

A differenza dei casi prima riportati la sentenza in merito al ricorso di Hamdan (sospetto autista di Bin Laden) è stata pronunciata da una Corte Distrettuale (di Washington, l’8 novembre 2004) e dunque non è munita di quel crisma di stabilità che connota invece le sentenze della Corte Suprema. Molto importanti sono le conseguenze che si possono trarre dalla decisione del giudice Robertson soprattutto alla luce di quanto sopra accennato. Dopo aver delineato i punti più controversi delle recenti leggi Bush alla luce del diritto costituzionale americano e internazionale si è visto come la Corte Suprema abbia mitigato la rigidità di tali misure speciali prevedendo che i tribunali americani hanno la giurisdizione per conoscere appelli attinenti alla detenzione di cittadini stranieri a Guantanamo, senza però delegittimare il sistema processuale delineato dalle leggi speciali stesse. Hamdan sfruttando le recenti sentenze della Corte Suprema propone un habeas corpus presso la Corte Distrettuale di Washington contestando la legittimità della Commissione Militare che dovrebbe giudicarlo a breve. Il giudice Robertson accoglie il ricorso bloccando di fatto i processi a Guantanamo che sarebbero iniziati proprio con l’imputato Hamdan. Interessante la motivazione della sentenza poiché il giudice riprende proprio le garanzie di cui alla Terza Convenzione di Ginevra circa il trattamento dei prigionieri di guerra sul presupposto che essa è un trattato self-executing e dunque immediatamente produttivo di effetti nel territorio americano a prescindere da un riconoscimento con atto interno. Innanzitutto richiama l’art. 5 prevedendo che se sussiste un dubbio circa lo status di prigioniero di guerra (i cui requisiti sono indicati dall’art. 4) devono essere comunque garantiti i diritti relativi fino a quando un tribunale competente sarà istituito per valutare nel caso concreto se sia o meno presente la qualifica di prigioniero. Si è visto sopra che la decisione di optare per lo “status” di combattente illegittimo è stata presa dall’amministrazione Bush e non da un tribunale appositamente istituito. Ecco che Robertson afferma: “the Presidenti is not a tribunal”[53] e dunque: “until or unless such a tribunal decides otherwise Hamdan has, and must be accorded, the full protections of a prisoner-of-war”[54]. Il passo successivo è chiaro: dovendosi applicare, seppur temporaneamente, le garanzie dei prigionieri di guerra è necessario che (ex art. 102) Hamdan sia giudicato secondo le norme che sarebbero applicabili ad un caso analogo in cui l’imputato sia un soldato americano. Deve avere giurisdizione una corte marziale “ordinaria”, poiché a nota del giudice “Military Commission is not such a court”[55] e devono essere applicate le norme dell’ Uniform Code of Military Justice (nonché ovviamente quelle costituzionali tra le quali in primis il diritto all’assistenza di un legale rappresentante).

I motivi di interesse a questa pronuncia stanno proprio in quel passo avanti compiuto dal giudice Robertson: partendo dalla recente posizione della Corte Suprema giunge a delegittimare le Commissioni Militari e sostanzialmente tutto il sistema sostanziale nonché processuale delineato dalle leggi speciali entrate in vigore dopo l’11 Settembre in nome della garanzia dei diritti individuali così come sanciti dalla Convenzione di Ginevra, dal diritto costituzionale americano e, come sto cercando di far emergere da un lato giusfilosofico, anche dall’interpretazione sistematica della teoria mimetica di Girard. Tutto ciò almeno fino a quando un tribunale appositamente costituito valuterà caso per caso i vari detenuti a Guantanamo optando per lo status di prigioniero di guerra o meno. Trattandosi di un’isolata decisione di un giudice ordinario non di ultima istanza dev’essere commentata con cautela proprio perché inidonea a creare un precedente vincolante. L’amministrazione americana si oppone a questa sentenza difendendo le proprie scelte in nome del diritto-dovere del Presidente di adottare ogni misura necessaria alla salvaguardia della sicurezza del paese di fronte a minacce esterne. Non ci resta che attendere la posizione della Corte Suprema in merito: se ritenga sufficiente mitigare con l’estensione di talune garanzie individuali (come il diritto alla difesa e alla conoscenza dei capi d’accusa) il sistema sostanziale e processuale delineato a partire dal Patriot Act ovvero se confermi la sentenza Robertson preferendo la tutela dell’imputato secondo il diritto internazionale all’esigenza di sicurezza interna invocata dal governo Bush.

 

 

6.     Considerazioni finali

 

Dopo aver descritto sommariamente come avrebbe dovuto funzionare il diritto di guerra con particolare attenzione ai potenziali profili di illegittimità di varie norme sia dal punto di vista del nostro diritto costituzionale, sia da quello del diritto internazionale si è rilevato come la Corte Suprema sia intervenuta per mitigare l’intero sistema preponendo le garanzie offerte dalla Costituzione americana alle leggi preventive del terrorismo. La profondità delle due decisioni riportate nonché della sentenza della Corte Distrettuale di Washington, seppur con i problemi di scarsa stabilità a cui si è accennato, è apprezzabile ancor di più tenendo conto dei ragionamenti fatti fino a questo momento sottesi sempre dal filoconduttore che ho scelto, la teoria di Renè Girard. Siamo partiti da quest’ipotesi: l’uomo è un individuo desiderante, per natura aperto ai conflitti e quindi è necessaria la presenza di uno Stato che attraverso le leggi, specialmente penali, si renda garante del diritto fondamentale a non essere vittima. Il diritto di guerra invece sembra invertire l’oggetto della tutela anteponendo gli interessi di politica criminale dello stato ai diritti individuali della persona eludendo il diritto costituzionale interno ed internazionale predisponendo misure particolarmente repressive sulla base di una mera supposizione di appartenenza a gruppi terroristici. Ma come si è visto è stata la Corte Suprema ad invertire la rotta facendo ritornare il diritto di guerra nel giusto binario garantendo il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa. Questo intervento va letto come uno spiraglio: l’organo supremo pur non delegittimando il diritto di guerra ed affermandone anzi, indirettamente, la necessità lo corregge liberandolo dalle iniquità attraverso l’estensione incondizionata dei supremi diritti garantiti dalla Costituzione. La Corte riconosce il pericolo di un meccanismo vittimario alle porte e lucidamente attua un bilanciamento garantista tra esigenze di tutela nazionale e il Diritto di qualsiasi persona a non essere trattato come capro espiatorio. Il concetto di vittima è molto ampio: sono tutelate da un lato le potenziali vittime civili di nuovi attacchi terroristi e dall’altro anche le potenziali vittime di un sistema esageratamente squilibrato verso la prevenzione tramite la repressione. Vittima può essere il cittadino americano tanto quanto il talebano autore delle stragi dell’11 settembre, vittima  potenziale è sempre la persona.

 

© Angelo Pianca 2005

per la  citazione ovvero qualsiasi altra utilizzazione del presente lavoro chiedere l’autorizzazione all’autore angelopianca@tin.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Testi citati

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-        R. GIRARD, Il Risentimento – lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999

-        M. A. CATTANEO, Persona e Stato di Diritto, G. Giappichelli Editore, Torino

-        F. MANTOVANI, Diritto Penale – parte generale, CEDAM, Padova 2001, quarta edizione

-        G. FIANDACA – G. DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale – per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene Editore, Napoli 2003

-        GRUPPO EDITORIALE ESSELIBRI-SIMONE, Codice Penale, Edizione 2003

 

Testi consultati

-     R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani,   

 

       Milano, 1965

 

-        R. GIRARD, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987

 

-   R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo,

 

  Adelphi, Milano 1983

 

-        R. GIRARD, L’antica via degli empi, Adelphi, Milano 1994

 

-        R. GIRARD, Il risentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999

 

-    M.A.CATTANEO, Terrorismo e Arbitrio – Il problema giuridico nel

 

     totalitarismo, Cedam,     Padova 1998

 

-    JEAN  BAUDRILLARD, Power Inferno - Requiem per le Twin

 

     owers. Ipotesi sul terrorismo. la violenza globale, Raffaello Cortina

 

     Editore 2003

 

 E inoltre gli appunti dalle lezioni di Filosofia del Diritto (Prof.re M.A. Cattaneo), Diritto Penale 1 (Prof.re S. Riondato), Diritto Penale Militare (Prof.re S. Riondato) ed Elementi del Processo Penale (Prof.re P.P. Paulesu).

 

Fonti su Internet citate

 

-        Intervista di Don Roberto Tagliaferro a Renè Girard     http://www.fudenji.it/pagine/Notiziario/2001v8n2/2001vol8n2%20-%20capro%20espiatorio.htm

 

-        Authorization for Use of Military Force, 14/09/2001

      http://www.ucc.org/jwm/911c.htm

 

-        Military Commission Instruction N°2, 30/04/2003

      http://www.ucc.org/jwm/911c.htm

 

-        Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, 12/08/1949

      http://www.admin.ch/ch/i/rs/0_518_42/

 

-        Caso Hamdi vs. Rumsfeld, Sentenza della Corte Suprema degli USA, 28/06/2004

http://a257.g.akamaitech.net/7/257/2422/28june20041215/www.supremecourtus.gov/opinions/03pdf/03-6696.pdf

 

-        Caso Rasul vs. Bush, Sentenza della Corte Suprema degli USA, 28/06/2004

http://a257.g.akamaitech.net/7/257/2422/28june20041215/www.supremecourtus.gov/opinions/03pdf/03-334.pdf

 

-     Link alla sentenza del giudice Robertson circa la condizione del prigioniero Hamdan

http://web.amnesty.org/library/Index/ENGAMR511572004

 

 

Fonti su Internet consultate

 

-     Differenza, identità, violenza. Conversazione con René Girard

   http://mondodomani.org/dialegesthai/sb02.htm

 

-   COV&R News and Discussion Board: »WAR Against TERRORISM«?   An Interview by Henri Tincq, Le Monde, November 6, 2001 Translated for COV&R by Jim Williams           http://theol.uibk.ac.at/cover/girard_le_monde_interview.html

 

-   Chronicles of Love and Resentment

http://www.anthropoetics.ucla.edu/views/home.html

 

GENERATIVA



[1] Rinvio alla trattazione che segue per la spiegazione del ruolo di satana nei testi girardiani.

[2] R. Girard, Il Risentimento – lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999. Introduzione a cura di Stefano Tomelleri, p. 2.

[3] R. Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004, pp. 21-22.

[4] R. Girard, Il Risentimento – lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999. Introduzione a cura di Stefano Tomelleri, pp. 3 – 4.

[5] R. Girard, ibid.,  p. 15.

[6] R.Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, tr. it. Adelphi, Milano 2001, pp.165-166.

[7] R.Girard, La violenza e il sacro, tr. it. Adelphi, Milano 1980, pp.161-162.

[8] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001, pp. 168-169.

[9] R. Girard, ibid.,  p. 169.

[10] R.Girard, ibid.,  pp.184-185.

[11] R.Girard, ibid.,  p.187.

[12] R.Girard, ibid.,  p.189.

[13] R.Girard, La vittima e la folla,  tr. it. Santi Quaranta, Treviso 2001 (edizione riveduta),  p. 143.

 

[14] Preferisco usare questo termine rispetto ad un più generico “filosofia” per le ragioni sopra viste.

[15] Mi riferisco a “La pietra dello scandalo , Adelphi, Milano 2004, testo in cui Girard fa il punto della situazione della sua ricerca trattando seppur tangenzialmente gli attuali problemi del terrorismo mondiale per verificare la tenuta della sua teoria.

[16] R. Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004, pp. 104 – 105.

[17] R. Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004, p. 45.

[18] La nozione di comune senso di umanità desta molteplici problemi di definizione giuridica, io ho usato volutamente quest’espressione radicandone l’essenza e la sistematicità alla teoria di Girard. Comune senso dell’umanità significa dunque rispetto dei diritti delle vittime potenziali di un processo vittimario, di vendetta sia della collettività (leggasi le pratiche della lapidazione), sia dello stato (leggasi la legge del taglione ovvero la stessa pena di morte).

[19] Ritroviamo questa espressione in: R. Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004, p. 59.

 

[20] R. Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004, p. 58.

 

[21] R. Girard, ibid., p. 61.

 

[22] R.Girard, Vedo Satana cadere come la folgore,  tr. it. Adelphi, Milano 2001, pp.217-218.

[23] R.Girard, La violenza e il sacro, tr. it. Adelphi, Milano 1980, p. 31.

[24] Autore considerato il discepolo di Girard per eccellenza. Vicino da anni al maestro francese ne ha curato le edizioni italiane di recenti successi trai quali la raccolta di brani “La vittima e la folla” edita da Santi Quaranta.

[25] R.Girard, La vittima e la folla,  tr. it. Santi Quaranta, Treviso 2001 (edizione riveduta),  introduzione a cura di Giuseppe Fornari, p.11.

[26] M.A. Cattaneo, Persona e Stato di Diritto, Giappichelli Editore, Torino, p. 30.

[27] M.A. Cattaneo, ibid., p. 31.

[28] M.A. Cattaneo, ibid., pp. 34-35.

[29] M.A. Cattaneo, ibid., p. 22.

[30] Cfr. pp. 35-42.

[31] Renè Girard, tratto da un’intervista di Don Roberto Tagliaferro al professore reperibile al sito web http://www.fudenji.it/pagine/Notiziario/2001v8n2/2001vol8n2%20-%20capro%20espiatorio.htm.

Mi sembra d’obbligo specificare che laddove Girard parla di giustizia come vendetta imperfetta intende l’effetto della sentenza che si sostituisce alla violenza privata (vendetta in senso stretto) tutelando un bene giuridico violato da parte di un colpevole. Ciò non significa sostenere la finalità retributiva della pena, Girard si ferma prima analizzando non già la pena ma il significato dell’atto magistratuale che ricompone la lite riconoscendo un torto subito rendendo impossibile una vendetta privata vera e propria. Se la pena fosse intesa come vendetta dello Stato contro la violazione dell’ordine precostituito ciò significherebbe porre in primo piano non già gli interessi della comunità scossa da una crisi criminosa, gli interessi della parte offesa e della vittima del reato, bensì  l’interesse dello Stato fine a se stesso ed estraneo dalla funzione di Stato per eccellenza ossia la tutela del diritto a non essere vittime.

[32] Renè Girard, tratto da un’intervista di Don Roberto Tagliaferro al professore reperibile al sito web http://www.fudenji.it/pagine/Notiziario/2001v8n2/2001vol8n2%20-%20capro%20espiatorio.htm.

 

[33] Art. 2 co. 1 c.p.

[34] F.Mantovani, Dirippo Penale-parte generale, Cedamn 2001, pp. 369-371.

[35] Contraria gran parte della dottrina tra cui Riondato e Riz secondo i quali la preterintenzione consisterebbe in dolo misto a responsabilità oggettiva.

[36] Tra cui ad esempio le ipotesi di abberatio agli art. 82 e 83 c.p. o gli art. 116 – 117 – 586 c.p. nonché altre ipotesi presenti nelle legislazioni speciali.

[37] “La punibilità è altresì esclusa quando, per inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.

[38] Fiandaca-Di Chiara, Una introduzione al sistema penale - per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene Editore Napoli 2003, p. 189.

[39] Fiandaca-Di Chiara, ibid. Jovene Editore Napoli 2003, p.190.

 

[40] Fiandaca-Di Chiara, ibid., Jovene Editore Napoli 2003, pp. 190-191.

 

[41] In questo senso anche F. Mantovani, Diritto Penale – Parte generale, Cedam, Padova 2001,  p. 431.

[42] F. Mantovani, Diritto Penale – Parte generale, Cedam, Padova 2001,  p. 431.

[43] “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”.

[44] “Concetto elaborato dalla teologia morale per inquadrare le ipotesi in cui, pur mancando la libera volontà nel momento dell’atto esteriore, il peccato sussiste egualmente in quanto può essere riportato ad un precedente atto libero del volere”. F. Mantovani, Diritto PenaleParte generale, Cedam, Padova 2001,  p. 688.

[45] On Friday, September 14, the Senate unanimously passed S.J. Resolution 23, authorizing the President "to use all necessary and appropriate force against those nations, organizations, or persons he determines planned, authorized, committed, or aided the terrorist attacks that occurred on September 11, 2001, or harbored such organizations or persons, in order to prevent any future acts of international terrorism against the United States by such nations, organizations or persons".

Tratto dal sito web http://www.ucc.org/jwm/911c.htm.

[46] E’ ampliata la fattispecie del reato di terrorismo estendendo la responsabilità a titolo di concorso anche a coloro che si limitano a dare pareri tecnici atti a facilitare il compimento di atti terroristici (ad es. Istruzioni su come costruire una bomba) e sono ampliate le possibilità di effettuare intercettazioni delle conversazioni tra avvocato e assistito.

[47] Documento reperibile su internet a questo indirizzo: http://www.dtic.mil/whs/directives/corres/mco/mci2.pdf.

[48] Military Commission Instruction n° 2 sezione 3 lettera A. Documento reperibile su internet all’indirizzo http://www.dtic.mil/whs/directives/corres/mco/mci2.pdf.

[49] “General Intent. All actions taken by the Accused that are necessari for completino of a crime must be performed with general intent”. Tratto dalla Military Commission Intruction n° 2 sezione 4 lettera A reperibile al link di cui alla nota precedente.

[50] Art 102:  “A prisoner of war can be validly sentenced only if the sentence has been pronounced by the same courts according to the same procedure as in the case of members of the armed forces of the Detaining Power (…)”.

[51] art. 5: “(…)Should any doubt arise as to whether persons, having committed a belligerent act and having fallen into the hands of the enemy, belong to any of the categories enumerated in Article 4, such persons shall enjoy the protection of the present Convention until such time as their status has been determined by a competent tribunal”.

 

[52] Questo per evitare problemi di legittimità della detenzione di un cittadino a Guantanamo posto che le leggi speciali hanno come destinatari i non cittadini implicati nella lotta al terrorismo. Si è comunque cercato di estendere la portata dell’atto in questione.

[53] http://web.amnesty.org/library/Index/ENGAMR511572004.

[54] Ibid.

[55] Ibid.