La normalità non esiste
La letteratura di Anne Tyler
Elisabetta Liguori
elisabetta.liguori-lisi@poste.it
Ci sono giorni che vorrei essere lei: normale, arguta, ironica.
Scrivere come lei,
vivere la scrittura come lei, non mescolare letteratura e vita in un'unica
ricetta burrosa e calorica, ma trasformare l’osservazione in letteratura, così
che tutto quello che mi accade trovi naturalmente un’applicazione di tipo
letterario. Lei è Anne Tyler
e ho saputo della sua esistenza per caso, leggendo un’intervista a Nick Hornby. Ne parlava come di
un’amica importante. Nell’ intervista s’intuiva che lui ne rideva incantato. Mi
è parsa, questa, una circostanza straordinaria. È molto bello e raro che
qualcuno rida grazie a te, invece che di te. È stato così che ho scoperto che
questa donna, nata nel
Vigile, sorpresa e divertita allo stesso tempo. Sì, questi sono i sentimenti che muovono la sua penna, che da decenni la inducono a scrivere della vita di ogni giorno, senza sosta, ma con pacatezza; con metodo rigoroso, ma tenendosi ben lontana dai riflettori, dalla stampa, dallo star system americano. Benché la critica letteraria più patinata sembri averla dimenticata, i suoi lettori sono rimasti numerosi e fedeli nel tempo, come accade solo ai miti indiscussi, ai dogmi. Come mai? Molto probabilmente questa alchimia letteraria è generata proprio da quella sorpresa. La meraviglia, come una sorta di reagente chimico, produce inventio, creatività, articolate esplosioni narratologiche. I lettori ormai lo sanno e per questo aspettano fiduciosamente ogni sua nuova uscita per goderne assieme.
Tale sincero stupore generato dalla normalità è il segreto, quindi?
Ammesso che la normalità esista davvero. Tutti i personaggi della Tyler, colti nel loro quotidiano dinamismo, nascondono guizzi sorprendenti, scatti inspiegabili, tic orrendi, trasformazioni imprevedibili. Nonostante questo appaiono come i più ordinari dei vicini di casa. È questa la vera normalità? Il confine rigido e astratto che rende più evidente il deragliamento? Quello che genera mostri imprevedibili? Quello di cui godono i rotocalchi? Normale è l’allinearsi anche nella stravaganza, starsene in silenzio, in ombra, oppure reagire secondo gli schemi, rendersi prevedibile, il non eccedere, il resistere? È l’evocare con piccoli gesti l’umanità tutta? Normale è ciò che è comune, ciò che non eccelle in meriti o demeriti? Se così fosse, normale sarebbe tutto e niente. Ciò che volevo capire era cosa è quella santa normalità di cui tanto si parla, riconoscerla finalmente, leggere del quotidiano riconoscermi e sorprendermi, scoprire cosa rende quella normalità unica e sconvolgente.
Ma non
solo. Cercavo verità creativa, sì, ma anche donne. Non solo
letteratura, non solo società, individui, storie, intrecci, ma propriamente
donne. Così ho trovato le donne
comuni, i loro universi imperfetti.
Un titolo a caso: “Matrimonio da
dilettanti”, del 2005. Un modo per descrivere quaranta anni
di vita insieme a partire da un cappotto rosso. Lui incontra il cappotto
rosso di lei il giorno dell’attacco a Pearl Habor. L’intera America è sconvolta dalla guerra; lui lo è
dalla stravaganza improvvisa di un cappotto. I quaranta anni che seguono sono
la narrazione scrupolosa e rapida di un’allucinazione ottica e del conseguente
errore di prospettiva causato dall’inesperienza. La descrizione vivida di una manciata di soggetti vincolati dalla dittatura del tempo e
del sangue. Un matrimonio da quattro soldi tra due individui radicalmente
diversi fra loro, grazie alla Tyler, diventa
famiglia, tribù, clan. Gli eventi si accavallano sulle spalle fragili dei
coniugi; arriva la crisi, poi passa, periodicamente ritorna, una tra le figlie
sceglie di scomparire nel nulla, altre si sposano, il sangue si mescola, ne germinano nuovi individui, già condannati dalle inevitabili
somiglianze, dalle colleganze, le recriminazioni, i conseguenti allontanamenti.
Ma tutto accade come per caso. Per incompetenza. Per
inanità. Tutto è apparentemente immobile, eppure si muove. Velocemente cambia.
E dunque, in sintesi, tre mi sembrano gli elementi fondanti la sua narrativa: la normalità, la sorpresa e il tempo.
Un altro esempio? “Ristorante nostalgia”, del 1982. Una donna terribile, Perla Tull, distrugge lentamente la sua famiglia.
.. finì la frase, e quando riprese a parlare si trattava di un argomento
completamente differente: il tempo. Come la gente sottovalutasse
il tempo, come il tempo fosse importante e così via. Luca ne fu sollevato.
Ascoltava senza difficoltà, cullato dalle parole di suo padre. “Tutto” stava
dicendo Cody, “in ultima analisi si riduce al tempo…al tempo che passa, alle cose che cambiano.
Ci hai mai pensato? Tutto quel che ti rende felice o triste non
si basa forse sui minuti che passano?
Ci vuol tempo sia per costruire
una famiglia, sia per distruggerla. Ci vuole tempo perché i personaggi della Tyler comprendano chi sono fino in fondo e lo raccontino.
Non eventi eclatanti, ma tempo: cioè piccoli eventi, insignificanti e parziali, minime
trasformazioni, giornaliere ovvietà di poco conto, messe in fila come perline
di plastica e calate nell’intimità di interni famigliari minori, che appaiono
prima in penombra e poi via, via, sempre
più illuminati dalla conoscenza. Col tempo tutto si fa più chiaro, più
visibile, anche le più incredibili stranezze. Perché i personaggi della Tyler sono effettivamente
piuttosto strani: maniacali, ossessivi,
irrisolti, ridicoli individui, chiusi nel loro piccolo moderno mondo americano.
Libro dopo libro, mi sembra di star popolando una città, dice la stessa Tyler in una delle sue rarissime interviste ancora rintracciabili sul web. Il suo è una sorta di censimento della fiction, quindi, e proprio per questo destinato a servirsi del tempo come di uno strumento di lavoro.
Anne Tyler, infatti, ha avuto bisogno di tempo per portare avanti il suo articolato progetto letterario, così tanto tempo da farmi dubitare che un lavoro simile possa farsi davvero, e con i medesimi risultati, se non si è nati nel 1941. Una scrittura matura, navigata, quella della Tyler, fatta di esperienza, molta esperienza. Una scrittura che richiede la forza dei decenni. È indubitabilmente così: questa donna, con grande maestria inventiva, compassione ed eccezionale capacità d’osservazione ha ricostruito un’intera città: la sua Baltimora. Piano, piano. Libro dopo libro.
Nata proprio da quelle parti, Anne Tyler lì ha vissuto e sposato un uomo di cultura araba. In tutti i suoi romanzi ha scelto di giocare su terreni noti, a lei cari, sui contrasti, sulle differenze, mescolando il vero alla finzione. I suoi romanzi affrontano spesso sia il tema dell’attaccamento alla radici quanto quello dell’estraneità alle stesse, della difficoltà ad ambientarsi in un paese straniero, della marginalità indotta dalla lingua e dalla cultura. Per descrivere tutto questo, i luoghi sono importanti almeno quanto lo sono gli individui che li abitano. Ecco perché nei suoi libri c’è Baltimora, sempre e comunque Baltimora. La sua città.
In “Una figlia perfetta”, anno 2007, infatti, l’adozione internazionale portata a termine da alcuni coniugi che vivono appunto a Baltimora, diventa occasione per parlare di quelle particolari comunità e della micro e macro diversità che le stesse comunità racchiudono al loro interno, di come questa diversità possa essere ostacolo e nello stesso tempo stimolo all’amore, quello filiale, amicale o erotico, sia in gioventù che in vecchiaia. In questa graduale e complessa costruzione geografica, inoltre, i personaggi femminili hanno un posto di grande rilievo. Sono le donne, le madri, le amiche, che fanno avanzare la storia. Nel recentissimo romanzo appena citato, nel dettaglio, sono proprio le donne a dialogare tra loro. Sono donne che vengono da luoghi del mondo differenti. Con differenti nostalgie. Comunicano attraverso la diversità della propria cucina, dei cibi, degli odori, dei sapori. Lo fanno servendosi dei ricordi della propria terra lasciata tempo addietro. Lo fanno scontrandosi. Quei ricordi, adeguatamente comunicati, consentono a sorpresa nuovi e più consapevoli radicamenti per ciascuna di loro. Un autentico piccolo miracolo del buon vicinato.
Ancora un altro esempio: “Le
storie degli altri”, anno
Così quando Sophia abbandonò la busta sulle
sue ginocchia e non la toccò più – non cercò di
aprirne neppure un angolino – provai invidia. Un’invidia immensa. Anch’io avrei voluto essere così! Ma
io in un modo o nell’altro, quella busta l’avrei aperta, anche con i denti.
Sohia è la normalità. Sophia è fantastica. È donna. Una pianura sconfinata, con mura fortificate tutto intorno. Sophia è un sollievo per me, che stento a capire le donne. Per me che fatico a riconoscere le donne della letteratura contemporanea, ora che le Emma Bovary, le Anne Karenina e le Natalija Rostova non mi bastano più. Per me che cerco umanità e trovo confini sessuali dalla durezza insuperabile, rivendicazioni di settore, piste privilegiate per animali protetti. E solitamente m’annoio. Sophia nella sua pienezza rende la follia ancor più folle, la competizione ancor più feroce, la violenza sulle donne ancor più violenta, l’amore ancor più rigido nei ruoli, le parole ancor più necessarie per quanto eccessive, la vita ancor più comica.
Lo dice anche Ben Joe Hawkes in “Se mai verrà il mattino”, anno 1964, romanzo d’esordio della Tyler.
Lui si limitò a sorridere: se anche avesse voluto,
non sarebbe riuscito a dire nemmeno una parola. Le sorelle gli stavano tutto
attorno, erano carine e allegre con le loro vestaglie color pastello, e se
fossero state zitte un momento avrebbe detto di essere
contento di vederle, pur sapendo che le avrebbe messe in imbarazzo, ma loro non
gliene avrebbero dato il tempo. Lisa gli tolse di mano il maglioncino
e lo sollevò sopra la testa in modo che le altre lo vedessero.
“ Allora, Ben Joe, ci hai portato un
maglione? Che carino, temo però che ci stia un po’ piccolo.”
“È stato via così a lungo che non sapeva quanto siamo cresciute”.
Questo esordio, in qualche maniera, anticipa il senso della complessa attività letteraria che ne è seguita. Quasi una dichiarazione d’intenti. Una folla di donne dai colori più vari, con differenti travagli esistenziali e diverso peso specifico affolla questo primo romanzo di Anne Tyler, infatti. Queste donne, sei sorelle, una madre, una nonna, una nipotina, connesse tra loro come i pezzi di una partita a scacchi condizionano l’esistenza di un solo uomo, Ben Joe, appunto, fratello, figlio, amico, zio amante. Una personalità maschile fragile, comicamente tragica, che attende il futuro, puntellandosi come può. Che attende la liberazione del mattino con molte incertezze.
Sì, la Tyler conosce le donne. Sa come ridere di loro o odiarle con discrezione, se necessario. È per questo che la lenta costruzione letteraria di una moderna normalità femminile sulla quale ha lavorato per anni ancora non m’annoia (pur avendo letto ormai quasi per intero la sua produzione narrativa), piuttosto mi lusinga, e non mi fa sentire estranea al mondo, come invece, molto spesso, mi è accaduto, in altre circostanze.