L'OMBRA DELLA MALINCONIA

Elio Gioanola

 

da Leopardi, la malinconia, Jaca Book, Milano 1995

brottof@libero.it

www.bibliosophia.homestead.com/Copertina.html

 

L'analisi delle sequenze figurali del 'tiranno' e della 'tempesta' ha condotto in modo convergente all'individuazione di un nucleo centrale costituito da un originario sentimento di colpa. Quella straordinaria "fanciulla nella tempesta" che è la Saffo leopardiana dell'Ultimo canto dice, rivolgendosi al dio ignoto e crudele che ha mosso contro di lei il suo "arcano consiglio": "Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso / Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo /I1 ciel mi fosse e di fortuna il volto? / In che peccai bambina, allor che ignara / Di misfatto è la vita?". Non può persuadersi la misera Saffo di avere potuto offendere il cielo, e in ogni caso non sa come ciò possa essere accaduto, anche se ritiene impossibile che la sua sorte sventurata non sia dovuta all'imperscrutabile decisione di una qualche Suprema Istanza: è forse possibile offendere Dio quando si è bambini e la vita non può conoscere colpe, o addirittura quando il giorno natale non è ancora venuto? Eppure in qualche modo deve essere possibile, se sul suo capo si è abbattuta la condanna all'esclusione dalla vita e dall'amore: il "nefando eccesso" è stato quello, semplicemente, di essere venuta al mondo e di essersi ostinata a vivere quando certo esisteva una superiore volontà contraria a tale decisione. Di nient'altro si può essere colpevoli "anzi il natale" o nell'infanzia, ma questa colpa è la più grave che esista e reclama la pena capitale. Ricordiamo bene le terribili pagine zibaldoniane sulla "madre cristiana", che godeva della morte dei figli. Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Xaverio Pietro dei conti Leopardi, gracile di costituzione e cagionevole di salute fin da piccolo, tanto da essere subito sostituito nel diritto di maggiorascato dal fratello, mancò ab origine alla prima e maggiore delle aspettive materne, quella appunto di andare sollecitamente ad accrescere il numero degli angeli: il senso di colpa che segna come un peccato originale il vissuto profondo del poeta nasce ai primordi stessi dell'esistenza, "allor che ignara / di misfatto è la vita", ed è strettamente connesso al non essere morto appena nato, insistendo a vivere contro tutte le promesse in contrario. È così che diventa colpa il vivere stesso e la sopravvivenza è sentita come un debito da pagare, mentre sul ribelle si addensano le minacce della pena capitale e un dio vendicatore scuote i suoi fulmini e scatena le tempeste.

La risposta del sopravvissuto è la consegna di sé, totale e incondizionata, alla volontà genitoriale, fino a diventare il "Monaldoade" prospettato dallo zio Antici: avendo poi il padre preso su di sé in toto il carico dell'educazione, è lui a diventare il punto di riferimento assoluto per il modellamento dei comportamenti, dentro l'a priori trascendentale del "piano di famiglia". Colui che sente di non possedere nel proprio corredo esistenziale l'amore di quelli che l'hanno messo al mondo, farà della propria vita un'oblazione incondizionata volta a guadagnare momento per momento quell'amore. È Monaldo stesso ad assicurarci - lo abbiamo appena visto - che Giacomo fu "un bambino docilissimo, amabilissimo" dandoci anche qualche aneddoto a riprova di questa attitudine all'obbedienza totale: "Gli fu detto che giovava alla salute prendere un poco di sole nel capo, e voleva passare le ore intiere al giardino, col capo scoperto, sotto i più gravi ardori del sole. Gli fù insegnato di gettarsi un poco di acqua fresca negli occhj per fortificarli. Si scamiciava; prendeva due catini uno alla destra, uno alla sinistra, e durava un'ora a gettarsi negli occhj due torrenti. Recedeva però da queste pratiche quando io lo distoglievo perché con me era docile, e si arrendeva alle mie ragioni, e alle mie preghiere" (1). La docilità del bambino è pari soltanto alla colpa della quale si sente gravato e che solo col dono di sé può essere alleviata: abbiamo detto abbastanza attorno ai regali natalizi di Giacomo al genitore, ma adesso possiamo aggiungere che la quota di sovradeterminazione, di cui erano caricati veniva appunto dall'inconsapevole intento di riparazione della colpa e di richiesta d'affetto. Che il padre poi abbia un piano per questo figlio, è una vera fortuna, perché sarà sufficiente aderire anima e corpo a questo piano per dimostrare tutta la propria amorevole docilità e tenere così a bada cacciandoli nel profondo, i fantasmi della colpa e della pena. Se quel padre vuole che la sua casa sia la migliore delle scuole, il figlio vorrà essere il migliore degli scolari; se vuole che su tutto viga l'impero della Ragione, questi della ragione sarà devoto fino all'oblio di ogni altra istanza; se vuole che quella gran biblioteca raccolta con tanta passione non sia solo un suo vanto di erudito, ma abbia una funzione reale, prima di tutto per i membri della famiglia, ecco il figlio pronto a fare della biblioteca la sua dimora prediletta; se vuole che liberamente quel suo cadetto senta la vocazione religiosa, questi liberamente si sentirà chiamato in modo irresistibile alla vita ecclesiastica. Davvero Monaldo non ha mai imposto nulla a Giacomo, semplicemente gli è mancato sempre il tempo e il modo di farlo, perché la sua volontà è stata sempre anticipata dalle offerte generose di quel bambino e ragazzo prodigioso. Non sappiamo se Monaldo abbia voluto che quel figlio diventasse un genio, ma è certo che questi si è sforzato in tutti i modi di diventarlo, nel desiderio di offrire al padre il più prezioso dei doni: di sicuro il padre ha ambito costruire questo suo "docilissimo" alunno come pura testa dirittamente pensante, e questi si è conformato al disegno fino al rischio di uno smarrimento psicotico del sé.

Che l'universo esistenziale ed espressivo leopardiano sia contrassegnato in maniera specifica e decisiva dalla malinconia, non è cosa da dimostrare tanto è dichiarata e di per sé evidente: in tale orizzonte quindi va interpretato il sentimento di colpa che caratterizza il vissuto profondo e l'immaginario del bambino e dell'adolescente, essendo la condizione malinconica sempre accompagnata dall'esperienza della colpa, che addirittura ne è all'origine. E la colpa, come già si è potuto vedere, è sempre primaria, cioè non corrisponde a nessuna reale infrazione di norme morali, come l'angoscia sempre legata alla colpa, che non è paura di qualcosa ma esperienza onnipervasiva, e come la stessa malinconia, che non è lutto per qualcosa di effettivamente perduto, ma per una cosa originaria e assoluta mai stata in nostro possesso. Una simile colpa - e lo abbiamo letto nelle parole di Saffo - è propriamente esistenziale, inerisce cioè al semplice fatto di vivere, è "una colpa ontologica che non può essere colta con criteri morali: non l'operari ma l'esse si fa motivo di tormento per la coscienza" (2). L'infanzia e adolescenza di Leopardi è stata un'ininterrotta riparazione di quella colpa, e ciò di per sé costituisce una condizione potenzialmente malinconica, superabile solo con la cura effettiva e spontanea di genitori in grado di comportarsi "in modo naturale" (3): tra una madre assente e un padre dolcemente tirannico, Giacomo ha imparato a riparare con degli exploit intellettuali invece che con azioni liberamente emotivo-istintuali, alimentando così l'energia degli oggetti persecutori interni, proiettati poi nelle figure fantasmatiche che abbiamo imparato a conoscere. È così che "un bambino con un intelletto eccezionale, potenzialmente valido e pieno di talento, può essere estremamente malato" (4), e malato non solo psicologicamente perché "un sano sviluppo emozionale fornisce al bambino un significato nei confronti della salute fisica, così come la salute fisica gli fornisce una sicurezza che è di grande importanza per lo sviluppo emozionale […] La libertà degli istinti promuove la salute del corpo (5) ("Noi tememmo allora molto per la sua salute, e per la sua mente": così Monaldo). Giacomo bambino ha imparato subito a somatizzare le difficoltà della propria condizione emotiva, anche perché questo era il modo più diretto per punirsi della colpa: è qui l'origine della 'malattia' leopardiana, quella proteiforme configurazione dei più disparati sintomi che segna in maniera decisiva e a tutti i livelli il destino del poeta.

La persuasione che non sia possibile esplorare adleguatamente l'universo leopardiano senza tenere nel debito conto il ruolo centrale della 'malattia', costituisce la stessa ragione d'essere del presente libro, e quindi si perdonerà il ricorso, frequente in questo capitolo, alle citazioni da autori specialisti in campo psicologico e psicopatologico. Nell'ipotesi che la malattia si configuri, già a partire dai segni individuati per l'età infantile, come condizione malinconica, possiamo subito avvalerci delle indicazioni fornite da Silvano Arieti, che ha messo particolarmente l'accento sulla estrema docilità del bambino ad essa predisposto. Fin da principio c'è in chi è soggetto a un destino di malinconia un'accettazione piena dei genitori, che del resto sono rappresentanti di un mondo solido e stabile, conformato alle convenzioni sociali e ai valori più apprezzati: proprio per questo l'ambiente familiare è caratterizzato soprattutto dal senso del dovere, che spesso la madre tende a rendere dominante nel rapporto col figlio, sostituendo alla spontaneità affettiva la meticolosità e puntualità delle cure (6). Un bambino che viva una situazione del genere tende a conformarsi perfettamente all'ambiente e alle persone rappresentative, accettando ogni proposta che gli venga fatta e addirittura anticipandola e facendo, perciò, nessun affidamento sulle risorse autonome, con una tipica depressione dell'autostima, che cresce soltanto in un regime di scambio reale d'amore, non di regole e doveri (Freud per primo ha individuato una precoce mancanza d'amore nell'eziologia dello stato malinconico). Dice Arieti: "Un meccanismo comune è il cercare la sicurezza [contro le minacce avvertite] accettando le aspettative dei genitori, per quanto onerose possano essere [...]. Egli deve rispondere alle loro aspettative, non importa quanto pesante sia il fardello [...]. L'ansia riguardo all'incapacità di soddisfare le aspettative dei genitori si muta in sentimento di colpa" (7); è in questa situazione che l'atteggiamento di estrema acquiescenza dà vita alla figura dell'"altro dominante". "In molti casi", continua il celebre psichiatra, "[il] bambino crede di poter riacquistare l'amore, l'approvazione e la considerazione non soltanto essendo acquiescente; obbediente e lavorando duramente, ma orientando tutti o quasi tutti gli sforzi verso uno scopo"(8), quello che, in parallelo con la figura genitoriale di riferimento, diventa "lo scopo dominante"(9).

Se ciò che abbiamo fin qui ricostruito non è frutto d'immaginazione, difficilmente si può trovare una coppia genitore-figlio che più di quella costituita da Monaldo e Giacomo rappresenti il rapporto tra un "altro dominante" e un soggetto votato alla dedizione più totale, tra un Monarca assoluto e un suddito devoto fino all'oblio di sé. Quanto allo "scopo dominante", lo sappiamo bene, questo è lo studio, "matto e disperatissimo" perché carico di tutte le sovradeterminazioni che veniamo conoscendo e perché, in definitiva, sostitutivo della vita stessa. Abbiamo detto della compiacenza del padre nel vedere davanti a sé, alla scrivania di fronte, quel fenomeno di figlio, e della gioia del figlio nel potersi specchiare in quel padre potente e amoroso col quale s'identifica: ebbene, è qui che si gioca, in questa situazione e in questi anni, la partita decisiva per il destino del futuro poeta, perché qui si sono scatenate le forze sublimanti e distruttive dello "scopo dominante". Chiedersi se sia stato Monaldo a volere, o almeno a permettere, che quel ragazzo dimenticasse il mondo e la vita per lo studio, o se sia stato Giacomo a fare di una biblioteca la sua reggia e il suo carcere, diventa a questo punto quasi ozioso, dal momento che non esistono due soggetti e due volontà, ma due espressioni diverse di una volontà sola, perché il figlio fa esattamente, con tutto il carico di talento che si ritrova, ciò che sa senza bisogno di suggerimenti essere il desiderio paterno. Lo studio matto e disperatissimo è l'unica risposta possibile in una condizione di acquiescenza totale alle mute ed eloquenti aspettative delle figure dominanti: non c'è altra via per chi non voglia naufragare nel sentimento di colpa e farsi divorare dai mostri da questa suscitati. Certo ci sono di mezzo un'intelligenza e una genialità assolutamente eccezionali, ma come stabilire se si tratti in toto di 'doni' originari o non invece, almeno in parte, di acquisizioni 'secondarie', erette come difese a partire dalle condizioni di base che abbiamo esaminato? Se chiedessimo al diretto interessato, la risposta sarebbe categorica: il genio non è un dato, ma un prodotto, ed è frutto al novantanove per cento dell'assuefazione, cioè dell'educazione. Si può non essere d'accordo, ma è bene dare ascolto a chi parla, a posteriori, di cose che lo riguardano personalmente: "Il talento non è altro che facoltà d'imparare, cioè di attendere e di assuefarsi" (Z, 1661); "Il maggiore o minor talento, non è che maggiore o minore assuefabilità e adattabilità di organi" (Z, 1743); "Il talento è opera in tutto delle circostanze" (Z, 1820).

Ma non si accorgeva l'amorosissimo padre che quello studio così intenso ed esaltato stava gravemente danneggiando la già precaria salute del figlio? Dice Teresa Teja-Leopardi: "Il suo corpo si sconciò e alterò pel faticoso e continuo maneggio di enormi in-folio"; aggiungendo poi questa interessante osservazione: "Il C.te Monaldo accarezzò grandemente questa tendenza del figlio, sperando che quei forti studi lo distraessero dai desideri inquieti, dai cupi e vaghi disgusti che già si manifestavano in lui"(10). Forse la vedova di Carlo anticipa di qualche tempo la presenza di quei "cupi e vaghi disgusti" che sono il corredo della malinconia già dispiegata, ma l'accenno ai "desideri inquieti" riporta ad un'importante testimonianza di Carlo che, come fratello e intimo confidente di Giacomo, conosceva bene le cose: "Provò funestamente precoce la sensibilità della natura. Anticipò di quattro o cinque anni l'età dello sviluppo! Indi, com'egli mi confessò poi, tutti i mali fisici della sua vita. Vero fenomeno! La stessa natura, concedendo troppo o precorrendo il tempo, uccide o fa miseri"(11). I "desideri inquieti" sono dunque quelli legati ad un eros precocissimo, considerato che lo sviluppo, cioè la maturità genitale, avviene a dieci anni e forse meno, proprio quando stanno cominciando gli studi sotto la direzione di don Sanchini: secondo la Teja, questo è uno dei motivi per i quali Monaldo "accarezzò" la tendenza agli studi di Giacomo, vedendo nella forsennata passione del figlio per i libri un autentico remedium concupiscentiae (et tristitiae), ma per parte sua Giacomo non aveva bisogno di incoraggiamenti in quel senso ed è da credere che la precoce sensibilità sessuale, che certamente veniva ad esasperare gli ingeniti sensi di colpa, abbia ancora più sollecitato il desiderio di corrispondere alle aspettative paterne. Di sicuro un rapporto tra le due cose c'è, tanto più se si considera la tendenza tipica dell'ambiente e dei tempi a far coincidere il peccato col peccato sessuale, e non è certo casuale il fatto che, nella fantasmatica della colpa e della pena sopra esaminata, colui che viene colpito dai fulmini 'padreterni' si è generalmente macchiato di una colpa amorosa: nello studio Giacomo si getta come in una disciplina di mortificazione, esasperando la separatezza, ben monaldiana, del corporeo e del mentale e assoggettando quello a questo, fino a eliminare dal vissuto di superficie ogni traccia di istintualità. Diventa allora anche più difficile stabilire di chi sia la responsabilità della rovina psicofisica del ragazzo prodigioso, perché questi non fa che prendere alla lettera e condurre alle estreme conseguenze ciò che il padre sostanzialmente vuole, la costruzione di sé come 'testa', come spirito incorporeo e sostanza angelica: lo studio sarà la penitenza, gioiosa mente accettata, con la quale il senso di colpa verrà rintuzzato, gli istinti precocemente attivi cacciati in profondo, i fantasmi persecutori esorcizzati.

Poteva Monaldo, in queste condizioni, distogliere il figlio da un'attività che, sia pure estremizzata, realizzava al di là di ogni speranza il proprio disegno educativo, nel trionfo della ragione-religione contro gli errori e le passioni? Certo si sarà anche preoccupato della salute del figlio, come quando Giacomo minacciò di cadere in quella specie di malattia di famiglia che erano gli "scrupoli", cioè quei rituali di tipo ossessivo che adesso possiamo facilmente interpretare come prodromi della malinconia: "All'età di circa 14 anni soggiacque al travaglio degli scrupoli, e tanto esageratamente che temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni"(12). Ma le preoccupazioni di Monaldo potevano essere solo, per così dire, di ordine quantitativo, anche se personalmente era il tipo che "passava dalle dieci alle dodici ore allo scrittoio"(13), e non potevano cambiare la sostanza di una situazione da tutti voluta, in un ambiente in cui il disprezzo dell'istintuale e del corporeo era spinto fino all'esasperazione. Non sarà male, in proposito, riproporre qualche linea del ritratto di Adelaide: "Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù [...]. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima" (Z, 354-355). Poteva forse, in una tale famiglia, destare molta apprensione il fatto che il genio di casa minacciasse di curvarsi per la scoliosi spinale o esagerasse nella scrupolosità religiosa? Chi davvero si preoccupava della salute di Giacomo era invece lo zio Antici, che pensava al possibile sfruttamento ai fini della carriera, e anche della promozione della cultura cattolica, dei grandi talenti del nipote: "Voi dite che il vostro impareggiabile Giacomo", scrive a Monaldo in una lettera del luglio del 1813, "studia ora, senza maestro, la lingua greca di cui spera farsi padrone in un anno, e che in seguito vuol studiare l'ebraica. Io mi rallegro con voi, con lui, col sacerdozio cui sembra fin da ora chiamato; ma permettetemi che io vi esterni la mia apprensione per la di lui salute. Il troppo assiduo studio è sempre stato fatale alla durata della vita, e specialmente quando si comincia nell'adolescenza. Senza ricorrere a quanto ne dice Tissot [ne abbiamo già fatto cenno] nel suo opuscolo Sur la santé de gens de lettres, l'esperienza giornaliera mostra che molti si accorciano la vita per troppa applicazione. È vero che gran numero di letterati son giunti a decrepita età; ma è vero anche che tutti questi [...] hanno sempre alternata la vita sedentaria con qualche genere di abbondante e giornaliera ginnastica"(14); e un mese più tardi: "Non vi fate vincere dall'eccessivo genio del vostro o per dir meglio del nostro Giacomo allo studio. Scuotetelo a suo dispetto, conservate, invigorite la sua salute con esercizi corporali. Per esempio invece di lasciarlo fra i libri nelle prime due ore della sera, portatelo a discutere nel crocchio dei Gualandi. Ma vi ripeto, non lasciate sotto il moggio questa lucerna: mandatelo presto a Roma dove specialmente nelle scienze nelle quali inclina, potrà in breve tempo giganteggiare. Se la separazione vi duole, il dovere di padre lo esigge, e ne avrete compenso sublime"(15). Dove, come si vede, anche la faccenda del mandare Giacomo a Roma non è disgiunta dalle preoccupazioni circa la sua salute, dal momento che l'Antici sa benissimo che, a Recanati e con quel padre, il ragazzo non può fare altro che seppellirsi nella biblioteca: a Roma, ci penserebbe lui a divagarlo e a procurargli la "giornaliera ginnastica". E Monaldo, glissando sull'argomento, risponde genericamente in poche righe: "Dite benissimo [in] rapporto alla troppa applicazione del mio Giacomo. Io ne lo riprendo continuamente, ma egli si è fatto talmente allettare dallo studio che nulla gusta più fuori dei libri, e mi conviene prendere il tono serio per distaccarnelo"(16). Per parte sua, nella terribile lettera al padre scritta in occasione della tentata fuga del 1819, Giacomo non esita a dare colpa al padre della micidiale miscela di studio e noia in cui sono stati immersi gli anni dell'adolescenza e prima gioventù: "Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia" (Ep., I, 291).

Nella lettera al Giordani [17] del 30 aprile 1817 Leopardi scrive: "La mia complessione non è debole ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po' risentita delle fatiche che le ho fatto portare per sei anni" (Ep., I, 79); e in quella del 2 marzo 1818 al medesimo: "Io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s'andava formando e mi si doveva assodare la complessione" (Ep., I, 163). Togliendo sei anni al 1817 e sette al 1818 si arriva al 1811, e alla stessa data si arriva con le indicazioni fornite dalla lettera del 30 maggio 1817: "Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13 ai 17 anni ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei o sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato)" (Ep., I, 96). Sono questi gli anni della rovina della complessione e della salute, quelli fino al 1815 ancora totalmente sotto la giurisdizione monaldiana; a cui bisogna aggiungere, lo togliamo dalla stessa lettera, l'"anno e mezzo" dedicati alle "lettere belle", così che si raggiunge la quota prima indicata dello "studio matto e disperatissimo". Il 1815 è l'anno del Saggio sopra gli errori e dell'Orazione agl'Italiani in occasione della liberazione del Piceno, che abbiamo segnalato come il culmine, anche compiutamente ideologico, della devozione al padre, ma è anche l'anno dell'inizio di quella crisi che si chiamerà anche 'conversione letteraria'. Per ora ci interessa l'aspetto propriamente patologico della crisi, che non coincide con la rovina della salute ma con la prima consapevolezza di essa, essendo ovviamente cominciata la rovina con l'inizio dello studio forsennato, col quale sostanzialmente fa tutt'uno. Nei mesi immediatamente anteriori alla crisi, addirittura, il Leopardi ventenne individua il momento più felice della sua vita: "La somma felicità possibile dell'uomo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore [...]. Questo divino stato l'ho provato io di sedici e diciassette anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz'altri disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire" (Z, 76). In una lettera datata 8 agosto 1817 leggiamo: "In questi giorni passati sono stato molto meglio [...]; ma è la solita tregua che dopo una lunga assenza è tornata, e già pare che si licenzi, e così sarà sempre che io durerò in questo stato, e n'ho l'esperienza continuata di sei mesi e interrotta di due anni" (Ep., I, 114). Sei mesi di malessere senza soluzione di continuità, cioè tutta la prima parte del 1817, e due anni di alternative tra crisi e remissioni: così che si arriva al 1815, o al periodo a cavallo tra quest'anno e quello successivo: e qui che si colloca la prima manifestazione di quella malattia malinconica da cui nasce il poeta e pensatore che conosciamo. 

Nella lettera-memoriale di Monaldo al Ranieri leggiamo, proprio in riferimento a questo torno di tempo: "Un'altra volta dandosi a pensare sul modo di respirare, avvertiva che non poteva farlo liberamente, e anche questa fù una grande tribolazione per noi. Maggiore e più lunga fù alli suoi 16 overo 17 anni, in cui pensando e sottilizando sull'atto dell'orinare, non lo faceva più naturalmente e indeliberatamente come facciamo tutti gli atti animali, e non ci era più modo che potesse emettere le urine senza incredibili stenti. Passeggiava delle ore per distrarsi, e rubbare a se stesso qualche momento di inavvertenza, ed io medesimo procuravo di accompagnarlo e divagarlo, provando un affanno incredibile per questa sua infermità puramente mentale. Poi, dopo lungo tempo, passò"(18).

Le due affezioni segnalate da Monaldo presentano lo stesso meccanismo, per il quale il "pensare" inibisce una libera espletazione delle funzioni fisiologiche: è ciò che Leopardi chiamerà l'"azione logoratrice dell'anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero" (Z, 207), sintetizzando così l'effetto della manipolazione educativa per la quale egli è diventato davvero una testa pensante, ma a prezzo della distruzione del corporeo. Si tratta, in ogni caso, di un'altra segnalazione della rottura degli equilibri che si verifica dopo la stagione felice degli studi filologici: Giacomo manifesta nei sintomi che cominciano ad affliggerlo la progressiva consapevolezza del terribile prezzo pagato con la devozione incondizionata al progetto paterno. All'uscita dall'adolescenza, Giacomo prende gradualmente coscienza del proprio essersi donato e sacrificato non per sé ma per l'"altro dominante" e da questo momento comincia il crollo della figura di riferimento, assieme al crollo, non meno traumatico, dello "scopo dominante", costituito dallo studio folle che lo ha portato alla rovina fisica. E in questo tipo di situazione, secondo Silvano Arieti, che si verifica la caduta nella malinconia, destinata ad accompagnare tutta la vita del poeta (19). Il fallimento del rapporto con l'"altro dominante" configura un'esperienza della perdita, che non riguarda solo uno specifico oggetto storico ma rinvia alla perdita originaria e quindi determina quel lutto irrisarcibile che, come sappiamo dal tempo del fondamentale saggio di Freud in materia (20), coincide con la malinconia. A cominciare dal 1815 Leopardi 'perde' il padre, ma ciò non può essere inteso come un semplice congedo ideologico e l'inizio di un cammino autonomo e liberamente creativo, perché il 'padre' continua ad essere presente nell'esperienza stessa del lutto che lo segnala come perduto e, comunque, non esce più dalle zone profonde e inconsce della mente del figlio (ma in buona parte nemmeno dalla sua mentalità).

Così si può rovesciare l'opinione, che è assieme positivistica e idealistica, di un rapporto di causa ed effetto tra le 'sventure' e quella specie di superfetazione culturalistica della malinconia che è il cosiddetto 'pessimismo', perché in effetti è la malinconia a procacciare le 'sventure' e a porsi come fondante di tutto l'universo esistenziale ed espressivo del Leopardi. Se così non fosse, si potrebbe arrivare a quell'assurdo critico che consiste nell'immaginare un Leopardi che, senza le circostanze infelicitanti che hanno motivato i suoi neri pensieri, sarebbe tutt'altro intellettuale e pensatore, pur rimanendo il grande lirico che è: una tesi che, notoriamente, ha divulgato Benedetto Croce, sulla scorta a dire il vero di affini osservazioni del De Sanctis. Occorre invece assuefarsi all'idea dell'onnipervasività della condizione malinconica, coincidendo la sua prima apparizione con la prima apparizione dell'originalità leopardiana, perché si tratta di un unico processo di distacco dai confortanti compromessi dell'infanzia-adolescenza e dall'oblazione riparatrice alla volontà paterna: è giocoforza che il distacco inauguri assieme la malattia e la creatività, facendo uscire il ragazzo prodigioso dai territori neutri della filologia, dove il proprio della letteratura soggiace alla rimozione, ed esponendolo alla libertà della letteratura in quanto tale, luogo del desiderio e delle sue sublimazioni estetiche. È questo il senso della famosa 'conversione' dalla filologia alla poesia, avvenuta appunto tra il 1815 e il 1816, che è la stessa cosa della conversione dallo studio fine a se stesso all'amore per la parola bella: abbiamo letto come nella lettera al Giordani del 30 maggio 1817 Leopardi confessi di essere "andato un pezzo alla ricerca della erudizione più pellegrina e recondita" e di essersi invece dato da un anno e mezzo in qua, "quasi senza avvedersene", alle "lettere belle". E nell'incipit delle Memorie del primo amore (1817): "Io cominciando a sentire l'impero della bellezza, da più d'un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti" (PP, I, 657). La conversione alla poesia è tutt'uno con la conversione al bello, e il bello è insieme estetico ed erotico: malinconia e poesia si intrecciano perché evocano entrambe il desiderio, riportando in luce il rimosso, quella nella forma colpevole e luttuosa di una perdita dei riferimenti, questa nella trasposizione sublimante dello stile. Diventa subito evidente che per colui al quale si prospetta un destino di poesia, si prospetta nello stesso tempo un destino di dolore: in entrambe le condizioni l'oggetto, finalmente, viene posto, ma viene posto come perduto, dicibile poeticamente solo a patto del suo darsi come perduto. E' così che Leopardi verificherà in proprio la congiunzione, già prospettata da Aristotele e ripresa in età umanistica da Marsilio Ficino, di genio creativo e malinconia, sperimentando come la scrittura rappresenti una salvezza, ma a costo di una mancata presenza alla vita.

Riferiti a questa decisiva svolta, e all'intreccio di eros poesia e malinconia da essa proposto, sono i Ricordi che seguono:

Amore amore cantato dai fanciulli (leggendo io l'Ariosto) come in Luciano ec., principio del mondo (ch'io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.) immaginato in udir il canto di quel muratore mentr'io componeva ec. e si può dire di Rea ec. senza indicar l'inno a Nettuno, Gennaio del 1817 e lettura dell'Alamanni, e del Monti nell'aspettazione della morte e nella vista di un bellissimo tempo da primavera passeggiando, nel finire di un di questi passeggi grida delle figlie del cocchiere per la madre sul mettermi a tavola, composizione notturna fra il dolore ec. della Cantica (PP, I, 674).

Letture poetiche, amore cantato dai fanciulli e impersonato nelle figlie del cocchiere, tensione creativa, aspettazione della morte e bellezza della primavera, scrittura nel dolore; con in più i due precisi riferimenti all'Inno a Nettuno e alla cantica Appressamento della morte, entrambi del 1816. Quanto al primo componimento, si tratta di una finta traduzione dal greco, tanto linguisticamente esperta da essere presa per autentica quando esce l'anno dopo nello "Spettatore italiano" dello Stella: il suo interesse risiede nel fatto che si presenta come un vero e proprio trionfo della mitologia, e quindi proprio di quegli "errori degli antichi" severamente ripresi pochi mesi prima, a conferma della svolta e delle sue caratteristiche di rovesciamento delle prospettive fin'allora adottate, per cui si mantengono certi termini fondamentali e se ne muta soltanto il segno. Che si tratti poi di una traduzione, sia pure finta, dal greco è di molto rilievo, perché indica la preferenza per una lingua sentita elettivamente come creativa, così che lo strumento 'neutro' della ricerca filologica si trasforma in veicolo privilegiato della poesia, come del resto confermano le traduzioni degli idilli di Mosco e della Batracomiomachia, eseguite nell'estate del 1815. L''errore' immagina storie favolose di dei ed eroi e parla il greco antico, quindi la poesia è amoroso commercio con l'errore: il 'discorso secondo' trapelante dai fantasmi del tiranno e della tempesta e da tutto l'ordito del Saggio sopra gli errori (21) viene adesso adottato come l'unico vero linguaggio alternativo rispetto al discorso della ragione, con tutte le cariche affascinanti e angoscianti del desiderio che esso comporta (e si ricordi che il materiale del Saggio era in gran parte costituito, con segno negativo, da citazioni tratte da poeti greci e latini). Quanto alla 'cantica', essa rappresenta il documento di gran lunga il più significativo della svolta, e non senza motivo ne abbiamo già sfruttato le indicazioni in un paio di occasioni. 

Alla base del lungo componimento sta la convinzione del poeta-protagonista di dover morire entro breve tempo, ed è questo il segnale più vistoso dello stabilirsi della condizione malinconica: "Io per lunghissimo tempo ho creduto fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma di qua ad otto mesi, cioè presso a poco da quel giorno ch'io misi piede nel mio ventesimo anno [...] ho potuto accorgermi e persuadermi [...] che in me non è cagione necessaria di morir presto" (Ep., I, 162). Il periodo, dato come "lunghissimo", è dunque quello anteriore al luglio del 1817, e dovrebbe comprendere i due anni che separano questa data dall'inizio della crisi. Molto probabilmente è a questo periodo che Leopardi allude nelle Ricordanze, come confermerebbe l'accenno al "funereo canto" - appunto l'Appressamento della morte - nato da quelle circostanze: "Poscia, per cieco / Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo / Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir cantai funereo canto". Concepita come 'visione', la cantica mantiene nei primi quattro canti la struttura del genere, con la contemplazione conclusiva della beatitudine paradisiaca, ma nel quinto canto la convenzione adottata cade del tutto e i versi si fanno lirico-elegiaci, con il compianto del protagonista sulla sua sventura, quella appunto di dover morire giovane, prima di aver provato "quel che gioventù desia" e di aver ottenuto la fama ardentemente sognata di poeta: "Dunque morir bisogna, e ancor non vidi / Venti volte gravar neve '1 mio tetto, / Venti volte rifar le rondinelle i nidi? // Sento che va languendo entro mio petto / La vital fiamma, e 'ntorno guardo, e al mondo / Sol per me veggo il funeral mio letto / [...] Poco andare ha mio corpo ad esser morto. /I' mi rivolgo indietro e guardo e piagno / In veder che mio giorno fu sì corto" (PP, I, 362). La morte destinata a venire prima dei vent'anni preclude ogni futuro e rende definitivo il già vissuto, per cui non rimane che lo sguardo all'indietro, a quella vita tutta concentrata nel desiderio e nella speranza, in un'attesa che non conoscerà esaudimento: "I' piango or primamente in su l'uscita / Di questa mortal piaggia, che mia via / ove l'altrui comincia ivi è finita. // I' piango adesso, e mai non piansi pria: / Sperai ben quel che gioventude spera, / Quel desiai che gioventù desia. // Non vidi come speme cada e pera, / E 'l desio resti e mai non venga pieno,/ Così che lasso cor giunga la sera. // Seppi, non vidi, e per saper, nel seno / Non si stingue la speme e non s'acqueta, / e '1 desir non si placa e non vien meno" (PP, I, 363).

Ognuno riconosce già in questi versi lo schema fondamentale della poesia leopardiana, costituito dal ribaltamento del futuro nel passato e, quindi, della speranza nel ricordo, proprio per quell'assenza attuale di vita che desertifica la realtà e svuota di contenuti il desiderio, che appunto "non si placa" in qualche oggetto reale e perciò "non vien meno", anzi si ingigantisce per la sua stessa vuotezza. Ma allora la morte attesa entro breve termine è metafora di una morte che è già venuta e lascia vivi soltanto perché se ne possa avere coscienza: è questa propriamente la malinconia, che consiste nella sua essenza in un collasso delle attività vitali e quindi nell'esperienza della morte-in-vita. Paradossalmente Leopardi comincia ad essere Leopardi quando cessa di vivere, facendosi coscienza pura della vita come potenzialità assoluta, fuori del tempo e dello spazio vissuti: per trovare veramente se stesso ha dovuto abbandonare le difese della riparazione e dell'offerta di sé all'"altro dominante", ma con ciò è entrato nel vuoto malinconico, incontrando la pena della non-vita comminatagli ab origine e stornata finora coi riti della devozione e dell'obbedienza. In effetti il "pria" della soggezione e della distruzione di sé diventa, a chi ora guarda dall'altra riva, il tempo felice della speranza e del desiderio, e il dopo della liberazione diventa il tempo delle lacrime, perché invaso dalla morte che mette fine a quelle attese, così che il non-allora-vissuto si trasforma nel non-più-mai-vivibile, in un'assenza di vita siderale, pari soltanto per assolutezza alla nostalgia per la vita stessa: e la malinconia in effetti, che sigilla questa assenza, conserva "l'attaccamento e l'amore per la vita, e l'implicita premessa che la vita ha significato" [22]. "Seppi, non vidi", dice il protagonista della 'cantica', come chi ha piena consapevolezza di cosa sia la vita, con tutti i suoi valori, ma non riesce ad averne la minima esperienza, a 'vederla' coi suoi propri occhi nella realtà, a toccarla in qualche modo con mano, in modo da acquietare la "speme" e da placare il "desio": è così che la vita rimane intatta, cioè appunto non toccata, e per questo assolutamente desiderabile.

La convinzione del dover morire è legata anche alla consapevolezza acquisita della rovina del corpo, privato degli strumenti indispensabili alle esigenze vitali, a causa di ciò che Leopardi ha definito, come si è visto, "l'azione logoratrice della lama sopra il fodero". Il sacrificio della corporeità è avvenuto sull'altare della Ragione e una ragione senza corpo è il risultato dell'operazione: è così che, all'instaurarsi della malinconia, il dominio del razionale si fa doloroso e la vittoria sull'errore si trasforma in patologica 'ipertrofia della coscienza'. Addirittura, nella cosiddetta 'psicologia cognitiva', si ritiene che la sindrome malinconica "dipenda da un modo di pensare dominato dalla regola inflessibile secondo la quale ogni azione sarebbe o assolutamente buona [giusta] o assolutamente cattiva [sbagliata]" [23], cioè da un pensiero vincolato al rigore logico del principio di non contraddizione: è la coazione all'"ordinatezza" di cui parla il Tellenbach [24], che parte proprio dall'ossessivo rispetto delle regole del pensiero, separato dal ritmo vitale dell'armonia psicosomatica. Ma basta ascoltare Leopardi stesso, nelle lucidissime diagnosi del proprio male fatte al Giordani nelle grandi lettere del primo periodo:

Mi fa infelice primieramente l'assenza della salute [...]. L'altra cosa che mi fa infelice è il pensiero. Io credo che voi sappiate, ma spero che non abbiate provato, in che modo il pensiero possa cruciare e martirizzare una persona che pensi alquanto diversamente dagli altri, quando l'ha in balia, voglio dire quando la persona non ha alcuno svagamento e distrazione, il quale fissa la mente e la ritiene immobile, più nuoce di quel che giovi. A me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali martiri, per questo solo che m'ha avuto sempre e m'ha intieramente in balìa (e vi ripeto, senza alcun desiderio) che m'ha pregiudicato evidentemente, e m'ucciderà, se io prima non muterò condizione (Ep., I, 114: la lettera è dell'8 agosto 1817).

L'assenza della salute, togliendomi lo studio, in Recanati mi toglie tutto; oltre al pensiero, che è stato sempre il mio carnefice, e sarà il mio distruttore s'io durerò in poter suo in questa solitudine (Ep.,I, 118: la lettera è del 26 agosto 1817).

Il pensiero rende infelice non in rapporto a particolari contenuti dolorosi ma per il suo stesso ruminare continuo e ossessivo, separato da qualsiasi contatto efficiente con la realtà: esso, appunto, martirizza perché "fissa la mente" e la immobilizza in un tormentoso mulinare a vuoto, tanto più nell'assenza di qualsiasi tipo di distrazione. Esattamente come dice la letteratura psicologica in materia: "Essi non sono pensieri in quanto tali; sono prevalentemente portatori di dolore mentale" [25]. Anche qui si mantengono i termini dell'epoca monaldiana, ma nella svolta del '15-'16 il trionfalismo della ragione si muta in questo insostenibile "dolore mentale": ovviamente è qui che bisogna rintracciare l'origine del concetto di ragione come distruttività, assolutamente centrale nel pensiero leopardiano maturo, come perentoriamente è dichiarato nella lettera al Giordani del 14 dicembre 1818, dove si dice che "la ragione è la carnefice del genere umano" (Ep., I, 202).

Se la frattura causata dall'insorgere della malattia è netta e si produce in un lasso di tempo molto breve, piuttosto lento è invece il processo di distacco ideologico dal mondo paterno, come testimonia l'Appressamento della morte, che dista più di un anno dal primo manifestarsi della crisi: in questo componimento, infatti, il programma religioso domina ancora sulle insorgenze fantasmatiche e sulla confessione lirico-elegiaca, tanto che l'idea della morte prossima viene interpretata come l'atto finale di un sacrificio accettato, sia pure con rimpianto, e come offerta a Dio della propria giovinezza non vissuta: "O Padre, o Redentor, se tuo perdono / Vestirà l'alma, sì ch'io mora e poi / Venga timido spirto anzi a tuo trono, // E se '1 mondo cangiar co' premi tuoi / Deggio morendo e con tua santa schiera, / Giunga '1 sospir di morte, e poi che '1 vuoi, /Mi copra un sasso, e mia memoria pera" (PP, I , 365). Implicato ancora col mondo paterno è anche il curioso 'idillio' Le rimembranze, della primavera del 1816, che è propriamente la rievocazione di un lutto, fatta al figlio più piccolo da un padre che, nell'anniversario della morte del primogenito, racconta tra le lacrime gli ultimi giorni di vita del defunto: nella "rimembranza" il lutto è fatto presente ("Quel mesto orror, quei funebri momenti, / Quel tristo dì dimenticar non posso") e tutta l'atmosfera del componimento, di ambito campestre e pastorale secondo la convenzione del genere, è intrisa di note funebri e dolenti, non senza riferimenti a precisi modelli letterari (per esempio il Canto funebre di Bione, terzo degli idilli di Mosco da poco tradotti). Forse non è il caso di caricare questi versi di troppe responsabilità simboliche (26), ma certo è interessante assistere a questo vero e proprio trattamento malinconico del lutto, effettuato, per così dire, coram patre, nella probabile identificazione del poeta col fanciullo morto, secondo la prospettiva del dover morire dominante in quei mesi, e del padre reale in quel pastore che dichiara la sua disperazione, e anche il suo rimorso, per aver perduto il figlio diletto: che almeno la morte non sia illacrimata e resti nel padre il compianto perpetuo per quella perdita. Il mondo paterno, d'altro canto, resta ancora pressoché intatto sul piano dei comportamenti e della pratica quotidiana, Giacomo veste ancora l'abito ecclesiastico e continua ad essere accompagnato dal pedante quando esce di casa per le passeggiate, come testimonia il componimento scherzoso La dimenticanza, del 1816, dove si dice di uno scherzo tirato dai tre fratelli a don Vincenzo Diotallevi: soltanto a vent'anni quell'abito sarà deposto e verrà il permesso, nell'occasione della visita del Giordani a Recanati, di uscire per la prima volta senza il prete accompagnatore. Ma si deve ribadire che, in definitiva, Monaldo non tramonta mai all'orizzonte della vita del figlio, non solo per ciò che riguarda il non-tempo delle zone inconsce, ma anche nel concreto della prassi, dove il modello da lui fornito continua ad essere un riferimento costante.

NOTE

1. Memoriale autografo di Monaldo Leopardi ad Antonio Ranieri, in Carteggio inedito di varii con Giacomo Leopardi, con lettere che lo riguardano, a cura di G e R. Bresciano, cit., p.479

2. Le parole sono di Eugenio Borgna, uno psichiatra di scuola fenomenologico-esistenzialistica, finissimo studioso dei rapporti tra condizioni mentali 'borderline', o esplicitamente psicotiche, ed espressioni filosofico-letterarie; in I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Feltrinelli, Milano 1989, p. 137.

3. È soprattutto Donald W. Winnicot a insistere sul ruolo fondamentale, ai fini di un sano sviluppo mentale, della madre capace di comportarsi con 'normalità' nei confronti del figlio, cioè seguendo l'istinto che la porta ad essere serenamente affettuosa e disponibile, non preoccupata di certe reazioni in apparenza 'cattive', attenta a non soffocare le libertà istintuali del bambino. Si veda soprattutto I bambini e le loro madri, Cortina, Milano 1987 e Sulla natura umana, Cortina, Milano 1989.

4. D.W. Winnicot, Sulla natura umana, Cit., p.11.

5. Ivi, p.23.

6. Quanto ligia ai doveri del proprio stato fosse Adelaide, abbiamo potuto constatarlo, specialmente per quanto riguardava la cura dei figli malati, e la cosa era tutt'altro che in contrasto col segreto, terribile, desiderio che quelle sue cure precisissime fossero vane. Non enfatizzerei più che tanto, come fa la Gazzola Stacchini (Alle origini del "sentimento" leopardiano, Guida, Napoli 1974, specialmente pp. 15-16), il fatto che Adelaide non abbia allattato il figlio e lo abbia invece affidato ad una balia, perché questo era l'uso del tempo, assolutamente normale soprattutto nella classe nobiliare. Anche per ciò che riguarda la severità di questa "madre cristiana" ci possono essere delle giustificazioni di carattere storico: per restare nell'ambito di una letteratura che Adelaide può avere direttamente conosciuto, si possono citare le parole del predicatore spagnolo Juan Luìs Vives, il cui libro su La formazione della donna cristiana era tradotto in molte lingue: "Quasi sempre il figlio peggiore è quello più amato dalla madre"; oppure quelle di Francesco di Sales, uno dei santi protettori della famiglia, che invitava ad un'educazione molto rigida dei figli con osservazioni di questo tipo: "Non soltanto al momento della nascita, ma anche durante l'infanzia, noi siamo simili a bestie prive di ragione, di intento e di giudizio" (le citazioni sono tratte da E. Badinter, L'amore in più, Longanesi, Milano pp. 35 e 39).

7. S.Arieti e J. Bemporad, La depressione grave e lieve, Feltrinelli, Milano p. 159. La citazione è tratta da uno dei capitoli curati dall'Arieti.

8. Ivi, p. 161.

9. Ivi, p.168.

10. Note biografiche sopra Leopardi e la sua famiglia, cit., p. 40.

11. E' una delle confidenze che Prospero Viani raccolse dalla viva voce di Carlo; in Appendice all'Epistolario e agli scritti giovanili di Giacomo Leopardi, cit., p, XXXIII.

12. Memoriale autografo di Monaldo Leopardi ad Antonio Ranieri, in Carteggio inedito di

varii con Giacomo Leopardi, con lettere che lo riguardano, cit., p. 478.

13. In M. Leopardi, Autobiografia, con appendice, a cura di A. Avòli, cit., p. 165.

14. Ivi, pp. 278-279 n.

15. Ivi, p. 280 n.

16. Ivi, p. 280.

17. Nella lettera del 6 aprile 1817 Pietro Giordani, che è venuto a conoscenza attraverso il

libraio Stella della gracile complessione e della precaria salute del Leopardi ("senza che non

potrebbe avere così fino ingegno"), così scrive al "contino": "Per carità di sè e di tutti quelli

che già l'ammirano, e tanto aspettano da lei, riconosca e senta e osservi la necessità di moderarsi

nello studio"; e dopo aver osservato che più di sei ore di applicazione al giorno fanno

male, continua: "La supplico dunque ad interrompere gli studi con quegli esercizi che dando

vigore al corpo svegliano la mente: passeggiare, cavalcare, schermire, nuotare, ballare, giocare al pallone, a palla e maglio. L'incessante studio rovina lo stomaco, rovina la testa, cresce la malinconia, scema le forze della mente" (Ep., I, 69).

18. In Carteggio inedito di varii con Giacomo Leopardi, con lettere che lo riguardano, a cura di G. e R. Bresciano, cit., p 478.

19. Non è il caso di immaginare, per questa crisi dcl '15-'16, una qualche specifica malattia, come fa invece N. Bonifazi: "Probabilmente si trattò della prima manifestazione di quella malattia ai polmoni, di quella etisia, di cui parla anche il Ranieri" (in Leopardi. L'immagine antica, cit., p. XII). Può darsi che nell'inesausto arsenale dei mali leopardiani ci possa essere anche la tisi, ma importa soprattutto sottolineare lo strettissimo rapporto che ciascuno di questi mali intrattiene con la psicopatologia malinconica, dal momento che "quasi ogni caso di depressione è accompagnato da sintomi psicosomatici e somatici" (S. Arieti e J. Bemporad, op. cit., p. 85).

20. S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere 1915-1917, vol. 8, Boringhieri, Torino 1976.

21. N. Bonifazi, condividendo l'opinione di G.G. Amoretti (in Poesia e psicanalisi: Foscolo e Leopardi, Garzanti, Milano 1979), il primo ad averla avanzata, dice che il Saggio è "opera capitale per capire l'iter interiore dell'animo leopardiano", aggiungendo: "Il tessuto pedagogico, illuministico e razionalistico del Saggio viene investito come da un turbine, e l'iniziale polemica contro i pregiudizi fa fiorire le testimonianze più varie della paura, del timore primordiale, dello spavento e dell'orrore sia dei grandi, sia, ancora, dei bambini [...] Non c'è dubbio ormai che Leopardi parli di se stesso" (op. cit., pp. 73 e 69).

22. S. Arieti e J. Bemporad, op. cit., p. 24.

23. D. Widlöcher, La depressione, Laterza, Bari 1985, p. 80; questo autore cita da A.T. Beck, Depression: Clinical, Experimental and Theoretical Aspects, New York, 1967.

24. H. Tellenbach, Melancolia, "Il Pensiero Scientifico", Roma 1975.

25. S. Arieti e J. Bemporad, op. cit., p. 90.

26. "[Le Rimembranze] elaborano una scena infantile luttuosa, vicina alla fantasia inconscia sottostante, che vi affiora sulle tracce involontarie delle verosimiglianze e degli spostamenti. Si tratta di un investimento immaginario del desiderio in un'offerta di morte [...] Forse l'idillio, malgrado il rivestimento bucolico e le incongruenze della forma, è l'unico vero testo autobiografico della poesia leopardiana (insieme a una parte delle Ricordanze), nel senso che è il solo ad andare alle radici di quell'infanzia che è il fondamento privilegiato di ogni vera autobiografia": N. Bonifazi, op. cit., pp. 44 e 46. La "scena infantile" sarebbe quella di una punizione paterna che contempla la pena di morte in seguito all'infrazione edipica, fantasticata angosciosamente, "nella buia stanza", in forma di divoramento da parte di animali cattivi. La spiegazione è, insieme, troppo specifica e troppo generica, anche se contiene molti elementi che convergono con l'analisi che siamo venuti conducendo. Ciò che non persuade nell'interpretazione di Bonifazi è, al di là di questo, il trasferimento delle strutture luttuoso-malinconiche nella scrittura leopardiana, che sarebbe "lingua mortal" nel senso che dice la morte e la riflette, quando mi sembra invece che siano gli elementi vitali a dominarla.