Terzo incontro con il diavolo
Thomas Mann
Da Doctor Faustus, trad. E. Pocar, Mondadori, Milano1971
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Mettete insieme e fondete il demonio dostoievskiano de I demoni con quello goethiano del Faust e avrete la figura diabolica che appare al compositore Adrian Leverkühn nel romanzo che Mann pubblicò nel 1947, frutto della sua meditazione sulla catastrofe della Germania. Quanto è demonio questo demonio? La risposta non è facile. Il freddo e la mimesi sono due cifre fondamentali del diabolico, ma Thomas Mann è molto, molto figlio dell'Illuminismo (tentato però…)
F.B.
Il documento del quale si è fatto ripetuto cenno in questi fogli, lo scritto segreto di Adrian, che dopo la sua dipartita è venuto nelle mie mani ed è custodito come un tesoro caro e terribile, eccolo qui. Ora lo comunico ai lettori. E' venuto il momento biografico di inserirlo. Siccome ho volto le spalle in ispirito al rifugio ch'egli si era scelto a capriccio e condivideva con lo slesiano, quel rifugio dove ero andato a trovarlo, il mio discorso s'interrompe e il lettore, in questo ventesimoquinto capitolo, udirà direttamente la voce di lui.
Fosse soltanto la voce di lui! Ma quello che abbiamo qui è un dialogo. Un altro, ben diverso, terribilmente diverso, vi parla anzi in prevalenza, e lo scrittore, nella sala di pietra, scrive soltanto ciò che ha udito da lui. E' un dialogo? E' veramente un dialogo? Dovrei essere pazzo per crederlo; perciò non posso neanche credere che in fondo al cuore egli considerasse reale ciò che vedeva e udiva mentre lo vedeva e udiva, e anche dopo quando lo mise in carta--nonostante i cinismi coi quali l'interlocutore cercava di convincerlo della sua esistenza oggettiva. Ma se egli, il visitatore, non c'era, io sarei atterrito dalla confessione che vi è contenuta, nell'ammettere, sia pure al condizionale e come possibilità, quella stessa realtà!--E' raccapricciante pensare che anche quei cinismi, quegli insulti e quelle ciurmerie possano essere scaturiti dall'anima della vittima.
Va da sé che non intendo di affidare allo stampatore il manoscritto di Adrian. Con la mia propria penna lo trascrivo parola per parola, dai fogli per musica coperti dei suoi tratti minuscoli profondamente scuri e caratteristici, pieni di svolazzi all'antica, scritti con la penna da musica in una specie di scrittura, si direbbe quasi, monacale. Evidentemente egli si è servito dei fogli da musica perché in quel momento non aveva altro sotto mano o perché la cartoleria laggiù, nella piazza di Sant'Agapito, non poteva fornirgli carta di suo gusto. Vi sono due righe scritte sul pentagramma superiore e due sul rigo del basso, ma anche lo spazio frammezzo è sempre riempito con due righe di scrittura. Non si può stabilire con piena certezza l'epoca in cui il documento fu steso, perché manca la data. Se la mia convinzione può avere qualche valore, esso non fu scritto certamente dopo la nostra visita nella cittadina montana o durante il nostro soggiorno colà, ma risale o a un'epoca anteriore all'estate nella quale passammo tre settimane con gli amici, o alla prima estate da lui vissuta là come ospite dei Manardi. Sono certo che, quando noi arrivammo, l'avvenimento esposto nel manoscritto era passato e Adrian aveva già avuto il colloquio che segue.
Altrettanto sono sicuro che il dialogo fu scritto immediatamente dopo la visita, forse il giorno successivo.
Incomincio dunque a copiare, e temo che non occorreranno le scosse di lontane esplosioni contro il mio eremo per farmi tremare la mano e far uscire di riga le mie lettere...
" Se sai alcuna cosa, taci. Certo, tacerò, sia pure soltanto per vergogna o per misericordia degli uomini, be', per rispetto sociale. Voglio fermissimamente che il controllo decoroso del raziocinio non abbia ad allentarsi all'ultimo. Ma l'ho veduto, sì, veduto finalmente. Era a accanto a me, nella sala; era venuto a farmi visita, inatteso e pur da lungo tempo aspettato; ho parlato con lui a lungo, e solo rimasta mi è la stizza di non saper con certezza di che cosa io tremassi, se per freddo o per paura di lui. Ho forse finto io, ha forse finto lui che fosse freddo, affinché dovessi tremare e avere certezza ch'Egli era lì, seriamente, come persona a sé? Non è infatti chi non sappia che niuno è si folle da tremare delle proprie fantasie; queste anzi gli sono gradite, e senza tremore, senza imbarazzo le accetta. O mi prendeva a gabbo facendomi credere con quel freddo cane ch'io non ero pazzo, che Egli non era fantasia, poiché in temenza e peritanza tremavo davanti a lui? Certo è che Egli è scaltro.
Se sai alcuna cosa, taci. Taccio, così, per me. Taccio e scrivo tutto su questi fogli musicali, mentre il mio sodale nell'eremo col quale rider soglio è discosto da me nella sala e si tortura traducendo la cara favella straniera nella propria e odiata. Egli pensa che io stia componendo, e se vedesse che scrivo parole penserebbe che anche Beethoven così faceva.
Creatura di dolore, avevo passato tutta la giornata al buio col mio dannato mal di capo e piùi volte avevo dovuto recere come accade nei gravi attacchi; ma verso sera venne il miglioramento inaspettato e quasi improvviso. Potei tenere la minestra che la madre mi recò ("Poveretto!"), tracannai un bicchiere di vino rosso ("Beva, beva!") e fui ad un tratto così di buon umore e così sicuro di me che mi concessi persino una sigaretta. Avrei potuto anche uscire, secondo le intese del dí innanzi. Dario M. voleva introdurci laggiù al Circolo dei cittadini di Preneste altolocati; voleva presentarci e mostrarci la sala, il biliardo, la stanza di lettura. Non volendo mortificare quell'anima buona avevamo accettato, ma a uscire fu soltanto Sch., dato che l'attacco era scusa sufficiente per me. Alzatosi da tavola egli se ne andò senza di me con la faccia agra a fianco di Dario, giù per la via verso il convegno dei buoni borghesi e dei bifolchi, e io rimasi solo.
Me ne stetti qui nella sala accanto alle finestre chiuse, presso la mia lampada e mi misi a leggere Kierkegaard dove dice del Don Giovanni di Mozart.
Ed ecco d'un subito colpire mi sento da un gelo tagliente come quando uno se ne sta d'inverno nella stanza calda e all'improvviso una finestra spalancata accoglie il freddo esterno. Ma il gelo non veniva di dietro me, dove sono le finestre; no, mi colpiva in faccia. Alzo gli occhi dal libro, guardo la sala, noto che Sch. dev'essere tornato, perché non sono più solo: c'è qualcuno seduto nella penombra sul divano di crine, che col tavolino e con le sedie sta circa nel mezzo della stanza dove prendiamo la prima colazione. E' seduto nell'angolo del divano, con le gambe accavalcate, ma non è Sch. E' un altro, più piccolo di lui, e non si può dire che sia un vero signore. Il freddo però mi avvolge di continuo.
- Chi è costà? - grido in italiano con la gola un po' stretta, puntando le mani sui braccioli della sedia, in modo che il libro mi scivola dalle ginocchia e cade. Mi risponde la voce calma e lontana dell'altro, una voce che direi di buona scuola, con una gradevole risonanza nasale:
- Parla pure in tedesco, tedesco antico, senza mascheramenti e ipocrisie. Io lo capisco, anzi è proprio la mia lingua preferita. Qualche volta capisco soltanto il tedesco. Ma va' a prenderti il pastrano, e anche il cappello e lo scialle. Fa freddo qui e batterai i denti, anche se non è proprio da prendere un'infreddatura.
- Chi mi dà del tu? - domando io indignato...
- Io - risponde lui. - Io, con permissione. Ah, tu credi che siccome non tueggi nessuno, nemmeno il tuo buffone, il gentleman, fuorché il tuo compagno d'infanzia, il fedelissimo che ti chiama per nome mentre tu non fai altrettanto...? Via! Lascia andare. Tra noi ci sono rapporti tali che possiamo darci del tu. E ora ti spicci? Vai a prenderti qualche cosa per coprirti?
Io tengo gli occhi sbarrati in quella semiluce e lo fisso. E' un uomo piuttosto allampanato, non alto come Sch., e anche più piccolo di me, con un berretto sportivo tirato su un'orecchia, mentre sull'altra i capelli rossigni gli sporgono dalla tempia. Ha le ciglia rossicce, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po' curva in giù. Sopra una camicia a maglia a righe traversali porta una giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha i calzoni troppo stretti e le scarpe gialle trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce articolata da attore di teatro.
- Ti spicci? - mi ripete.
- Prima di tutto - dico io dominandomi, ma tremando - desidero sapere chi osa prendersi la libertà di penetrare qui dentro e di accomodarsi accanto a me.
- Prima di tutto! - ripete lui. - Prima di tutto è detto bene. Ma tu sei troppo suscettibile a qualsiasi visita che ti paia inattesa e indesiderata. Però io non vengo per portarti in società, per lusingarti e convincerti a raggiungere la riunione musicale. Vengo invece per trattare di affari. Vai o non vai a prendere la tua roba? Non si può discorrere battendo i denti.
Stetti lì alcuni secondi senza perderlo di vista, e il freddo che veniva da lui mi colpiva, tagliente, al punto da sentirmi indifeso nel mio abito leggero. Perciò andai. Mi alzo davvero e passo dalla prima porta a sinistra, dov'è la mia camera da letto (l'altra è più in là, dalla stessa parte), prendo dal canterano il cappotto invernale che porto a Roma nei giorni di tramontana e che ha dovuto seguirmi perché non sapevo dove lasciarlo; mi metto il cappello in testa, prendo lo scialle e così fornito ritorno al mio posto.
L'altro è ancora seduto al punto di prima.
- Siete ancora qui? - dico, alzando il bavero del cappotto e avvolgendomi le ginocchia nello scialle - anche dopo che sono andato e ritornato? Ciò mi meraviglia, perché ho il forte sospetto che voi non siate costì.
- No? - fece lui con aria studiata e con risonanza nasale.
- Perché no?
Io: - Perché è molto improbabile che uno venga da me di sera parlando in tedesco e sprigionando gelo, per trattare di affari dei quali non so e non voglio saper nulla. Molto più verosimile è che stia per manifestarsi in me una malattia e che nel mio stordimento il tremito di febbre, contro il quale mi avvolgo nei panni, io lo proietti all'esterno, nella vostra persona, e vi veda soltanto per scorgere in voi la scaturigine del gelo.
Lui (con una risata tranquilla e convincente da attore): - Quale assurdità! Quale intelligente assurdità stai dicendo! Direi che farnetichi. E come sei artificioso! D'una artificiosità intelligente, quasi rubata alla tua opera musicale! Ma qui, in questo momento, non stiamo facendo musica. Questa è pura e schietta ipocondria! Non fingere debolezza, sii un pochino orgoglioso, e non rinunciare subito ai tuoi cinque sensi! Nessuna malattia sta per scoppiare in te, anzi dopo quell'attacco insignificante godi la migliore salute giovanile. D'altro canto, scusa, non vorrei essere indelicato: che cosa è mai la salute? Ma così, caro mio, la tua malattia non si manifesta. Tu non hai traccia di febbre e non c'è ragione alcuna che tu l'abbia mai ad avere.
Io: - In secondo luogo, perché a ogni parola che pronunciate rivelate la vostra nullità. Dite continuamente cose che sono in me e provengono da me, non già da voi. Scimmiottate Kumpf nei modi di dire e non avete l'aria di aver mai frequentato l'università e di esservi seduto accanto a me sul banco degli asini. Voi parlate del povero gentleman e di colui al quale do del tu, e persino di persone che mi hanno dato del tu senza ricambio. Persino dell'opera, parlate. Come fate a sapere tutte queste cose?
Lui (ridendo ancora con arte e scotendo il capo come ad una deliziosa trovata infantile): - Come faccio? Tu vedi, questo è certo che lo so. E da che vorresti argomentare a tuo disdoro che non vedi bene? Sarebbe proprio contrario a qualsiasi logica, come la si impara nelle scuole superiori. Anziché dedurre dalle mie nozioni che non sono qui in concreto, dovresti piuttosto concludere che non solo sono concreto, ma sono anche colui che tu mi reputi in tutto questo tempo.
Io: - E chi reputo che siate?
Lui (con cortese rimprovero): - Va' là che lo sai! Non dovresti fare a rimpiattino come se non mi avessi aspettato da un pezzo. Lo sai anche tu che i nostri rapporti esigono una buona volta un chiarimento. Se io sono (e questo, credo, ormai lo ammetti), non posso essere che Uno. Dicendo "chi sei?" intendi "come ti chiami?". Ricordi certamente tutti i buffi nomignoli fin dai tuoi tempi goliardici quando non avevi ancora buttato alle ortiche la Sacra Scrittura. Li sai tutti a menadito e potresti scegliere. Possiedo, infatti, si può dire, soltanto nomignoli, coi quali mi si può fare il solletico sotto il mento con due dita: lo devo alla mia popolarità fra i tedeschi. Si accetta volentieri la popolarità, non è vero? anche quando non la si è cercata e quando, in fondo, si è convinti che è dovuta a un malinteso. E' sempre lusinghiero e fa bene. Cerca dunque, se proprio vuoi chiamarmi per nome, benché tu di solito non chiami così le persone, dato che nella tua indifferenza non ne conosci i nomi... cerca fra i vezzeggiativi contadineschi, che sono ad libitum! Uno solo non lo vorrei sentire, perciocché è decisamente una maligna calunnia e non si adatta alla mia persona. Chi mi chiama il sor Dicis-et-non-facis sbaglia di grosso. Sarebbe anche questo certamente un solletico con le dita sotto il mento, ma è una calunnia. Io faccio quel che dico, mantengo appuntino le mie promesse e posso dire che questo è un mio principio commerciale, all'incirca come gli ebrei sono i mercanti più fidati; e quando c'è stato un imbroglio, è proverbiale che l'imbrogliato sono io, credulo sempre nella fedeltà e nell'onestà altrui.
Io: - Dicis et non es. Pretendete davvero di starmi seduto di fronte sul divano e di parlarmi in buona lingua kumpfiana, con frasi arcaiche? Proprio qui in Italia pretendete di venirmi a visitare, dove siete estraneo alla zona e niente affatto popolare? Che assurda mancanza di stile! A Kaisersaschern vi avrei magari tollerato. A Wittenberg o alla Wartburg, persino a Lipsia mi sareste apparso credibile, ma non qui, sotto un cielo cattolico-pagano!
Lui (scotendo il capo e facendo schioccare la lingua con aria preoccupata): - Via, via, sempre il medesimo scetticismo, sempre la stessa mancanza di fiducia in te! Se tu avessi il coraggio di dirti: "Dove io sono, ivi è Kaisersaschern", ecco che tutto sarebbe a posto e il nostro signor esteta non avrebbe bisogno di sospirare per questa mancanza di stile. Fulmini e saette. Avresti ragione di parlare così. Ma non ne hai il coraggio, o fingi di non averlo. Troppo poca stima di te, mio caro amico. E anche poca stima di me quando mi poni tali limiti e vuoi fare di me un provinciale tedesco. Sì, sono tedesco, profondamente tedesco se vuoi, ma alla maniera antica, migliore: cioè cosmopolita in fondo al cuore. Tu mi vuoi rinnegare e non metti in conto la vecchia nostalgia tedesca e la smania romantica di visitare la bella Italia! Tedesco dovrei essere, ma tu non vuoi concedermi di sentire nel gelo la nostalgia del sole alla maniera düreriana, nemmeno quando, prescindendo dal sole, ho qui bellissimi affari urgenti a proposito d'una gentile creatura...
A questo punto mi colse una nausea ineffabile e fui scosso da un gran brivido. Ma non era facile distinguere fra le cause del mio brivido; poteva essere anche di freddo, poiché la gelida corrente che veniva da lui si era acuita fino a penetrarmi attraverso il pastrano nel midollo delle ossa.
Indispettito domandai:
- Non potreste far cessare cotesto dispetto, cotesta corrente gelata?
Lui: - Purtroppo no. Mi duole di non poterti far piacere in questo caso. Inutile: sono così freddo. Altrimenti come farei a resistere e a sentirmi a mio agio là dove abito?
Io (involontariamente): - Nelle spelonche dell'inferno?
Lui (ridendo come per solletico): - Magnifico! L'hai detto bene e con spirito! Vi sono anche altre belle denominazioni, patetiche, erudite, che il signor ex teologo conosce tutte, come per esempio: carcer, exilium, confutatio, pernicies, condemnatio, e così via. Ma i nomi familiari e umoristici sono quelli che mi piacciono di più. Tuttavia per il momento lasciamo il luogo e la sua natura. Te lo vedo in faccia, che sei in procinto di chiedermi informazioni in proposito. Ma queste cose sono lontane e niente affatto scottanti (perdona la facezia se dico che non sono scottanti), e c'è tempo, molto tempo, un tempo incalcolabile. Il tempo è la cosa migliore che possiamo dare, e il nostro dono è la clessidra. Infatti, è così sottile il forellino dal quale scorre la sabbia rossa; così fina, come un capello, è la sua corrente, e per l'occhio non diminuisce nel vano superiore se non verso la fine, quando pare che scorra rapida e rapidamente sia finita; ma prima di giungere alla stretta ci vuole tanto che non vale la pena né di parlarne né di pensarci. Volevo soltanto intendermi con te, mio caro, e dirti che la clessidra è collocata e che la sabbia ha incominciato a scorrere.
Io (in tono molto beffardo): - Straordinariamente düreriano è il vostro modo di parlare. Prima dite che nel gelo avete la nostalgia del sole, e ora mi parlate della clessidra della Melencholia. Verrà anche il preciso quadrato numerico? Sono preparato a tutto e a tutto so assuefarmi. Mi avvezzo alla vostra spudoratezza con la quale continuate a darmi del tu e a dirmi "mio caro" con mio sommo dispetto. Del tu do, in fin dei conti, anche a me stesso, e questa è probabilmente la spiegazione del vostro modo di parlare. Secondo la vostra affermazione io starei conversando col Gasparino nero. Gasparino vale a dire Gaspare, e Gaspare e Samiel sono la stessa persona. [Nel Franco cacciatore di Weber - F.B.]
Lui: - Stai ricominciando?
Io: - Samiel. Roba da ridere. Dov'è il tuo fortissimo in do minore, il fortissimo trillo degli archi, dei legni e dei tromboni che, spauracchio ingegnoso per il pubblico romantico, prorompe dal fa diesis minore del burrone come tu prorompi dalla tua roccia? Mi meraviglio di non udirlo!
Lui: - Lascia stare queste cose. Noi abbiamo uno strumento ben più lodevole, e questo tu lo udrai. Te lo soneremo quando sarai maturo per udirlo. Tutto dipende dalla maturità e dal tempo. Appunto di questo vorrei parlare con te. Ma, in quanto a Samiel, la forma è sciocca. Certo, io sono per le cose popolari, ma Samiel è troppo stupido, ed è stato corretto da Johann Ballhorn di Lubecca. Sammael dev'essere. E che cosa significa Sammael?
Io (taccio ostinatamente).
Lui: - Se sai alcuna cosa, taci. Mi piace la discrezione con cui affidi a me il compito di tradurlo in "angelo del veleno".
Io (fra i denti che non riescono a star chiusi): - Ecco, così siete fatto! Proprio come un angelo, esattamente! Sapete quale aspetto avete? Non basta dire volgare. Siete come una schiuma di malavita, una carogna, un lenone insanguinato. Questo è l'aspetto nel quale vi è piaciuto di venirmi a trovare... e non già quello d'un angelo!
Lui (guardando se stesso e allargando le braccia): - Come dici? Come dici? Tutto il mio aspetto? Ecco, è veramente bene che tu mi chieda se so quale sia il mio aspetto, perché in verità non lo so. O almeno non lo sapevo e sei tu che me lo fai notare. Sta' pur sicuro che non tengo affatto al mio aspetto esteriore e lo abbandono, per così dire, a se stesso. Il mio aspetto dipende puramente dal caso o, dirò meglio, si forma, si presenta a seconda delle circostanze senza che io vi contribuisca. Adattamento, mimetismo, tu le conosci queste cose, mascherate e beffe di Madre Natura che sempre si diverte. Ma tu, mio caro, non vorrai riferire a te quell'adattamento del quale so tanto poco quanto la farfalla-foglia, e darne la colpa a me! Devi ammettere che dall'altra parte è adeguata, da quella parte dove te lo sei preso, e precisamente dopo essere stato avvertito, dalla parte della tua bella canzone col simbolo delle lettere - oh, veramente geniale e quasi scritta per ispirazione:
Quando una volta mi desti
di notte la fresca bevanda,
m avvelenasti la vita...
e alla mia ferita
s'è attaccato il serpente...
Veramente geniale. Questo è precisamente il punto che abbiamo veduto per te e il motivo per cui fin dall'inizio ti abbiamo preso di mira. Abbiamo visto che il caso tuo vale decisamente la pena, che era un caso in favorevolissima posizione, del quale si sarebbe potuto fare qualche cosa di brillante, soltanto mettendoci sotto un po' del nostro fuoco, un po' del nostro riscaldamento, un po' di slancio e di ubriacatura. Non è stato Bismarck a dire che i tedeschi hanno bisogno di mezza bottiglia di spumante per arrivare al loro naturale livello? Ho l'impressione che abbia detto qualche cosa di questo genere, e giustamente. Intelligenti, ma storpi sono i tedeschi, intelligenti abbastanza da indispettirsi della loro infermità e da spuntarla con tutti i diavoli mediante l'illuminazione. Tu, mio caro, sapevi benissimo che cosa ti mancava e hai seguito quel modo di essere quando facesti il tuo viaggio e, salva venia, andasti a prenderti i cari francesi. [Allusione alla sifilide, che come nel caso di Nietzsche, costituisce, secondo Mann, la base fisiologica della potenza patologico-creativa del musicista Adrian Leverkühn - F.B.]
- Taci!
- Taci? Ecco, questo sarebbe un progresso da parte tua. Incominci a scaldarti e finalmente abbandoni la cortesia del plurale e mi dai del tu, come si addice a persone legate da un patto e da un'intesa per il tempo e per l'eternità.
- Voi dovete tacere!
- Tacere? Ma se taciamo già da quasi cinque anni, e ad un certo punto dobbiamo pur discorrere fra noi e decidere di tutto e dello stato interessante nel quale ti trovi. Certo, questa è una cosa da tacere, ma non fra noi e in eterno, mentre la clessidra è già collocata e la rena rossa ha incominciato a scorrere dal forellino sottile sottile... oh, appena incominciato! Non è quasi nulla la rena passata, in confronto alla massa superiore: diamo tempo, tempo abbondante, incalcolabile, alla cui fine non occorre nemmeno pensare: e per il momento non occorre preoccuparsi neanche del punto in cui si potrebbe incominciare a pensare alla fine e dire: respice finem, dato che è un momento oscillante, affidato al capriccio e al temperamento, e nessuno sa dove fissarlo e fin dove lo si debba spostare per la fine. Questa è una bella trovata e un'istruzione eccellente: l'incertezza cioè e l'arbitrio del momento in cui è tempo di pensare alla fine annebbiano scherzosamente l'istante della fine stabilita.
- Sciocchezze!
Perbacco, non si riesce mai a fare le cose per il tuo verso. Sei villano persino con la mia psicologia, mentre tu stesso una volta sul Monte Sion al tuo paese hai detto che la psicologia è un garbato neutrale stato intermedio e che i psicologi sono le persone più amanti della verità. Non vaneggio affatto quando ti parlo del tempo stabilito, della fine fissata, mi attengo anzi perfettamente all'argomento. Dovunque la clessidra sia collocata, il tempo sia dato, incalcolabile sì ma misurato, e dovunque la fine sia fissata, noi siamo sul nostro terreno e ivi prospera il nostro grano. Noi vendiamo tempo... diciamo, ventiquattro anni... si possono forse prevedere? E' una quantità decente? Uno potrebbe vivere alla diavola come una bestia e far stupire il mondo con molte arti infernali, come fosse un gran negromante; allora uno può dimenticare ogni infermità e sorpassare se stesso per illuminazione senza straniarsi da sé medesimo, ma rimanendo lui, portato però al proprio livello naturale con una mezza bottiglia di spumante e, ebbro di sé, può assaporare tutta la voluttà d'una quasi insopportabile ispirazione, in modo da essere convinto più o meno giustamente che una ispirazione simile non si è mai avuta da millenni; e in modo da credersi semplicemente un dio in certi momenti euforici. Come fa uno in tali condizioni a curarsi del momento in cui è tempo di pensare alla fine? Fatto è che la fine è nostra, lui è nostro, questo dev'essere chiaro, e non solo in silenzio: per quanto la cosa possa svolgersi anche in silenzio, ma da uomo a uomo, ed espressamente.
Io: - Sicché, voi volete vendermi tempo?
Lui: - Tempo? Soltanto tempo? No, mio caro, questa non è merce del diavolo. Non così meriteremmo il premio che la fine sia poi nostra. Quale specie di tempo, questo conta! Tempo grande, tempo folle, tempo indiavolato, pieno di baldoria e di tripudio... e anche un pochino miserabile, anzi molto miserabile, lo confesso, e non solo lo confesso, ma lo metto in rilievo con orgoglio, perché così è giusto ed equo, perché questa è la natura e la maniera degli artisti. La quale, com'è noto, tende sempre agli eccessi in ambedue le direzioni ed è normalissimamente un po' esorbitante. Il pendolo oscilla sempre fra l'allegria e la melanconia, ed è una cosa comune e, per così dire, alla maniera moderata borghese, alla maniera norimberghese, se la confrontiamo con ciò che noi possiamo fornire. Perché noi forniamo gli estremi in questa direzione, esaltazioni e illuminazioni, esperienze di libertà scatenata, di sicurezza, di leggerezza, di tale potenza e trionfo che il nostro uomo non crede ai propri sensi; e per soprammercato vi è compresa l'enorme ammirazione per ciò che ha fatto, ammirazione che lo potrebbe far rinunciare perfino a ogni ammirazione esteriore; ad ogni ammirazione altrui; forniamo inoltre i brividi della venerazione per se stesso, anzi del delizioso orrore di se stesso, per cui egli si ritiene un portavoce privilegiato, quasi un mostro divino. E intanto si scende di altrettanto in basso, onorevolmente in basso, non solo nel vuoto e nel deserto e nella tristezza impotente, ma anche nel dolore e nel malessere… dolori del resto familiari, che ci sono sempre stati, che fanno parte della costituzione, salvo che sono molto onorevolmente rafforzati dalla illuminazione e dalla nota sbornia. Sono dolori che si accettano con piacere e con orgoglio in cambio degli enormi godimenti, dolori ben noti dalle fiabe, quei dolori che provava la sirenetta, trafitture inferte alle sue belle gambe umane, quando le acquistò al posto della coda. Tu conosci, è vero? la sirenetta di Andersen? Quella sarebbe una bella per te! Basta che tu dica una parola e te la porto in letto.
Io: - Se tu potessi almeno tacere, bifolco che sei!
Lui: - Via, via, non diventar subito così villano! Tu pretendi sempre che si stia zitti. Non sono mica venuto in questo paese straniero e pagano per star zitto, bensì per concludere espressamente il patto a quattr'occhi e metterci d'accordo sulla fornitura e sul pagamento. Te l'ho detto già che ormai stiamo zitti da più di quattro anni, eppure tutto è avviato nel modo più raffinato, più ricercato e promettente, e la campana è già fusa per metà. Vuoi che ti dica come stanno le cose?
Io: - A quanto pare, sono costretto ad ascoltarti.
Lui: - Ascolti volentieri, però, e sei ben contento di poter ascoltare. Io credo perfino che ti solletichi non poco lo star a sentire e che frigneresti se te lo negassi. E avresti ragione. E' così familiare, così caldo e segreto il mondo nel quale stiamo insieme tu e io... tutti e due ci sentiamo qui come a casa nostra e questa è una vera Kaisersaschern, un'atmosfera buona e antica del 1500 o giù di lì, prima che venisse il dottor Martino, il quale aveva con me rapporti così schietti e cordiali da lanciarmi il panino, o anzi il calamaio... prima che ci fosse la baldoria dei Trent'anni. Cerca di ricordare com'era allegro e in movimento il popolo da voi, nella Germania, sul Reno e dovunque... tutto spensieratezza eppure convulso, inquieto e presago, con la smania dei pellegrinaggi al Santo Sangue di Niklashausen nella valle del Tauber, con crociate di bambini e ostie sanguinanti e carestie e leghe di contadini e guerre e la peste a Colonia, e meteore, comete e grandi presagi, monache stigmatizzate, croci che comparivano sulle vesti degli uomini i quali, issando per vessillo la camicia della fanciulla miracolosamente crociata, volevano marciare contro i turchi. Tempo buono, tempo indiavolatamente tedesco! Non ti senti scaldare il cuore ripensandoci? Allora i pianeti giusti s'incontravano nel segno dello Scorpione, come mastro Dürer l'ha disegnato con molta erudizione nel libello medico. E allora vennero in terra germanica i piccolini delicati, il popolo delle biospiraline, i cari ospiti delle Indie Occidentali, gli agitatori di fruste... Adesso sì che stai attento, vero? Come se parlassi dei penitenti erranti, di quei fiagellanti che si battevano la schiena per i peccati loro e per quelli di tutti. Ma io alludo invece ai flagellati, ai minuscoli invisibili di quella specie che porta la frusta come la nostra pallida Venere, la spirochaeta pallida. Questa è la sorta buona. Però hai ragione: tutto ciò ha un tono familiare di alto medio evo e di flagellum haereticorum fascinariorum. Oh certo, come fascinarii potrebbero presentarsi i nostri esaltati, nei casi migliori, come il tuo. Del resto, sono bene educati e addomesticati da gran tempo e nei paesi antichi dove sono insediati da tanti secoli, non fanno più scherzi così buffi come quelli d'una volta, non bubboni aperti e pestilenze e nasi corrosi. Il pittore Baptist Spengler non ha affatto l'aspetto di un uomo che, avvolto in lini funebri, debba agitare il campanello di allarme dovunque stia e vada.
Io: - Davvero, Spengler è a questo punto?
Lui: - E come no? Credi forse di essere il solo? So bene che tu preferiresti stare per te e ti secchi di ogni paragone. Ma, caro mio, i compagni sono sempre numerosi! Certo che Spengler è un Esmeraldo. Non per nulla ammicca sempre così vergognosamente e astutamente, e non per niente Ines Rodde lo chiama l'uomo che striscia in segreto. Così vanno le cose. Leo Zink il faunus ficarius, se l'è sempre cavata, ma il bravo e intelligente Spengler c'è cascato assai presto. Tu però stai tranquillo e non essere geloso di lui. Si tratta di un caso noioso e volgare dal quale non c'è da cavar niente. Costui non è un pitone sul quale noi possiamo compiere atti strabilianti. Può darsi che con questo regalo egli sia diventato un po' più chiaro di mente, più desideroso di partecipare alla vita spirituale, e forse non leggerebbe così volentieri il Diario dei Goncourt e l'abate Galiani, se non avesse trovato il collegamento col mondo superiore, e non si fosse buscato quel monito segreto. Si tratta di psicologia, mio caro. La malattia, tanto più se è seria, scandalosa, discreta e segreta, stabilisce una certa antitesi critica al mondo, alla vita dozzinale, ispira sentimenti di ribellione e d'ironia contro l'ordine borghese e spinge il suo uomo a cercar protezione nello spirito libero, nei libri, nel pensiero. Il tempo che ancora gli è dato per leggere, fare citazioni, ber vino e poltrire non glielo abbiamo venduto noi, è tutt'altro che tempo genializzato. Quello è un uomo contento e fiacco, uomo di mondo, un po' interessante, ma niente altro. Vivacchia col mal di fegato, della milza, dello stomaco, del cuore e dell'intestino: un giorno è tutto rauco o sordo e, con uno scherzo scettico sulle labbra, se ne va, senza gloria, dopo qualche anno. E' tutto lì? Non è una cosa interessante, non è mai stata un'illuminazione, un'esaltazione, perché non era cerebrale... capisci? I nostri piccoli non si sono preoccupati della parte nobile, della parte superiore; questa non aveva alcun allettamento per loro e non si è giunti alla metastasi verso la zona metafisica metavenerea, metainfettiva...
Io (con odio): - Fin quando starò qui a gelare e dovrò ascoltare le vostre ciarle insopportabili?
Lui: - Ciarle? Che tu devi ascoltare? Mi pare che tu dia la stura a una buffa canzonetta. Secondo la mia impressione, stai invece in ascolto molto attentamente e sei impaziente di saperne di più, di sapere tutto. Un momento fa ti sei informato dell'amico Spengler di Monaco, e se io non ti avessi troncato la parola, non faresti che chiedermi notizie della spelonca infernale. Via, fammi il piacere, non fare l'importunato. Anch'io ho un certo orgoglio e so di non essere un ospite indesiderato. Per farla breve, la metaspirochetosi è il processo meningeale, e io ti assicuro che è come se taluni dei piccolini avessero una passione per la parte alta, una particolare predilezione per la regione della testa, per le meningi, la dura madre, la volta del cervello e la pia madre, i quali proteggono all'interno il delicato parenchima, e come se fin dall'istante della prima infezione generale cercassero appassionatamente di convenire lassù.
Io: - Voi parlate da par vostro. Il ruffiano pare che abbia studiato medicina.
Lui: - Non più di quanto tu abbia studiato teologia, voglio dire frammentariamente e in specializzazione. Vorresti forse negare di aver studiato soltanto da specialista e da amatore la migliore fra le arti e le scienze? Il tuo interesse però era rivolto a me e te ne sono molto grato. Ma io, l'amico e lenone di Esmeralda, come tu mi vedi, come potrei non avere un particolare interessamento per il campo relativo e ovvio della medicina e non intendermene da specialista? In effetti perseguo in questo campo con la massima attenzione gli ultimi risultati degli studi. Alcuni dottori sostengono e giurano che tra i piccolini ci debbano essere degli specialisti in fatto di cervello, amatori della zona cerebrale, ci debba essere insomma, un virus nerveux. Ma costoro vivono in territorio conosciuto. Vero è il contrario: il cervello è desideroso della loro visita e li aspetta con ansia, come tu aspetti la visita mia; è il cervello che li invita, se li attrae e non vede l'ora che arrivino. Ricordi il filosofo, De anima? "Le azioni degli attivi avvengono nei passivi predisposti."
Vedi dunque: quello che conta è la predisposizione, la preparazione, l'invito. Che alcuni uomini abbiano maggiore attitudine a compiere atti di stregoneria di quanto non ne abbiano altri e che noi desideriamo scoprirli, è già rammentato dai venerabili autori del Malleus Maleficarum.
Io: - Calunniatore, io non faccio parte della tua clientela e non ti ho affatto invitato.
Lui: - Guarda, guarda, che bella innocenza! Il cliente dei miei piccolini che ha fatto il lungo viaggio, non era forse stato invitato a stare in guardia? E anche i tuoi medici te li sei scelti con sicuro intuito.
Io: - Li ho cercati nella guida degl'indirizzi. Chi avrei potuto interrogare e chi mi avrebbe potuto dire che mi avrebbero piantato in asso? Che cosa avete fatto dei miei due medici?
Lui: - Eliminati, eliminati. Oh, quei pasticcioni li abbiamo eliminati, naturalmente nel tuo interesse, e proprio al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi, quando con le loro ciarlatanerie avevano messo la faccenda sulla retta via. E, se li avessimo lasciati fare, non avrebbero potuto altro che sciupare il caso interessante. Noi abbiamo concesso loro la provocazione, e con ciò era ora di dire basta e via! Non appena col loro trattamento specifico ebbero limitato la prima generale infiltrazione cutanea e dato in tal modo una buona spinta in su alla metastasi, il loro compito poteva dirsi compiuto e bisognava abolirli. Questi sciocchi infatti non sanno (e se lo sanno, non possono farci nulla) che il trattamento generale accelera notevolmente i processi superiori e metavenerei. E' vero che, anche con la mancanza di trattamento degli stadi recenti, quei processi sono molte volte favoriti: insomma, comunque si faccia, si fa male. In nessun caso però potevamo lasciare che la ciarlataneria continuasse la provocazione. Il regresso della compenetrazione generale andava abbandonato a se stesso, affinché la progressione avesse luogo lassù pian piano, affinché gli anni, i decenni del tempo bello e negromantico fossero salvi, affinché ci fosse un'intera clessidra piena di geniali tempi diabolici. Stretto e piccolo e circoscritto è oggi, dopo quattro anni, dacché te la sei buscata, il posticino lassù, ma c'è il focolare, lo stanzino da lavoro dei piccolini, i quali vi sono arrivati, diremo così, per via liquida: il posto dell'incipiente illuminazione.
Io: - Ti ho colto dunque, sciocco che sei? Ti sei tradito, e tu stesso indichi il posto nel mio cervello, il focolare della febbre che mi finge la tua esistenza e senza il quale tu non saresti. Tu mi riveli che nella mia agitazione ti vedo bensì e ti odo, ma non sei altro che un fantasma davanti ai miei occhi!
Lui: - Evviva la logica! Stupidello, non hai che da capovolgere: io non sono il prodotto del tuo focolare piale costassù, ma il focolare ti rende capace... capisci?... di percepirmi, e senza di esso, questo è vero, non mi vedresti. Perciò la mia esistenza sarebbe legata alla tua sbornia incipiente? Perciò faccio parte del tuo soggetto? Va' là, fammi il piacere! Un po' di pazienza, e ciò che si forma e progredisce ti renderà capace di ben altro, ti porrà ben altri ostacoli e scavalcherà insieme con te l'infermità e l'inibizione. Aspetta fino a venerdì santo e vedrai che poco dopo viene Pasqua. Aspetta un anno, dieci, dodici anni, finché il luminoso attacco di tutti gli scrupoli e i dubbi zoppi raggiunga il colmo, e allora saprai per che cosa paghi, saprai perché ci hai affidato anima e corpo. Allora sine pudore ti sbocceranno vegetazioni osmotiche dalla semina farmaceutica...
Io (scattando): - Chiudi quella boccaccia! Ti proibisco di parlare di mio padre!
Lui: - Oh, tuo padre sulle mie labbra non è fuori di luogo. Era un volpone, tuo padre, e indagava volentieri gli elementi. Il mal di capo, il punto di partenza per le trafitture inferte alla sirenetta, l'hai preso da lui... Del resto, ho detto bene: in tutta questa magia si tratta di osmosi, di diffusione nel liquido, d'un procedimento di proliferazione. Voi avete il sacco lombare con la pulsante colonna liquida che arriva fino al cerebro, fino alle meningi, nel cui tessuto l'insidiosa meningite venerea compie la sua opera piana e tacita. Ma nell'interno, nel parenchima, i nostri piccolini non potrebbero nemmeno arrivare, per quanto vi si sentano attratti e per quanto vi siano appassionatamente attirati, senza la diffusione nel liquido, senza l'osmosi col succo cellulare della pia che lo annacqua, che scioglie il tessuto, che spiana la via ai flagellanti verso l'interno. Tutto, amico mio, viene dall'osmosi, dei cui bizzarri prodotti tu ti sei così presto rallegrato.
Io: - La loro miseria mi faceva ridere. Vorrei che Schildknapp ritornasse, per poterne ridere con lui. Gli racconterei storielle patetiche anch'io, gli parlerei delle lagrime negli occhi di mio padre quando diceva: "E dire che sono morti!".
Lui: - Corpo di mille veleni! Ragione avevi di ridere delle sue lagrime compassionevoli. Senza dire che chi per natura ha a che fare col Tentatore è sempre in contrasto coi sentimenti della gente ed è sempre tentato di ridere quando quelli piangono e di piangere quando ridono. O che significa "morto" quando la flora vi prospera così multiforme e multicolore ed è persino eliotropica? "morto" se la goccia dimostra un appetito così sano? Decidere che cosa sia "morto" e che cosa sia "sano", caro il mio giovinotto, non conviene lasciarlo fare ai borghesi. Non è detto che questi s'intendano molto della vita. Di ciò che è sorto lungo la via della morte e della malattia non poche volte la vita si è impossessata con gioia e se n'è fatta portare avanti e portare più in alto. Hai dimenticato forse ciò che imparasti all'università? Che cioè Dio può fare che il male diventi bene e che non si deva scemargli le occasioni di farlo? Hai dimenticato che sempre uno dev'essere stato malato e folle affinché gli altri non lo siano più? Non è facile per nessuno stabilire dove la follia incomincia ad essere malattia. Quando uno nel rapimento scrive in margine: "Sono beato! Sono fuori di me! Questo è nuovo e grande! Volontà cocente dell'ispirazione! Le mie guance ardono come ferro fuso! Sono furente e tutti voi sarete furenti quando ciò vi raggiungerà! Dio aiuti allora le vostre anime!", è questa ancora salute folle, pazzia normale, o si tratta di meningi colpite? Il borghese è l'ultimo che possa rispondere; in ogni caso, per molto tempo non si accorge di nulla, perché sa che gli artisti sono un po' matti. E quando, il giorno dopo, uno esclama per contraccolpo: "Vuoto, deserto! Oh, vita da cani, quando non si può far nulla! Ci fosse almeno la guerra, affinché succeda qualche cosa! Potessi andarmene con bel garbo! Possa l'inferno aver pietà di me, poiché finirò all'inferno!"... ti pare che sia da prendere sul serio? Sarà verità da prendersi alla lettera ciò che vanno dicendo dell'inferno, o sarà soltanto una metafora per un po' di normale malinconia düreriana? Insomma noi vi forniamo soltanto quel dono di cui il poeta classico sommamente degno ringrazia con così belle parole i suoi dei:
Tutto danno gli dei, gli infiniti,
ai loro beniamini:
tutte le gioie infinite,
tutti i dolori infiniti, interamente.
Io: - Beffardo mentitore! Si diabolus non esset mendax et bomicida! Se proprio sono costretto ad ascoltarti, non mi parlare di grandezza salvata e di oro accumulato! So che l'oro fatto col fuoco anziché col sole non è genuino.
Lui: - Chi lo dice? Ha forse il sole un fuoco migliore di quello della cucina? E che mi vieni a dire della grandezza salvata? Tu credi nell'ingegno che non abbia nulla a che fare con l'inferno? Non datur! L'artista è fratello del delinquente e del mentecatto. Credi tu che sia mai stata compiuta un'opera divertente senza che il suo autore s'intendesse dell'esistenza dei delinquenti e dei pazzi? Non parlarmi di sani e di malati! La vita, da quando esiste, non se l'è mai cavata senza l'elemento morboso. Che cosa mi dici di genuino e non genuino! Siamo forse imbroglioni? Caviamo le cose buone dal nulla? Dove non c'è nulla, anche il diavolo perde ogni diritto, e non c'è pallida Venere che possa combinare qualche cosa di buono. Noi non creiamo niente di nuovo; questo è affare di altra gente. Noi aiutiamo soltanto a partorire e liberiamo. Noi mandiamo al diavolo la zoppaggine e la timidezza, i casti scrupoli e i dubbi. Noi infervoriamo e con un pochino di iperemia stimolante scacciamo la stanchezza, quella piccola e quella grande, quella privata e quella del tempo. Vedi, tu non pensi alle decorrenze, tu non pensi da storico quando ti lamenti che questo e quell'altro hanno potuto avere, interamente, gioie e dolori infiniti senza che gli fosse imposta la clessidra, senza che alla fine gli fosse presentato il conto. Ciò che egli nei suoi tempi classici ha potuto avere, se mai senza di noi, oggi soltanto noi possiamo offrirlo. E offriamo di meglio, offriamo ciò ch'è giusto e vero, e non è più roba classica, caro mio, quella che facciamo esperimentare, ma è lavoro arcaico, roba primitiva, non più provata da un pezzo. Chi sa oggigiorno, chi sapeva nei tempi classici, che cosa fosse l'ispirazione, la genuina e antica esaltazione, l'esaltazione non ancora intaccata dalla critica, dalla zoppa intelligenza, dal mortale controllo del raziocinio, che cosa fosse la santa estasi? Io credo persino che il diavolo sia considerato un critico disgregatore. Altra calunnia, amico mio. O che si sfotte? Se qualcosa gli è odiosa, se v'è al mondo qualcosa di contrario a lui, è precisamente la critica dissolvente. Ciò che egli vuole e largisce è appunto la trionfante superiorità, la brillante mancanza di scrupoli!
Io: - Ciarlatano!
Lui: - Perché no? Chi rettifica i più volgari malintesi sul suo conto, più per desiderio di verità che per amore di sé, è un rodomonte. Io non mi lascio tappare la bocca dal tuo ostile pudore, e so che reprimi i tuoi sentimenti e mi ascolti con lo stesso piacere con cui la donzella ascolta in chiesa chi le sussurra all'orecchio... Prendi ad esempio la trovata... quella che voi chiamate così da cento o duecent'anni... perché prima questa categoria non c'era nemmeno, come non c'era il diritto di proprietà musicale e roba simile: la trovata dunque, un affare di tre o quattro battute, non di più. Tutto il resto è elaborazione e diligenza. O forse no? Bene, noi siamo però esperti conoscitori della letteratura e sappiamo che la "trovata" non è nuova, che anzi ricorda molto da vicino qualche cosa che ricorre già in Rimskij-Korsakov o in Brahms. Che cosa si fa? La si modific