Lupi

Čingiz Ajtmatov

Da Il patibolo, trad. E.Klein, Mursia, Milano 1988 

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Seguendo il breve intiepidirsi del giorno, leggero come il respiro di un bambino, il tempo sui pendii montani esposti al sole era rapidamente cambiato, anche se in maniera impercettibile.

Dai ghiacciai era sceso il vento. Ombre brusche e precoci avevano invaso ovunque gli anfratti portandosi dietro il freddo pungente dell'imminente notte nevosa.

Di neve ce n'era molta intorno. Si era ammassata sui crinali di tutta la catena che bordava l'Issyk-Kul' durante la tormenta di due giorni prima. Era scoppiata improvvisa come un incendio che divampa senza ragione, per capriccio della natura. Era stato qualcosa di terribile. Nella tempesta furibonda erano scomparse le montagne, il cielo, tutto il mondo prima visibile. Poi si era placata e il tempo era schiarito. Da allora le montagne ingabbiate in enormi ammassi di neve se ne stavano intorpidite e in disparte da tutto, ferme in una quiete gelata.

E solo il fracasso insistente, incalzante di un grosso elicottero che s'infilava, a quell'ora vespertina, nel cañon Uzun-ča, turbava la pace. Era diretto al valico gelato di Ala-Mongu, annerito, a quell'altezza ventosa, da nuvole ritorte. Il rombo del suo avvicinarsi prendeva forza ad ogni istante e fině col trionfare: invase completamente lo spazio e navigň rintronante sopra le cime e i ghiacci ad alta quota, da nulla raggiungibili se non dal suono e dalla luce.

Moltiplicato all'infinito dall'eco dei crepacci e dei dirupi, il rombo incombeva con tale forza minacciosa e irreversibile da sembrare che in un attimo sarebbe accaduto qualcosa di terribile, come quella volta del terremoto... Era andata così: da un pendio ripido, pietroso e spogliato dai venti, quello entrato nella zona d'onda dell'elicottero, per l'urto sonoro, si era staccata una piccola frana subito fermatasi, come sangue che iniziando a scorrere è bloccato da una parola magica. Eppure quel colpo al terreno friabile e ripidamente inclinato era stato sufficiente a far rotolare alcune grosse pietre che, sbandando nella corsa e nelle circonvoluzioni, si erano trascinate dietro polvere e pietrisco fino alle falde del pendio. Come palle da cannone avevano sfondato cespugli di bacche e di crespino e trapassato cumuli di neve, raggiungendo una tana di lupi protetta dalla sporgenza di una roccia grigia, sistemata in un anfratto dietro la boscaglia e vicino a un tiepido ruscello che scorreva gelato solo per metà.

La lupa Akbara arretrò per le pietre e la neve caduta e, fuggendo nel buio della boscaglia, si raccolse tutta come una molla, la criniera ritta, gli occhi fosforescenti selvaggiamente accesi che guardavano fissi nella penombra, pronti all'attacco. Ma i suoi timori erano infondati. Più terribile sarebbe stato trovarsi nella steppa aperta, quando non c'era scampo alle persecuzioni dell'elicottero, che ti seguiva dappertutto, incalzante, assordante col sibilo delle sue eliche e le raffiche del suo fucile, quando in tutto il mondo non c'era un solo buco dove ficcare la testa - la terra non si sarebbe di certo aperta a dar riparo agli inseguiti.

Su per i monti era diverso - lì poteva sempre svignarsela, trovare un angolo in cui nascondersi e aspettare che il pericolo passasse. Lì l'elicottero non faceva paura, era lui ad aver paura. Eppure anche questa volta il terrore fu irragionevole, tanto più ch'era qualcosa di già noto, sofferto. Con l'approssimarsi dell'elicottero la lupa si mise a guaire rumorosamente, si raggomitolò tutta come una palla, infossò la testa, ma i suoi nervi non ressero, lanciò un urlo furioso e in preda a paura cieca strisciò convulsamente sulla pancia verso l'uscita. Battendo i denti per la rabbia e la disperazione era pronta a lottare, lì, sul posto, decisa a mettere in fuga il mostro metallico che strepitava sopra la sua tana e che col suo arrivo aveva perfino fatto rotolare i sassi dall'alto, come nel terremoto.

Con quegli urli di panico Akbara aveva richiamato alla tana il suo lupo Taščajnar. Da quando era gravida, lui non stava quasi mai nella tana, rimaneva fuori, nella boscaglia. Era detto Taščajnar, lo spaccapietre, dai pastori del luogo, gli čaban, per le sue mandibole tritatutto. Strisciň fino al giaciglio dov'era lei e cominciò a borbottare espressioni di conforto, a proteggerla con il suo corpo. Lei gli si stringeva vicina continuando a guaire, a lamentarsi ora dell'ingiustizia del cielo, ora di non si sa chi, ora del proprio infelice destino. Continuò a lungo ancora a tremare per tutto il corpo senza potersi controllare, anche dopo che l'elicottero era scomparso dietro il possente ghiacciaio dell'Ala-Mongu e dopo che il suo rumore era svanito oltre le nubi.

Proprio durante quella quiete montana che s'instaurò di colpo, simile a una colata di silenzio cosmico, la lupa sentì nettamente in sé, dentro il proprio grembo, agitarsi qualcosa di vivo. Una scoperta che aveva già fatto in altra occasione, agli inizi della sua vita di cacciatrice, quando, con un solo rapido colpo, aveva soffocato una grossa lepre: allora, nel ventre di questa, aveva avvertito lo stesso movimento di misteriosi esseri invisibili, nascosti agli occhi di tutti. Sorpresa, turbata da quel fatto insolito, la giovane lupa curiosa aveva drizzato le orecchie e osservato perplessa la lepre uccisa. Aveva perfino tentato di giocare con quei corpi invisibili proprio come il gatto con un topo tramortito. E ora scopriva dentro di sé gli stessi guizzi. Erano i nascituri che si facevano vivi, quelli destinati a vedere la luce per un fortunato concorso di circostanze, fra un paio di settimane. Ma per il momento i piccoli erano ancora inseparabih dal grembo materno, parte del suo essere, e quindi pativano nel loro oscuro, confuso inconscio lo stesso choc, la stessa disperazione della madre. Fu quello il primo indiretto incontro col mondo esterno, con la realtà ostile che li aspettava. E per quello si agitarono nel ventre, in risposta alle inquietudini della madre. Anch'essi provarono paura, quella stessa che il sangue materno aveva loro trasmesso. Ascoltando ciò che avveniva dentro di lei a sua stessa insaputa, il suo grembo, tornato a vivere, provò inquietudine. Il cuore cominciò a batterie più forte e si riempì di ardimento, di determinazione a difendere a tutti i costi la vita che portava in sé. Era pronta, ora, ad azzuffarsi con chicchessia. Parlava in lei l'istinto potente di difesa della discendenza. Si sentì, in quel momento, invadere dall'onda calda della tenerezza, dal bisogno di accarezzare, di riscaldare i piccoli nascituri, di dar loro il suo latte, come se fossero già lì, sotto il suo fianco. Era il presentimento della felicità. Chiuse gli occhi, gemette per la gioia, per l'attesa del latte che avrebbe inturgidito fino al rossore le due file di grossi capezzoli sul ventre, e si distese piano, languidamente, con tutto il corpo, per tutta la lunghezza della tana. Definitivamente tranquillizzatasi, si avvicinò di nuovo al suo Taščajnar dalla grigia criniera. Era un lupo possente, con la pelle calda, folta ed elastica. Aveva capito quello che provava lei, la madre lupa; col suo intuito aveva colto ciò che avveniva in quel ventre e ne era, evidentemente, commosso. Drizzò l'orecchio, sollevò la testa pesante, angolosa, e nello sguardo cupo delle fredde pupille profondamente infossate balenò un'ombra, un vago, piacevole presentimento. Gorgogliò, tossendo qualcosa di rauco: era il suo modo di esprimere la propria buona disposizione d'animo, la propria determinazione incondizionata a obbedirle, a proteggerla, e con tenera dedizione si mise a leccare la testa di Akbara, a leccarle soprattutto gli occhi blu e splendenti, il naso, con la sua lingua calda e umida. Akbara amava la lingua di Taščajnar e quando le si avvicinava e la accarezzava tremante d'impazienza con la lingua che bruciava per il tempestoso affluire di sangue e che diventava elastica, veloce, energica come un serpente, lei all'inizio fingeva indifferenza; anche nei momenti di quiete e di benessere, dopo un pasto abbondante per esempio, la lingua del suo lupo diventava morbida e umida.

In questa coppia Akbara era il capo, la mente, a lei spettava il diritto d'iniziare la caccia, lui era la forza fedele, sicura, instancabile; inderogabile esecutore della sua volontà. Questi ruoli non furono mai violati. Solo una volta accadde un fatto inaudito: il suo lupo scomparve fino all'alba e tornò con addosso l'odore estraneo di un'altra femmina, un odore disgustoso di lupa in calore che, senza pudore, richiamava i maschi ad azzuffarsi da decine di verste di distanza. Tutto ciò suscitò in lei un'ondata di rabbia incontenibile, lo respinse subito, gli affondò le zanne profondamente nella spalla e, come punizione, lo costrinse a zoppicarle dietro molti giorni a fila. Lo teneva a distanza, sciocco che non era altro, e per quanto guaisse non gli diede mai retta, né si fermò, quasi che lui, Taščajnar, non fosse il suo lupo, quasi che non esistesse neanche, e se solo avesse osato avvicinarsi per ammansirla e blandirla, non avrebbe esitato a usare la forza, non per nulla era lei il comandante in questa curiosa coppia grigia.

Ora Akbara rincuorata e riscaldata sotto l'ampio fianco di Taščajnar era grata al suo lupo per aver condiviso la sua paura e per averle, con ciň stesso, ridato fiducia; non respinse quindi le sue assidue carezze, ma in risposta gli leccò due volte le labbra e, vincendo il turbamento che ancora persisteva sotto forma di tremito, si concentrò su se stessa. Prestò ascolto ai cuccioli che sarebbero nati e che si comportavano in modo incomprensibile e irrequieto. Si riconciliò con quello che aveva: con la tana, col rigido inverno di montagna, con la notte di gelo che stava scendendo.

Terminò così quella giornata di terribile sconvolgimento.

Dominata dall'insopprimibile istinto di madre natura, soffriva non tanto per sé, quanto per coloro ch'erano attesi in quella tana e in vista dei quali lei e il lupo si erano sistemati proprio lì, nel fondo della spaccatura, sotto la sporgenza della roccia coperta da boscaglia, da alberi schiantati nella tempesta, da pietre rotolate: un nido dove far nascere la prole e assicurarle un rifugio. Tanto più che Akbara e Taščajnar non erano del posto. A un occhio esperto anche il loro aspetto esteriore indicava ch'erano diversi dagli altri lupi del luogo. Innanzitutto per i risvolti di pelo sul collo, che bordavano compatti le spalle e parevano una sontuosa mantella grigio-argento dalla gola al garrese: risvolti così chiari erano propri dei lupi della steppa. E poi anche nella statura, le criniere grigie, gli "akgiali" superavano i soliti lupi montani dell'Issyk-Kul'. A guardare da vicino Akbara inoltre si restava colpiti dai suoi occhi blu-trasparenti, caso eccezionale e forse unico nel suo genere. All'inizio i pastori della zona l'avevano soprannominata Akdala, cioè Biancogarrese, ma in seguito, per via di trasformazioni linguistiche, era diventata Akbarà e poi Akbàra la Grande, senza che nessuno scorgesse in questo un segno del destino.

Solo un anno prima, non c'era traccia lì, nell'Issyk-Kul' di criniere grigie. E anche una volta comparse, continuarono a vivere in disparte. All'inizio si aggiravano per zone neutrali evitando di scontrarsi con i lupi locali e di sconfinare nei loro possedimenti. Si arrangiavano come potevano con la preda, spingendosi anche allo scoperto, nelle zone basse del fiume frequentate dagli uomini, ma non si unirono mai ai branchi del luogo: Akbara aveva un carattere troppo indipendente per legarsi a estranei e sottostare ad altri.

Arbitro di tutto, il tempo. Col tempo i nuovi arrivati riuscirono a organizzarsi per conto proprio; con vari scontri anche sanguinosi si conquistarono alcuni territori sulle alture dell'Issyk-Kul', ne divennero padroni e i lupi locali non osarono più violare i loro confini. Fu così che sistemarono la loro vita sull'Issyk-Kul'. Ma dietro avevano tutta una storia: se gli animali avessero la facoltà di ricordare il passato, tanto più l'avrebbe Akbara, che si distingueva da tutti per l'intelligenza e la sensibilità e a cui il destino aveva dato in sorte di rivivere ciò che già una volta le aveva procurato tante lacrime e pena.

In un mondo sperduto nella lontana savana del Mojunkum, la vita di caccia scorreva grandiosa: inseguimenti senza fine, in spazi senza fine, dietro mandrie sterminate di saighe.

Lì da tempi immemorabili questi artiodattili dal naso adunco, antichi come il tempo, abitavano le steppe della savana coperta dall'eternamente secco saksaul. Correvano instancabili, a branchi, con le narici dilatate per accogliere ondate d'aria da immettere nei polmoni, con la stessa energia con cui le balene si lasciano attraversare da fiumi di oceano. Per questo potevano correre dall'alba al tramonto senza prender fiato, inseguite dagli eterni lupi, eternamente inseparabili da esse, fin dagli esordi del mondo. Capitava che una delle mandrie spaventate contagiasse quella a fianco col suo panico e questa, a sua volta una terza. Così si produceva una corsa generale di grandi e piccole mandrie che s'incontravano e sfrecciavano insieme per le colline, le pianure, le sabbie del Mojunkum, simili a un diluvio che si rovescia e scorre sulla terra. E la terra rifuggiva all'indietro e fischiava sotto le zampe, come fischia sotto una grandinata estiva, e l'aria si riempiva dell'odore turbinoso del movimento, di polvere pietrosa, di schegge sollevate dagli zoccoli, di sudore (la folle gara non era per la vita, ma per la morte). I lupi correvano dietro e di fianco cercando di far cadere le antilopi in agguati predisposti, dove altri grossi lupi le aspettavano nascosti fra i saksaul. Scattavano dal nascondiglio al passaggio frenetico della vittima, la fermavano per il garrese e, ruzzolando insieme le azzannavano la gola e la aprivano al sangue; poi di nuovo via all'inseguimento, ma le antilopi riuscivano spesso, chissà come, a riconoscere gli agguati e a scansarli; la caccia ricominciava allora più veloce e rabbiosa di prima e tutti quanti, inseguiti e inseguitori, nel crudele circolo dell'esistenza, s'immergevano nella corsa come in un'agonia estrema, col sangue acceso, chi per vivere, chi per sopravvivere, e solo Dio avrebbe potuto fermarli, giacché la posta in gioco erano la vita e la morte. Anche per i lupi. Quelli di loro che non reggevano al ritmo rabbioso, che non erano nati per la lotta-corsa dell'esistenza, che crollavano di fatica e restavano a terra, nel polverone sollevato dalla competizione a oltranza, erano finiti.

Anche se rimanevano in vita dovevano andarsene in altre terre a guadagnarsi da vivere assaltando pecore inoffensive che non tentavano nemmeno di salvarsi con la fuga. Lì però c'era un altro pericolo, più terribile di tutti quelli immaginati, c'erano gli uomini, che per le pecore erano dei, ed anche loro schiavi, uomini che vivevano, ma non lasciavano vivere gli altri, soprattutto quelli che non volevano dipendere da nessuno, ma essere liberi...

Uomini, uomini, uomini-dei! Anche gli uomini cacciavano le antilopi nella savana del Mojunkum. La prima volta erano apparsi a cavallo, vestiti di pelli, armati di frecce, poi con fucili. Galoppavano di qua e di là e le antilopi fuggivano a schiera in ogni direzione. Non c'era modo di raggiungerle nella boscaglia di saksaul. Ma un bel giorno gli uomini-dei inaugurarono la caccia con le macchine e presero le antilopi per sfinimento. Esattamente come avevano fatto i lupi, le abbattevano durante la corsa. Poi gli uomini-dei arrivarono con gli elicotteri e individuando dall'alto i branchi di antilopi nella steppa, fissavano le coordinate della loro posizione; a terra tiratori scelti le inseguivano sulle pianure alla velocità di cento chilometri all'ora o più. Le antilopi non ce la facevano a nascondersi e così dall'alto gli elicotteri correggevano la mira e il movimento. Macchine, elicotteri, fucili, la vita della savana era sconvolta da cima a fondo...

Akbara, la lupa dagli occhi blu non era ancora del tutto adulta e il suo futuro consorte Taščajnar era appena piů vecchio di lei, quando venne il momento delle grandi battute di caccia. All'inizio non ce la facevano a tenere il passo, sbranavano le antilopi cadute, finivano quelle mezzo morte, ma col tempo superarono in forza e in resistenza molti altri lupi, soprattutto quelli alle soglie della vecchiaia. E se le cose fossero andate come la natura aveva predisposto, in breve sarebbero diventati capi del branco. Ma tutto avvenne in altro modo...

Ogni anno è diverso dall'altro e la primavera di quell'anno fu particolarmente fertile per la specie delle antilopi; molte femmine partorirono gemelli; l'autunno prima, infatti, l'erba già secca era rinverdita due volte dopo alcune piogge abbondanti, seguite da un tempo mite. Il foraggio era stato ricco, la natalità anche.

Al momento dei parti, all'inizio della primavera, le antilopi erano partite per le grandi sabbie senza neve, in fondo al Mojunkum, dove non era facile per i lupi raggiungerle, impossibile inseguirle sulle dune. I lupi però si erano rifatti in autunno e in inverno quando le migrazioni stagionali degli animali avevano portato una sovrabbondanza di prede negli spazi semideserti della steppa. Era Dio che ordinava loro di prendersi la loro parte. D'estate invece, con la grande calura, i lupi preferivano ignorare le antilopi, tanto più che c'era altra preda, più accessibile, a disposizione: una quantità di marmotte infatti scorrazzava per la steppa cercando di recuperare il tempo perduto nel letargo invernale. Durante l'estate dovevano concentrare ciò che gli altri animali potevano distribuire nel corso dell'anno. Si davano dunque un gran daffare intorno alle famiglie di marmotte senza incorrere in alcun pericolo. Non era forse caccia anche questa? Per ogni cosa infatti c'è il suo tempo, e d'inverno le marmotte non c'erano. E poi nei mesi estivi trovavano altri animaletti, uccelli e pernici soprattutto. Ma la preda ambita, vera, erano le antilopi e la grande caccia avveniva in autunno e si protraeva per tutto l'inverno. Per ogni cosa c'è il suo tempo. Questa era la vita varia della savana, quella assegnata dalla natura. E solo calamità naturali, o l'uomo, potevano alterare questa marcia delle cose nel Mojunkum...