Divenire nulla

Una spina nella letteratura occidentale

parte seconda

 Fabio Brotto  

brottof@libero.it

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La Modernità sarebbe andata ben oltre la soglia del nichilismo proprio della cultura romantica, in cui "anche dove gli esiti artistici si rivelano più legati a una dimensione nichilistica, la maggior parte degli scrittori ... sembra continuare a muoversi nell'ambito di una poetica (e di un'estetica) della trasfigurazione". [40] Secondo Luciano Zagari la Morte di Danton di Georg Büchner è il testo in cui per la prima volta si esibisce il crollo del Valore fondativo, crollo così totale che "il nulla è così radicale da capovolgersi e porsi come pieno [c. mio]". [41] Il nulla è solido (Leopardi) e sta (Celan). "Là dove l'assurdo non è più limitato all'approccio del soggetto al Valore ma intacca la struttura oggettiva del Valore stesso, là si può dire che il romanticismo è alla fine e si annunzia la più radicale crisi dei nostri giorni". [42]

 


La radicale crisi dei nostri giorni: ciò non si preannuncia forse già nei Notturni di Bonaventura, in cui il sarcasmo che ridicolizza il grande tema romantico della perdita per sempre, [43] proprio nella sua essenza di "fondale scenico" (Chiusano), sembra anticipare quella spettacolarizzazione che è una caratteristica fondamentale di certo nichilismo diffuso del Novecento? Nella conclusione del fantasmagorico sedicesimo Notturno anche i sentimenti hic et nunc provati dal soggetto narrante sono avvertiti come "forme del Nulla come ogni cosa". [44] E la teatrale conclusione dell'opera è questa: "Al tocco delle mie dita tutto frana in cenere, non giace più che un pugno di polvere sulla terra, un paio di vermi satolli se ne strisciano via di soppiatto, come morali oratori funebri che si siano troppo inteneriti al banchetto funerario. Semino questo pugno di polvere paterna negli spazi e cosa rimane? ... Nulla!"[45]

"Lontano, sulla tomba dell'amata, scorgo ancora il visionario che abbraccia il nulla!"

"E l'eco dilegua per l'ossario l'ultima parola: nulla!".

 


Qualcosa di paragonabile non avviene già nel poeta persiano Omar Khayyam (sec. XI - XII), essendo polvere e vuoto la prospettiva finale di ogni malinconia del divenire? Dice la quartina 29:

 

Poi che vacuo vento ci resta di ogni cosa ch'esiste,

Poi che difetto e sconfitta colgono al fine ogni cosa,

Considera bene: ogni cosa che è, è in realtà nulla;

Medita bene: ogni cosa ch'è nulla, è in realtà tutto. [46]

 

Come in Leopardi, [47] la spina del divenire è resa acuminata in Khayyam dall'esperienza del passare della bellezza giovanile, del suo annientamento. Ad esempio, nella quartina 51 si legge:

Ogni erba che cresce gioiosa in riva al ruscello,

Diresti, è peluria spuntata da angeliche labbra.

Attento, il piede non porre sopra quell'erba a disprezzo:

E' nata quell'erba da tombe di belle dal volto di fiore. [48]

 


 

E per fare un ulteriore salto, ma verso il nostro tempo, anche in G. Trakl (1887 - 1914) è presente lo stretto nesso tra l'abbattimento della bellezza innocente e speranzosa e la perdita del Senso. In De profundis [49] come silenzio di Dio e come eclissi della luce, che non può più promanare dalla parola poetica. 

Ein Schatten bin ich ferne finsteren Dorfen

Gottes Schweigen

Trank ich aus dem Brunnen des Hains.

Auf meine Stirne tritt kaltes Metall.

Spinnen suchen mein Herz.

Es ist ein Licht, das in meinem Mund erloscht.

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Un’ombra io sono lontano da tetri villaggi.

Dalla fonte silvana

Ho bevuto il silenzio di Dio.

Sulla mia fronte si posa freddo metallo.

Ragni mi frugano il cuore.

C’è un lume che nella mia bocca si spegne.  

 


Ed è evidente, anche nella poesia così remota del Persiano, il rapporto inevitabile tra l'assunzione come orizzonte totale dell'annientante divenire e la crisi radicale di ogni Verità, di ogni Sapienza. Si legge infatti, ad esempio, nella quartina 34:

 

Il cerchio che tutto compone il nostro Andare e Venire

Non si vede dove cominci, né dove abbia la fine.

Non un solo verbo di Vero, su questo, disse nessuno:

Nessuno sa donde sia il Venir nostro, dove l'Andare.[50]

 


E' forse nel primo testo occidentale che narra il Fallimento, l'Epopea di Gilgamesh, [51] sempre presente a Elias Canetti , che appare la piena coscienza dell'orrore che agli occhi dell'uomo è portato dall'annientante divenire, di cui costituisce, in verità, l'essenza. Proprio nella forma dell'orrore si manifesta la percezione dell’irrevocabile perdita, quando l'eroe Gilgamesh, che non si è rassegnato alla morte dell'amico Enkidu, e ne ha vegliato insonne il cadavere, scorge vermi scendere dal naso di lui.

Ma la conseguente via fallimentare dell'eroe sumerico all'immortalità è pur una, come quella, coronata dal successo, di Dante, mentre il moderno sperimenta fin dall'inizio l'aporia non come il venir meno dell'unica strada al Vero, ma come eccesso di strade, o labirinto, come scrive con mirabile chiaroveggenza Ugo Foscolo, sotto specie di Didimo Chierico: "Che la gran valle della vita è intersecata da molte viottole tortuosissime; e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vive e muore perplesso, né arriva mai a un luogo dove tutti quei sentieri conducono l'uomo a vivere in pace seco e con gli altri. Non trattasi di sapere quale sia la vera via; bensì di tenere per vera [c. mio] una sola, e andar sempre innanzi". [54] Il soggettivismo relativistico della Modernità si esprime qui nella arbitraria elezione di una via tra le molte che presentano lo stesso grado di verità. Cioè nessuno. Il venir meno del Libro apre la strada ad una sconfinata moltitudine di libri, Biblioteca di Babele fondamentalmente insensata, in quanto non è miniera di frammenti dell'unica Verità, appropriabile dunque pur se in minima parte dal singolo uomo, ma caotico ammassamento di infinite verità: e parziali e contrastanti fra loro. E quando il suo sapere particolare e ben ordinato, come in cristalli collezionati, e perciò separato dal flusso della vita e dalla sua sapienza, cozza contro il novum di un'apertura non prevista dell'esistenza, il dotto contemporaneo vede divampare intorno a sé il fuoco divoratore che annichila lui e il suo sapere. Come accade del protagonista dell'unico romanzo di Canetti, che brucia con la sua immensa biblioteca di erudito. [55] 


 

Il pluralismo agonistico delle verità e la mai sopita fame di assoluto tracciano i contorni della poesia della Modernità, in cui il rapporto alla Verità è sofferto, negato, discusso. [56] A partire da Baudelaire, che in alcune occasioni sostenne il divorzio della poesia dalla scienza e dalla filosofia, e il suo chiudersi in se stessa, in altre lo contraddisse con estrema lucidità, come in L'Ecole paienne, [57] dove si legge: "La passione frenetica per l'arte è un cancro che divora il resto; e siccome l'assenza completa del giusto e del vero in arte equivale all'assenza dell'arte, l'uomo intero svanisce; l'eccessiva specializzazione di una sola facoltà approda al nulla [c. mio]".

 


 Nella sua densa opera La vita della mente [58] Hannah Arendt ammonisce a non sottovalutare gli aspetti pericolosi del pensare come strenua ricerca del significato "che implacabilmente dissolve e riesamina sempre di nuovo tutte le dottrine e le regole accettate" . Una ricerca siffatta "può in ogni momento rivolgersi contro se stessa, produrre un rovesciamento dei vecchi valori...". Con risultati sostanzialmente nichilistici. Il nichilismo comunemente inteso "costituisce in realtà un pericolo inerente all'attività stessa del pensare", poiché "il pensiero è ugualmente pericoloso per tutti i credi e, quanto a sé, non ne partorisce di nuovi". [59]

Leopardi sa che non si può pensare e insieme essere nuovi credenti. Poiché chi pensa può pensare solo l'annientante divenire, ogni pensare sfocia nella melanconia, tanto più profonda quanto più il pensiero e l'uomo che lo pensa si avvicinano al sublime.


Come scrive Kant nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, il melanconico "non di rado avverte il tedio di sé e del mondo". [60] Canetti riporta questo passo di una biografia islamica di Platone: "Amava star solo in solitari luoghi campestri. Dove fosse, il più delle volte lo si poteva capire udendolo piangere. Quando piangeva, lo si poteva udire in deserte contrade di campagna a due miglia di distanza. Piangeva a dirotto". [61]

 


Solo l'allontanamento dalla vita, l'assopirsi del pensiero nel sogno profondo, la negazione mortale del divenire - scrive Hermann Hesse nella sua poesia Arrivo a Venezia - fermano il tempo. [62]

 Von tiefem Traum besiegt

Vom Tode eingewiegt

Schlaft hier die Zeit

Und alles Leben scheint so weit, so weit!

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Posseduto da un sogno profondo,

assopito dalla morte

qui dorme il tempo

e lontana sembra essere la vita, tanto lontana!

 


 

Tutti i problemi si riducono al tempo, scrive in una sua nota Simone Weil. [63]

Nel suo poderoso tentativo di costruzione dei fondamenti di una teologia filosofica, [64] in cui, secondo una ben nota tendenza della filosofia occidentale, la di tutte le teologie filosofiche, da Platone ad Heidegger pars destruens, eccede di gran lunga il discorso positivo, Wilhelm Weischedel distingue un nichilismo ontologico da un nichilismo noologico. [65] Il primo, che scaturisce dalla polemica di Jacobi e dalla visione di Fichte, approda alla completa negazione di ogni realtà. Tutto ha realtà solo nell’Io, ma l’Io stesso si rivela incapace di auto-afferrarsi, si dilegua nelle sue proprie mani, si riduce ad un puro nulla. Il mondo è nulla, l’Io è nulla. L’unica realtà infine è il nulla. Il nichilismo noologico, tentazione di ogni pensante, è l’affermazione dell’assoluta assenza del senso, che investe anche i concreti rapporti della vita. Le domande del tipo che senso ha la vita? Trovano nel nichilismo noologico una risposta di carattere dogmatico: non c’è alcun senso, ultima realtà è il non senso. Unica risposta valida alle questioni poste dal nichilismo, che accampa diritti a buona ragione, secondo Weischedel è l’affermazione del carattere radicalmente problematico della realtà.

E’ proprio nel concetto di realtà, tuttavia, che Weischedel incontra difficoltà molto gravi. Dopo aver definito reale ciò che viene esperito come autonomamente efficace, egli scrive: " Può allora essere che per qualcuno risulti vera e reale una cosa, per un altro un’altra. Questo è il punto cruciale nel problema della fondazione di verità e realtà. Ci si può togliere da questo imbarazzo solo discutendo assieme la verità e la realtà dell’oggetto o dell’idea di volta in volta in questione. Questo però non è un rimedio per tutti i mali. Può essere che nel dialogo si pervenga ad un accordo su ciò che autonomamente assale chi discute; allora la comune convinzione di verità e realtà viene raggiunta. Però può anche succedere che non ci si metta d’accordo; allora ciascuno deve seguire la propria verità, perché essa gli si offre irrefutabilmente come esperienza di realtà inattaccabile; si deve allora accettare anche il dolore della separazione e sopportare lo smembramento di verità e realtà". [66] Questo è bello e democratico. Ma non c’è qui un’aporia? Non si cade nel soggettivismo? Non è sempre la posizione di Didimo Chierico? Le passate interpretazioni del Dio dei filosofi sono tramontate, scrive Weischedel, [67] che propone la sua. Ma: la coscienza che la sua è una interpretazione che solo (e con che fondamento?) può sperare di non tramontare, non la mina dall’interno, associandola all’universale passare di tutte le cose, alla distruttività del divenire? Del resto egli stesso nota come la questione dell’eternità o temporalità di Dio debba rimanere aperta, in quanto in tutta la tradizione filosofica è rimasta irrisolta la questione di una provenienza della temporalità dall’eterno.

 


 La melanconia gioca col tempo dell'uomo di cui si è impadronita, e gli fa contemplare la scena futura che non vedrà mai con gli occhi del corpo, quella del proprio sepolcro. Da Properzio a Petrarca, da Leopardi a Sbarbaro si può verificare la stretta associazione del sentimento del divenire con l'idea della propria tomba, e del sonno col nulla. Ad esempio, scrive Sbarbaro in Pianissimo:

 

Vieni consolatrice degli afflitti.

Abolisci per me lo spazio e il tempo

e nel nulla dissolvi questo io.

...

Quando si dorme non si sa più nulla. [68]

E scrive ancora:

... E penso la mia morte

e vedo me già steso nella bara

troppo stretta fantoccio inanimato...

Quant'albe nasceranno ancora al mondo

dopo di noi!

Di ciò che abbiam sofferto

di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore

non rimarrà il più piccolo ricordo. [69]

 

 


La melanconia, come mostra Claudio Magris ne L'anello di Clarisse, è coessenziale al Moderno in quanto ha perduto l'Orizzonte di senso. "La temporalità divora e dissipa l'individualità; l'ateismo è anche l'impossibilità di quella che Kierkegaard chiamava la ‘ripresa’ ossia la rivelazione della vittoria religiosa sul tempo, del riscatto religioso della finitezza". [70] Per Magris "Il futuro di cui parlano con angoscia Jacobsen e Michelstaedter - e con essi tante voci della civiltà contemporanea - rappresenta invece il trionfo del tempo, la temporalità elevata al quadrato, l'inesistenza della vita, che non è mai e soltanto attende di essere, annientandosi in questa attesa mai soddisfatta e sempre differita (...) Nella corsa verso il futuro la vita passa dal nulla al nulla, dalla continua condizione di non essere ancora alla continua condizione di non essere più". [71] Ma il trionfo del tempo e l’angoscia che ne è generata trovano uno speculare riflesso in una fortissima tendenza alla negazione del tempo stesso. Il tossicomane si offre a ciò che lo strappa al sentimento della propria mortalità. Si tratta di un sostituto della trascendenza, di cui la vita è stata privata. [72]

 


 

SEGNI DAL NULLA

 

 Sapienza di Sileno.

L'Ulisse di G. Pascoli, protagonista di un Ultimo viaggio [73] che lo riporta ai luoghi delle grandiose avventure narrate da Omero, e che nulla ritrova se non la perdita del Mito e del Senso, perde infine anche la vita. Tra le braccia di Calipso finisce. Dalla bocca della Dea escono queste parole, con le quali si conclude il poema:

 

- Non esser mai! non esser mai! più nulla

ma meno morte, che non esser più -

 


Quanto più nel corso del Novecento sono emarginate, quanto meno numerosi sono i loro lettori, tanto teologia e poesia più sentono il loro reciproco fascino di derelitte. "L’io è segnato dalla necessità di portare una domanda che ottiene come risposta soltanto il vuoto" scrive Heinrich Ott, [74] delineando all’interno del proprio discorso teologico la posizione del senso tragico (sostanzialmente nichilista) di Gottfried Benn, e riportandone una poesia di grande spessore intellettuale e poetico.

 

Due cose soltanto

Passato attraverso tante forme,

attraverso l’io e il noi e il tu,

tutto è però rimasto scavato

dall’eterna domanda: perché?

Una domanda da bambino.

Soltanto tardi hai imparato

Che c’è una sola cosa:

sia esso senso o anelito o leggenda,

sopporta quel destino

che viene da lontano:Tu devi.

Rose neve mari

Tutto ciò che è fiorito appassì;

due cose soltanto vi sono:

il vuoto e l’io segnato. [75]

 


Il Nulla è stato assai loquace, negli ultimi due secoli di letteratura. Di questa loquacità, e dei sensati discorsi di ogni genere - letterario e non - argomentanti la non sensatezza del tutto, si scorge anche in queste poche pagine tutto il vigore.

Come risposta alle molte parole del Nulla, forse, l'unica parola oggi possibile per noi, ambigui amanti dell’Essere, dovrebbe sottrarsi al vaniloquio dell'ottimismo positivo, che necessariamente confluisce nell’accettazione dei valori della tecnica scatenata e dominante, e che quindi del nichilismo è la falsa alternativa, sempre insieme vincente e sconfitta. Dovrebbe aprirsi ad un silenzio duro, e solido come il nulla che sta. Mi piace intravedere un barlume di questa parola nella poesia di Yves Bonnefoy La voce di quel che distrusse : [76]

 

La voce di quel che distrusse

Risuona ancora nell'albero di pietra,

Il passo sulla porta di sempre

Può ancora rifiutare la notte.

Donde viene l'Edipo che passa?

Eppure ha vinto.

Una saggezza immobile

Di fronte a lui si è prostrata.

La sfinge che tace permane

Nelle sabbie dell'Idea

La sfinge che parla si deforma

All'informe Edipo consegnata.

 

Forse perché "il filosofo è come Edipo: sta sull’orlo dell’abisso del nulla, cercando continuamente segni che possano trasformare questo nulla in sapere"(Franco Rella). [77]

 


Ma il silenzio non è meno ambiguo della parola. Poiché esso può essere il portavoce del nulla. Così André Neher intitola un passaggio del suo libro L’esilio della parola. [78] L’Essere, secondo Neher, può all’improvviso ricordarsi della sua originaria parentela col Nulla, e allora appare "il Silenzio - il grande solenne silenzio-inerzia - non come una passeggera sospensione della parola, ma come il portavoce dell’invincibile nulla. Allora il Silenzio sostituisce la Parola, perché il Nulla è ridiventato il luogo-tenente dell’Essere". [79]

 


 

Il Novecento ha visto, nelle sue forme poetiche più intense ed eroiche, alcuni tentativi estremi di superamento dell’angoscia del divenire. Esemplare e forse supremo quello di Rainer M. Rilke nei suoi Sonetti a Orfeo: stupendi bagliori emananti da un comando non fondabile, che ci richiama a Nietzsche e Michelstaedter: Wolle die Wandlung!

 

Sii prima d’ogni addio, come fosse già dietro

di te, come l’inverno, che già ora finisce.

Ma tra gli inverni c’è un inverno tanto infinito

che a svernarlo il tuo cuore a tutto sopravvive.

Sii sempre morto in Euridice -, innalzati cantando

e, celebrando, innalzati di nuovo al rapporto puro.

Qui, tra color che passano, sii, nel regno del declino,

un cristallo che suona, e che nel suono già s’infranse.

Sii - e sappi anche la condizione del Non Essere,

interminato fondamento della tua interna oscillazione,

che tu questa volta almeno la porti a vero compimento.

Alle già adusate, e opache e mute risorse

della colma natura, alle somme indicibili

annovera te pure giubilando e azzera il conto. [80]

L’uomo essente, l’Effimero per eccellenza, conoscente il non essere, dice il poeta, proprio in quanto essere e non essere in lui vengono ad incandescenza, salva ogni effimero nel giubilare del canto. Ma se l’interna oscillazione ha nel non essere il suo unendlichen Grund, come evitare che il nulla sia l’ultima parola? Viene in mente il farsi fiamma michelstaedteriano. E la difficoltà di convivenza tra il linguaggio della poesia e quello della filosofia.[81]

 


 

Luigi Pareyson, nello splendente capitolo del suo libro su Dostoevskij [82] che ha come argomento il male, mostra come l’ateismo sia la condizione del trionfo del male, il cui fine è la disgregazione e la dissoluzione della personalità dell’uomo nel nulla. Il male, il diábolos, presenta due aspetti che, nel loro apparire in contraddizione, sono indivisibili, e proprio nella loro unità costituiscono la massima insidia. Da un lato il male desidera incarnarsi, assumendo la vita dell’uomo, dall’altro la sua brama si dirige al nulla, che è la sua vera patria, così che esso conduce sempre alla distruzione. Il male infatti non avendo una realtà propria, è parassita dell’uomo. Il diavolo demitizzato di Pareyson e Dostoevskij è lo spirito del nulla, la minaccia del non essere contro l’anima dell’uomo, che continuamente lo persuade ad abbandonarsi al nulla, in tutte le varie forme in cui questo è possibile. Questo è il processo del male: anzitutto esso si installa nell’essere finito (nella biblica creatura), e lo spinge a rifiutare la presenza dell’assoluto nel finito, operando quindi un rovesciamento dei segni: da negativo ad affermativo, così che, facendosi passare per bene, il male sostituisce il finito all’assoluto, divinizzando ciò che è per se stesso mera creatura. Ne segue che l’essere umano è insediato al posto di Dio, annullandosi così le fondamentali differenze ontico-morali tra Dio e uomo da una parte, e male e bene dall’altra. L’uomo in questo modo si divinizza, e diventa lui la soggettiva fonte del bene e del male. Ha mangiato il frutto dell’albero del Desiderio, ed ora è nudo, e in preda al mimetismo scatenato. Il Serpente, indicando alla donna il frutto proibito, aveva aperto la strada della mimesi, il peccato originale dell’uomo: il desiderio dell’annullamento della Differenza, la porta del nulla.

 


 Nel romanzo Chiarori di G. Tunström [83] Il vecchio Halldór, in una delle sue ultime toccanti lettere al figlio, esprime bene la percezione della caduta totale del senso, orribile in chi come lui da giovane aveva in sé tal forza trasfiguratrice da creare donne-fate-fantasmi, fylgje, con la luce della luna. Il Tempo, che egli cerca "di far turbinare", non risponde. Parole e ricordi sono svaniti. "Dimentico tutto, come proprio ora ho dimenticato le parole dei salmi che un tempo mi erano tanto chiare. ‘Sorge il sole all’orizzonte / e cosparge d’oro il cielo…’ Cosa viene dopo? Ci ho pensato tutto il giorno. Già, un tempo le parole calavano nella mia testa dalla parete dove erano come incise in oro. E’ come se avesse piovuto a lungo sulla parete, si fossero formate crepe, fossero cadute delle scaglie e fossero state inghiottite dalle cloache del ricordo. ‘Sorge il sole all’orizzonte / e cosparge d’oro il cielo…’ Non ho nemmeno un libro dei salmi da consultare. Non possiedo - mi rendo conto a un tratto - nemmeno un Testo Sacro. Nessun Testo Sacro: mi vengono i brividi".

Come ha mostrato René Girard [Nelle sue opere La violenza e il sacro, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Il capro espiatorio, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, tutte edite in Italia da Adelphi.], il sacro nasce dalla violenza mimetica, dal caos insensato, come ordine che instaura il rito, rito che sempre si serve di piccole dosi di violenza per differire quella generale e indifferenziata. E col sacro nasce il segno, il mondo della trascendenza, di ciò che dura oltre la transitorietà di quel che è significato. La moderna e postmoderna distruzione del sacro tradizionale non riesce a sostituire alla struttura di senso fondata su di esso alcunché di pari validità nel differimento della violenza. Che quindi non può che dilagare, annientando parole e vite. Trasferendosi dal ciclopico scontro armato delle potenze alla banalità del quotidiano. Né vale l’elegiaco rimpianto del passato.


 

Dio e il Nulla sono dunque due nomi di Ciò-Colui che non si può nominare. E chi più sente il Nulla più sente la presente assenza di Dio. Il cieco di Oltre il confine, [84] lo straordinario romanzo di Cormac McCarthy, dice al giovane Billy, colui che attraversa e riattraversa il confine: "l’immagine del mondo è l’unica cosa che gli uomini possiedono, e questa immagine è pericolosa. Ciò che era stato dato loro per aiutarli a farsi strada nel mondo è anche in grado di accecarli e non far più vedere loro dove sia la vera strada. La chiave per il paradiso ha il potere di aprire le porte dell’inferno. Il mondo che l’uomo immagina essere il ciborio di tutte le cose divine si trasformerà davanti a lui in nient’altro che polvere. (…) Lo que debemos entender, disse il cieco, es que ultimamente todo es polvo. Todo lo que podemos tocar. Todo lo que podemos ver. En éste tenemos la evidencia más profunda de la justicia, de la misericordia. En éste vemos la bendición más grande de Dios". La luce del nulla.

 

40. L. Zagari, Mitologia del segno vivente, Il Mulino, Bologna 1985, p.75.

41. Ivi, p. 52.

42. Ibidem.

43. Nella poesia segnata da una fondamentale malinconia del divenire, "l’oggetto (…) viene posto, ma viene posto come perduto, dicibile poeticamente solo a patto del suo darsi come perduto". E. Gioanola, Leopardi, la malinconia, Jaka Book, Milano 1995, p.161.

44. Rizzoli, Milano 1984, p. 143.

45. Ivi, p. 145.Potrebbe essere interessante un confronto con Jean Paul. Si veda il suo Discorso del Cristo morto, il quale, dall’alto dell’edificio del mondo, proclama che non vi è Dio alcuno, in Jean Paul, Scritti sul nichilismo. Morcelliana, Brescia 1997. Numerosi contributi critici sono da registrare intorno alle varie influenze esercitate dal breve, sconvolgente scritto pauliano. Su Celan, ad esempio, e Dostoevskij. Mi limito a citare W. Rehm, Jean Paul - Dostoevskij. Eine Studie zur dichterischen Gestaltung des Unglaubens, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1962.

46. Omar Khayyam, Quartine, trad. A. Bausani, Einaudi, Torino 1979, p. 13.

47. Si considerino Silvia, Nerina, e le giovani e belle donne delle Sepolcrali.

48. Op. cit., p. 20.

49. G. Trakl, Poesie, con trad. di E. Pocar, Rizzoli, Milano 1974, p. 37.

50. Op. cit., p. 14.

51. A cura di N.K. Sandars, Adelphi, Milano 1986. Con il titolo La saga di Gilgamesh è leggibile anche nell'edizione a cura di G. Pettinato, Rusconi, Milano 1992.

52. "... incontrai Gilgamesh, che più di ogni altra cosa ha determinato la mia vita, il suo senso più segreto, la sua fede, la sua forza e le sue attese". Ne Il frutto del fuoco, Adelphi, Milano 1982, p. 59.

53. Così nella similitudine forgiata da Canetti ne Il cuore segreto dell'orologio, Adelphi, Milano 1987, p.177. Il testo ricostruito da Sandars ha "finché il verme non fu sopra di lui" (op. cit., p. 122). Pettinato traduce: "fino a che un verme non è uscito fuori dalle sue narici" (op. cit., p. 204). Circa l'orrore della putrefazione nella mitologia greca si veda J.P. Vernant, La morte negli occhi, Il Mulino, Bologna 1987.

54. Nella Notizia intorno a Didimo Chierico, in Prose varie e d'arte , vol. V dell' Edizione nazionale, Firenze 1951.

55. E Canetti, Auto da fé, Adelphi, Milano 1985.

56. Si veda l'importante libro di M. Hamburger La verità della poesia, Il Mulino, Bologna 1987, in cui il problema è trattato con grande ampiezza di prospettive e di argomenti.

57. In L'art romantique, Paris 1923, p. 327.

58. Il Mulino, Bologna 1987, p. 269.

59. Ivi, pp. 270 e 271.

60. Rizzoli, Milano 1989, p. 97.

61. Il cuore segreto dell'orologio, cit., p. 199.

62. In Poesie, a cura di M. Specchio, Guanda, Milano 1979, p. 59.

63. Quaderni vol. II, Adelphi, Milano 1985, p. 136.

64. Il Dio dei filosofi, il melangolo, Genova 1994.

65. Ivi, vol. III, pp.212-213.

66. Ivi, vol. III, p.263.

67. Ivi, vol. III, p.303.

68. Il Saggiatore, Milano 1983, p. 6.

69. Ivi, p. 27.

70. Einaudi, Torino 1984, p. 80.

71. Ivi, p. 72.

72. Cfr. E. Borgna, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano 1997, passim.

73. In Poesie, Mondadori, Milano 1969, vol. III, p. 996.

74. Per il teologo tedesco anche "…l’uomo che esiste nell’orizzonte del senso conosce da sempre questa possibilità; egli porta sempre con sé la faccia d’ombra del senso in cui esiste - il nulla!- e questa abissale possibilità di disperare del senso, o addirittura di perdersi e annientarsi, appartiene come l’ombra alla struttura di senso del suo esistere". Il Dio personale, trad. di A.Rizzi, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp.106-107.

75. Ibidem.

76. In Ieri deserto regnante, a cura di D.G. Fiori, Guanda, Bologna 1978, p. 117.

77. Franco Rella, L’estetica del romanticismo, Donzelli, Roma 1997, p.49.

78. L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz. Trad. G.Cestari. Marietti. Casale Monferrato 1983.

79. Ivi, p. 74.

80. I sonetti a Orfeo, traduzione di F. Rella , Feltrinelli, Milano 1998, p.97.

 

81. Per cui Michael Hamburger può scrivere che " Ogni interpretazione globale del pensiero di Rilke … deve per forza trattarlo come se fosse definitivo … il che è come voler prendere al lasso un colibrì". La verità della poesia, cit., p.129.

82. Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa. Einaudi, Torino 1993.

83. Iperborea, Milano 1999, p.204.

84. Einaudi, Torino 1997, p.256.

 

 

 Grado, agosto 1999