EROS, O IL DESIDERIO SENZA FINE

(Platonismo, druidismo, manicheismo.)

Denis de Rougemont

Da L'Amore e l'Occidente, tr. L. Santucci, Rizzoli, Milano 1977

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Platone ci parla in Fedro e nel Simposio d'un furore che va dal corpo all'anima, per conturbarla di maligni umori. Non è questo l'amore ch'egli loda; sibbene altra specie di furore, o di delirio, che non si genera senza l'intervento di qualche divinità né si crea nell'anima dal nostro intimo: è un'ispirazione del tutto esterna, un richiamo che agisce dal di fuori, un venir portati via, un arcano furto della ragione e del senso naturale. Lo si chiamerà dunque entusiasmo, il che significa "indiamento ", perché questo delirio procede dalla divinità e porta il nostro slancio verso Dio.

Tale è l'amore platonico: "delirio divino", trasporto dell'anima, follia e suprema ragione. E l'amante è vicino all'essere amato " come in cielo ", poiché l'amore è la via che sale per gradi d'estasi verso l'origine unica di tutto ciò che esiste, lontano dai corpi e dalla materia, lontano da ciò che divide e distingue, oltre l'infelicità d'esser se stessi e d'esser due nell'amore stesso.

L'Eros è il Desiderio totale, è l'Aspirazione luminosa, lo slancio religioso originale portato alla sua più alta potenza, all'estrema esigenza di purezza che è l'estrema esigenza di Unità. Ma l'unità ultima è negazione dell'essere attuale, nella sua sofferente molteplicità. Così lo slancio supremo del desiderio sfocia in ciò che è non-desiderio. La dialettica di Eros introduce nella vita qualcosa di affatto estraneo ai ritmi dell'attrazione sessuale: un desiderio che non si estingue più, che più nulla può soddisfare, che respinge e fugge persino la tentazione di realizzarsi nel mondo, perché non vuol abbracciare che il Tutto. E' il superamento infnito, l'ascensione dell'uomo verso il suo dio. Ed è un movimento senza ritorno.

Le origini iraniane e orfiche del platonismo sono ancora mal note ma certe. E attraverso Plotino e l'Areopagita, questa dottrina si è tramandata al mondo medioevale. Per tal modo l'Oriente venne a sognare nella nostra vita, risvegliando antichissimi ricordi.

E ciò accadde perché dal fondo del nostro Occidente, la voce dei bardi celtici gli rispondeva. Non so se fosse un' eco, o un'armonia ancestrale (tutte le nostre stirpi son venute dal Vicino Oriente) o semplicemente perché in tutti i luoghi e in tutti i tempi la natura umana è portata a divinizzare il suo Desiderio in forme sempre simiglianti. Non so quanto valga l'ipotesi che assimila fin nelle più sfumate particolarità i più vecchi miti celtici a quelli greci (la ricerca del Graal a quella del Vello d'oro, e la dottrina di Pitagora sulla trasmigrazione delle anime a quella dei Druidi sull'immortalità). La mitologia comparata sarebbe la più insidiosa delle scienze, se prescindesse dall'etimologia (da cui spessissimo la prima deriva): tanto l'una che l'altra son continuamente alla mercé dei più seducenti giuochi di parole... Comunque, certe convergenze generali riemergono da recenti lavori, corroborando l'ipotesi d'una comune origine delle credenze religiose in Oriente e in Occidente.

Ben prima di Roma, i Celti avevano conquistato una gran parte dell'Europa attuale. Venuti dal sud-ovest della Germania e dal nord-est della Francia, avevano saccheggiato Roma e Delfo, e sottomesso tutti i popoli, dall'Atlantico al mar Nero. Si spinsero fin'anco in Ucraina e in Asia Minore (Galati), prefigurando abbastanza esattamente l'estensione dell'Impero romano.

Tuttavia i Celti non erano una nazione. Altra " unità "non avevano se non quella d'una civiltà, il cui principio spirituale era conservato dal collegio sacerdotale dei druidi. Questo collegio, a sua volta, non era affatto l'emanazione di piccoli popoli o tribù, ma " un'istituzione in qualche modo internazionale", comune a tutti i popoli d'origine celtica, dai limiti della Bretagna e dell'Irlanda fino in Italia e in Asia Minore. I viaggi e gl'incontri dei druidi " cementavano l'unione dei popoli celtici e il sentimento della loro parentela ". I druidi formavano delle confraternite religiose dotate di poteri molto estesi. Erano al tempo stesso indovini, maghi, medici, preti, professori. Non scrivevano libri, ma impartivano un insegnamento orale, in versi gnomici, a discepoli che tenevan presso di loro per vent' anni.

(Si è voluto confrontare questo collegio sacerdotale con istituzioni perfettamente identiche presso gli altri popoli indo-europei: maghi iranici, bramini dell'India, pontefici e fiamini di Roma. Il flamine porta, del resto, lo stesso nome del bramino.)

E certo che i Celti credevano a una vita dopo la morte. Vita avventurosa, molto simile a quella terrestre, ma purificata, e dalla quale certi eroi potevan ritornare, sotto altri nomi, mescolandosi ai vivi. Per questa dottrina centrale della sopravvivenza, i Celti s'apparentano ai Greci. Ma ogni dottrina dell'immortalità suppone una concezione tragica della morte. I Celti, scrive Hubert, "hanno certamente coltivato la metafisica della morte... Han molto sognato sulla morte. Era una compagna familiare di cui è piaciuto loro dissimulare il carattere inquietante ". Del pari, nella loro mitologia, " l'idea di morte domina su tutto, e tutto la scopre ". E ciò ci induce ad accostamenti molto precisi con quanto s'è detto più sopra del mito di Tristano, che vela ed esprime a un tempo il desiderio di morte.

D'altra parte, gli dèi celtici formano due categorie opposte: dèi luminosi e dèi oscuri. Ci preme di sottolineare questo aspetto del fondamentale dualismo della religione dei druidi. Qui infatti si disvela la convergenza dei miti iranici, gnostici, e induisti con la religione fondamentale dell'Europa. Dall'India alle rive dell'Atlantico, noi ritroviamo espresso, nelle più diverse forme, questo stesso mistero del Giorno e della Notte, e della loro lotta mortale nell'uomo. Un dio di Luce increata, extra-temporale, e un dio di Tenebra, autore del male, dominano tutta la Creazione visibile. Alcuni secoli prima dell'apparizione del Mani, si può scoprire la stessa opposizione nelle mitologie indo-europee. Dèi luminosi: l'Ahura-Mazda (o Ormuzd) degli Iranici, l'Apollo greco, l'Abelione celto-iberica. Dèi oscuri: il Dyaus Pitar indù, l'Ahrriman iranico, il Giove latino, il Dispater gallico...

Parecchi altri accostamenti ci tentano, dei quali uno almeno interessa direttamente l'oggetto di questo libro: la concezione della donna presso i Celti non è priva di riferimenti con la dialettica platonica dell'Amore.

Agli occhi dei druidi la donna passa per un essere divino e profetico. E' la Velleda dei Martyrs, il fantasma luminoso che appare agli occhi del generale romano smarrito nelle sue fantasticherie notturne: " Sai che sono una fata? " ella dice. Eros ha preso le sembianze della Donna, simbolo dell'al di là e di quella nostalgia che ci fa disprezzare le gioie terrestri. Ma simbolo equivoco, dal momento che tende a confondere il richiamo del sesso e il Desiderio senza fine. L'Essylt delle leggende sacre, " oggetto di contemplazione, spettacolo misterioso ", era l'invito a desiderare ciò che sta al di là delle forme incarnate: essa è bella e desiderabile in sé... e tuttavia la sua natura è fugace. " L'eterno femminino ci trascina " dirà Goethe. E Novalis: " La donna è lo scopo dell'uomo ".

Così l'aspirazione verso la Luce prende per simbolo il notturno attrarsi dei sessi. Il gran Giorno increato, agli occhi della carne altro non è che la Notte. Ma il nostro giorno, agli occhi del dio che dimora oltre le stelle, è il regno di Dispater, il padre delle Ombre. E così pure il Tristano di Wagner vuol perire, ma per rinascere in un cielo di Luce. La " Notte " ch'egli canta è il Giorno increato. E la sua passione è il culto di Eros, il Desiderio che disprezza Venere, anche quando patisce voluttà, anche quando crede di amare un essere...

Si parla troppo di nirvana e di buddismo a proposito dell'opera wagneriana. Come se il fondo pagano dell'Occidente non avesse potuto fornire al magico gli elementi più attivi del suo filtro! Colpisce, d'altra parte, il constatare quanto il celtismo originale dell'Europa sia sopravvissuto alla conquista romana e alle invasioni germaniche.

" I Gallo-Romani sono rimasti per la maggior parte dei Celti travestiti. Così come, dopo le invasioni germaniche, si videro riapparire in Gallia mode e gusti che erano stati quelli dei Celti. " [ HUBERT, op. cit., I, p. 20. E del pari, gli dèi galli prendono nomi latini senza assumere alcuna trasformazione.]

L'arte romanza e le lingue romanze attestano l'importanza dell'eredità celtica. Più tardi, furono dei monaci d'Irlanda e di Bretagna, ultimi depositari delle leggende barde conservate appunto dai chierici, che evangelizzarono l'Europa, e la richiamarono al culto delle lettere. E ciò ci conduce ai margini dell'epoca in cui si formò il nostro mito...

Ma meno lontana da noi di Platone e dei druidi, una sorta d'unità mistica del mondo indo-europeo si disegna come in trasparenza sullo sfondo delle eresie del medio evo. Se abbracciamo il territorio geografico e storico che va dall'India alla Bretagna, constatiamo che dal terzo secolo dell'èra nostra si è diffusa, sia pure in una forma sotterranea, una religione che sincretizza l'insieme dei miti del Giorno e della Notte come erano stati elaborati dapprima in Persia, poi nelle sette gnostiche e orfiche: è la fede manicheista.

Le difficoltà stesse che s'incontrano ai giorni nostri a definire questa religione, non mancano di ammaestrarci sulla profondità della sua natura e sulla sua portata umana.

Dapprima fu dovunque perseguitata con inaudita violenza dai governi o dalle ortodossie. Si volle vedere in essa la peggiore minaccia alla società. I suoi fedeli furon massacrati, dispersi e bruciati i loro scritti. Tanto che le testimonianze sulle quali ci si è basati fino ad oggi provengono quasi esclusivamente dai suoi avversari. In seguito, sembra che la dottrina di Mani (ch'era originaria dell'Iran) abbia assunto, a seconda dei popoli e delle loro credenze, forme assai diverse, sia cristiane sia buddistiche o musulmane. In un inno manicheo recentemente trovato e tradotto sono invocati e lodati successivamente Gesù, Mani, Ormuzd, Sakyamouni, e da ultimo Zarhust (Zarathustra o Zoroastro). Inoltre ci è lecito pensare che le sopravvivenze celtiche nel Mezzogiorno della Linguadoca abbiano offerto a certe sette manichee un terreno particolarmente favorevole.

Per gli sviluppi che seguiranno, due fatti soprattutto devono esser tenuti presenti:

1. Il dogma fondamentale di tutte le sette manichee, è la natura divina o angelica dell'anima, prigioniera di forme create e della notte della materia.

Generato dalla luce e dagli dèi

Eccomi in esilio e separato da essi.

Io sono un dio e nato dagli dèi

Ma adesso ridotto a soffrire.

Così' piange l'Io spirituale d'un discepolo del salvatore Mani, nell'inno del Destino dell'Anima.

Lo slancio dell'anima verso la Luce non manca di evocare da una parte la " reminiscenza del Bello" onde parlano i dialoghi platonici, e dall'altra la nostalgia dell'eroe celtico ridisceso dal Cielo sulla terra, che si rammemora dell'isola degli immortali. Ma questo slancio è continuamente impedito dalla gelosia di Venere (Contrasto nel primo inno citato) che vuol trattenere nell'oscura materia l'amante in preda al luminoso Desiderio. È questa la lotta fra l'amore sessuale e l'Amore: esso esprime la fondamentale angoscia degli angeli precipitati in corpi troppo umani...

2. È per noi molto importante e significativo rilevare, sulla scorta d'una pubblicazione del 1937 [Henry Corbin, Pour l'hymnologie manichéenne, Yggdrasil, 25 agosto 1937] che la struttura della fede manichea " è essenzialmente lirica ". Che, in altri termini, è proprio dell'intima natura di questa fede il rifiutarsi a qualsiasi esposizione razionalista, impersonale e " obbiettiva ". Essa non si realizza, in effetti, che in un' esperienza al tempo stesso angosciata ed entusiasmante (nel senso letterale del termine), d'ordine essenzialmente poetico. La " verità " della cosmogonia e della teogonia appare, e si configura esclusivamente nella certezza attestata nel recitativo del " salmo ".

Come non pensare al segreto di Tristano, che egli non può " dire " ma può soltanto cantare?...

Ogni concezione dualista, manicheista, vede nella vita del corpo l'infelicità stessa; e nella morte il bene ultimo, il riscatto dalla colpa di esser nati, la reintegrazione nell'Uno e nel luminoso indistinto. Di quaggiù, attraverso un'ascensione graduale, attraverso la morte progressiva e volontaria rappresentata dall'ascesi (aspetto negativo dell'illuminazione), noi possiamo salire fino ad attingere la Luce. Ma il fine dello spirito, il suo scopo, è anche la fine della vita limitata, ottenebrata dalla molteplicità immediata. Eros, nostro supremo Desiderio, esalta i desideri solo per sacrificarli. Il compimento dell'Amore nega ogni amore terrestre. E la sua felicità nega ogni terrestre felicità. Considerato dal punto di vista della vita, un Amore cosiffatto non può essere che una totale infelicità.

Questo è il grande sfondo del paganesimo orientale e occidentale sul quale si stacca il nostro mito.

Ma da che dipende ch'esso se ne sia, appunto, " staccato "? Quale minaccia, quale divieto ha costretto la dottrina a velarsi, a non confessarsi che per mezzo di simboli ingannatori, sedurci soltanto attraverso il fascino e l'incanto segreto d'un mito?