La donna a casa, l'uomo a caccia

Lev Tolstoj 

Da Anna Karenina, tr. L.Ginzburg, Torino 1993

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Lévin è Tolstoj. Tolstoj è stato un grande cacciatore, e della caccia sa tutto. Questo si vede nella celebre scena della caccia al lupo in Guerra e Pace, e questo si vede nelle scene di caccia ai beccaccini di Anna Karenina. La rivalità tra maschi che con la gelosia si eccita in presenza della femmina, quella stessa rivalità nella caccia si stempera e si placa. [F.B.]

 

Lévin tornò a casa soltanto quando mandarono a chiamarlo a cena. Sulla scala stavano Kitty e Agàfija Michàjlovna, consigliandosi riguardo ai vini per la cena.

- Ma perché fate un fuss così? Servite quello che è solito.

- No, Stiva non beve... Kòstja, aspetta, che t'è capitato? - cominciò a dire Kitty seguendolo, ma lui, senz'aspettarla, se ne andò implacabilmente a gran passi in sala da pranzo ed entrò subito nell'animata conversazione generale, che là sostenevano Vàregnka, Veslòvskij e Stepàn Arkàdjevič.

- Su, ebbene, domani andiamo a caccia? - disse Stepàn Arkàdjevič.

- Andiamo per favore, - disse Veslòvskij, mettendosi a sedere di fianco su un'altra sedia e ripiegando sotto di sé una delle sue gambe grasse.

- Io son molto contento, andiamo. E voi avete già cacciato quest'anno? - disse Lévin a Veslòvskij, esaminando attentamente la sua gamba, ma con una finta piacevolezza che Kitty conosceva così bene in lui e che gli stava così male. - Beccaccini non so se ne troveremo, ma beccacce ce n'è molte. Soltanto bisogna andare presto. Non vi stancherete? Non sei stanco, Stiva?

- Io stanco? Non sono ancora mai stato stanco. Vogliamo non dormire tutta la notte? Andiamo a passeggio!

- Davvero vogliamo non dormire? ottimamente! - confermò Veslòvskij.

- Oh, di questo siamo sicuri, che tu possa non dormire e non lasciar dormire gli altri, - disse Dolly al marito con quell'ironia appena percettibile con cui adesso trattava quasi sempre il marito. - E secondo me adesso è già ora... Io vado, non ceno.

- No, rimani a sedere, Dòllegnka, - disse Stepàn Arkàdjevič, passando dalla sua parte alla tavola grande su cui cenavano. - Ti racconterň ancora tante cose.

- Probabilmente nulla.

-E sai, Veslòvskij è stato da Anna. E va di nuovo da loro. Perché non sono che a settanta verste da voi. E anch'io ci andrò assolutamente. Veslòvskij, vieni qua!

Vàsegnka passò presso le signore e sedette accanto a Kitty.

- Ah, raccontate, per favore, siete stato da lei? come è? - si rivolse a lui Dàrja Aleksàndrovna.

Lévin era rimasto all'altra estremità della tavola e, senza cessar di discorrere con la principessa e Vàregnka, vedeva che fra Stepàn Arkàdjevič, Dolly, Kitty e Veslòvskij c'era un'animata e misteriosa conversazione. Non solo c'era una conversazione misteriosa, egli vedeva sul volto di sua moglie l'espressione d'un sentimento serio quando ella, senz'abbassar gli occhi, guardava il bel volto di Vàsegnka che raccontava animatamente qualcosa.

- Da loro si sta molto bene, - raccontava Vàsegnka di Vrònskij e Anna. - Io, s'intende, non assumo la responsabilità di giudicare, ma in casa loro ti senti in famiglia.

- E cosa hanno intenzione di fare?

- Pare che per l'inverno vogliano andare a Mosca.

- Come sarebbe bene che c'incontrassimo da loro! Tu quando andrai? - domandò Stepàn Arkàdjevič a Vàsegnka.

- Passerò il luglio da loro.

- E tu andrai? - si rivolse Stepàn Arkàdjevič alla moglie.

- Io è un pezzo che lo volevo e ci andrò assolutamente, -disse Dolly. - Lei mi fa pena, e la conosco. E' un'ottima donna. Andrò da sola, quando tu sarai andato via, e con questo non darò impacci a nessuno. Ed è anzi meglio senza di te.

- E ottimamente, - disse Stepàn Arkàdjevič. - E tu, Kitty?

- Io? Perché andrei? - disse Kitty, infiammandosi tutta, e si volse a guardare il marito.

- Ma voi conoscete Anna Arkàdjevna? - domandò Veslòvskij. - E una donna molto attraente.

- Sì, - rispose ella a Veslòvskij, arrossendo ancor di più, si alzò e si avvicinò al marito.

- Allora domani vai a caccia? - diss'ella.

La gelosia di lui, in quei pochi minuti, particolarmente a causa del rossore che le aveva coperte le guance quand'ella parlava con Veslòvskij, si era già spinta lontano. Adesso, ascoltando le parole di lei, egli le capiva già a modo suo. Per quanto gli fosse strano rammentar questo dopo, adesso gli pareva chiaro che, se lei gli domandava se andava a caccia, questo la interessava soltanto per sapere se egli avrebbe procurato questo piacere a Vàsegnka Veslòvskij, di cui, secondo le sue idee, era già innamorata.

- Sì, andrò, - egli le rispose con una voce innaturale, a lui stesso antipatica.

- No, è meglio che domani rimaniate per un giorno, se no Dolly non ha visto affatto il marito; e domani l'altro andate, - disse Kitty.

Il senso delle parole di Kitty adesso era già tradotto da Lévin così: "Non mi separare da lui. Che tu parta, per me è lo stesso, ma permettimi di godere la compagnia di questo delizioso giovanotto".

- Ah, se vuoi, domani rimarremo, - rispose Lévin con particolare piacevolezza.

Vàsegnka frattanto, non sospettando per niente la sofferenza che veniva arrecata dalla sua presenza, s'alzò da tavola dopo di Kitty e, seguendola con uno sguardo sorridente, affabile, le andò dietro.

Lévin aveva visto questo sguardo. Impallidì e per un minuto non poté emettere il respiro. "Come mai si permette di guardar mia moglie così!" gli bolliva dentro.

- Allora domani? Andiamo, per favore, - disse Vàsegnka, sedendosi su una sedia e piegando sotto di nuovo una gamba secondo la sua abitudine.

La gelosia di Lévin si spinse ancora più lontano. Egli si vedeva già un marito ingannato, di cui la moglie e l'amante avevan bisogno soltanto perché egli procurasse loro i comodi della vita e i piaceri... Ma, malgrado questo, interrogava cortesemente e ospitalmente Vàsegnka sulle sue cacce, il fucile, gli stivali e acconsentì ad andar via l'indomani.

Per fortuna di Lévin, la vecchia principessa fece cessare le sue sofferenze con l'alzarsi lei stessa e consigliare a Kitty d'andare a letto. Ma anche qui la cosa non fu senza una sofferenza per Lévin. Salutando la padrona di casa, Vàsegnka voleva di nuovo baciarle la mano, ma Kitty, arrossendo, con un'ingenua villania di cui poi la sgridò la principessa, disse, allontanando la mano: - Questo da noi non usa.

Agli occhi di Lévin ella era colpevole per aver ammessi simili rapporti, ed era ancora più colpevole per aver fatto vedere così goffamente che non le piacevano.

- Via, che gusto c'è a dormire! - disse Stepàn Arkàdjevič, che dopo i parecchi bicchieri di vino bevuti a cena era adesso del suo umore più simpatico e poetico. - Guarda, Kitty, - egli diceva, indicando la luna che si levava di là dai tigli, - che delizia! Veslòvskij, ecco quando ci vorrebbe una serenata. Sai, ha una bella voce, io e lui abbiamo cantato insieme in viaggio. Ha portato con sé delle romanze bellissime, due nuove. Sarebbe bene cantare con Varvàra Andréjevna.

 

Quando tutti si lasciarono, Stepàn Arkàdjevič camminò ancora a lungo con Veslòvskij per il viale, e si sentivano le loro voci che s'accordavano su una nuova romanza.

Ascoltando queste voci, Lèvin, accigliato, stava seduto su una poltrona nella camera della moglie e taceva ostinatamente alle domande di lei su cosa gli fosse accaduto; ma quando alla fine lei stessa, sorridendo timidamente, domandò: - Non t'è poi piaciuto qualcosa in Veslòvskij? - ogni freno si ruppe in lui ed egli disse tutto; quello che diceva lo offendeva e perciò lo irritava ancor di più.

Egli stava ritto dinanzi a lei con gli occhi tremendamente scintillanti di sotto alle ciglia aggrondate e stringeva al petto le mani forti, come tendendo tutte le proprie forze per trattenersi. L'espressione del suo volto sarebbe stata severa e perfino crudele, se non avesse espresso nello stesso tempo una sofferenza che la commoveva. Gli zigomi gli tremavano, e la voce si rompeva.

- Tu devi capire che io non sono geloso: è una parola abominevole. Io non posso esser geloso e credere che... Non posso dire quel che sento , ma è orribile... Non sono geloso, ma sono umiliato, offeso dal fatto che qualcuno osi pensare, osi guardarti con occhi così...

- Ma con che occhi? - diceva Kitty, cercando di ricordare il più coscienziosamente possibile tutti i discorsi e i gesti di quella sera e tutte le loro sfumature.

Nel profondo dell'animo riteneva che ci fosse stato qualcosa proprio nel momento in cui egli era andato a sedersi dietro lei all'altra estremità della tavola, ma non osava confessarlo neanche a se stessa, tanto più non osava dirlo a lui e con questo render più forte la sua sofferenza.

- E cosa può mai esserci di attraente in me come sono?…

- Ah! - egli gridò mettendosi le mani nei capelli. - Sarebbe meglio che tu non parlassi... Vuol dire che se tu fossi attraente…

- Ma no, Kòstja, ma aspetta, ma ascolta! - ella diceva guardandolo, con un'espressione di martirio e di compatimento.

- Su, cosa puoi mai pensare? Quando per me non c'è persone, non ce n'è, non ce n'è!... Su, vuoi che non veda nessuno?

Nel primo momento la gelosia di lui le era apparsa offensiva; era stizzita che la minima distrazione e la più innocente le fosse proibita; ma adesso avrebbe sacrificato volentieri anche non delle sciocchezze simili, ma ogni cosa per la tranquillità di lui, per liberarlo dalla sofferenza che provava.

- Tu devi capire l'orrore e la comicità della mia situazione - egli proseguì con sussurro disperato, - che lui è in casa in casa mia, che propriamente non ha mica fatto nulla di sconveniente, eccettuata quella disinvoltura e quel piegar sotto le gambe. Lui considera questo come del miglior tono, e perciò devo esser cortese con lui.

- Ma, Kòstja, tu esageri, - diceva Kitty, rallegrandosi nel profondo dell'animo di quella forza d'amore per lei che s'esprimeva adesso nella sua gelosia.

- Il più orribile di tutto è che tu sei come sempre, e adesso quando tu sei una cosa così sacra per me, e noi siamo così felici, così particolarmente felici, e a un tratto un simile sudiciume…Non sudiciume, perché lo ingiurio? Lui non mi riguarda. Ma per cosa la mia, la tua felicità?...

- Sai, lo capisco, perché è avvenuto, - cominciò Kitty.

- Perché? perché?

- Ho visto come guardavi quando parlavamo a cena.

- Eh sì, eh sì! - disse Lévin con spavento.

- Ella gli raccontò di che parlavano. E, raccontando questo, veniva meno il respiro per l'agitazione. Lévin stette un po' zitto, poi le esaminò il volto pallido, spaventato, e a un tratte mise le mani nei capelli.

- Kàtja, ti ho sfinita! Golúbcik, perdonami! E' una pazzia! Kàtja, son proprio colpevole. E si poteva tormentarsi tanto per una sciocchezza così?

- No, mi fai pena.

- Io? Io? Cosa sono io, un pazzo!... Ma perché? E orribile pensare che qualsiasi persona estranea può turbare la nostra felicità.

- S'intende, appunto questo è offensivo.

- No, allora io, al contrario, lo lascerò stare apposta da noi tutta l'estate e lo colmerò di cortesie, - diceva Lévin, baciandole le mani. - Ecco vedrai. Domani... Sì, è vero, domani andiamo via.

 

VIII.

Il giorno dopo, le signore non s'erano ancora alzate, che i veicoli per la caccia, un calesse e un barroccino, eran fermi all'ingresso, e Làska, che aveva capito fin dal mattino che s'andava a caccia, dopo aver mugolato e saltato a sazietà, era seduta sul calesse vicino al cocchiere, guardando agitata e con disapprovazione per l'indugio la porta da cui avevan sempre ancora da uscire i cacciatori. Per primo uscì Vàsegnka Veslòvskij con grandi stivali nuovi che giungevano fino a metà delle cosce grasse, un camiciotto verde, cinto da una nuova cartuccera che odorava di pelle, e il suo berrettino dai nastri, e con un fucile inglese nuovo nuovo senza ganci e bandoliera. Làska gli saltò incontro, lo salutò, gli domandò a modo suo saltando se quelli sarebbero usciti presto, ma, non avendone ricevuta risposta, tornò al suo. posto d'attesa e trattenne di nuovo il respiro, volgendo il capo da un lato e tendendo un'orecchia. Finalmente la porta s'aprì con fracasso, corse fuori, girando e volgendosi all'aria, Crac, il pointer pezzato di giallo di Stepàn Arkàdjevič, e uscì lo stesso Stepàn Arkàdjevič col fucile in mano e col sigaro in bocca. "Tubò, tubò, Crac!" egli gridava carezzevolmente al cane, che gli poneva le zampe sul ventre e sul petto, impigliandosi con esse nella carniera. Stepàn Arkàdjevič aveva indosso delle calzature d'un sol pezzo e delle fasce, dei pantaloni strappati e un cappotto corto. In testa aveva il rudere d'un cappello, ma il fucile di nuovo sistema era un giocattolino e la carniera e la cartuccera, benché fruste, erano della più gran bontà.

Vàsegnka Veslòvskij prima non capiva questa vera eleganza venatoria: esser coperto di cenci, ma avere gli strumenti della caccia della miglior qualità. Lo capì adesso, guardando Stepàn Arkàdjevič, che fra quei cenci splendeva con la sua signorile figura elegante, ben nutrita e allegra, e decise che per la prossima caccia si sarebbe assolutamente preparato così.

- Su, il nostro padron di casa che fa? - egli domandò.

- Una moglie giovane, - disse Stepàn Arkàdjevič sorridendo.

- Sì, e così deliziosa.

- Era già vestito. Probabilmente è corso di nuovo da lei.

Stepàn Arkàdjevič aveva indovinato. Lévin era corso di nuovo dalla moglie a domandarle ancora una volta se lo aveva perdonato per la sciocchezza del giorno prima, e ancora per pregarla d'esser prudente in nome di Cristo. Soprattutto che stesse lontano dai bambini, loro potevan sempre darle uno spintone. Poi, bisognò ancora una volta ricever da lei la conferma che non era arrabbiata con lui perché partiva per due giorni, e ancora pregarla di mandargli assolutamente un biglietto l'indomani mattina con un messo a cavallo, di scriver magari soltanto due parole, solo perché egli potesse sapere che lei era contenta.

Per Kitty, come sempre, era doloroso separarsi dal marito per due giorni; ma, vista la sua figura animata, che sembrava particolarmente grande e forte con gli stivali da caccia e il camiciotto bianco, e un certo per lei incomprensibile splendore di eccitazione venatoria, per la gioia di lui dimenticò il proprio cruccio e lo salutò allegramente.

- Perdonate, signori! - diss'egli, venendo di corsa sulla scalinata. - La colazione l'hanno messa? Perché il sauro a destra? Su, è lo stesso. Làska, lascia stare, va' a sederti!

- Lasciali andare nell'armento giovane, - si rivolse egli al vaccaio, che lo aveva aspettato vicino alla scalinata con una domanda a proposito dei torelli castrati. - Perdonate, ecco che viene ancora uno scellerato.

Lévin saltò giù dal calesse, dove voleva già sedersi, incontro al legnaiolo imprenditore, che veniva verso la scalinata con una sažégn.

- Ecco, ieri non sei venuto all'amministrazione, adesso mi fai perdere tempo. Su, cosa?

- Ordinate di fare ancora un giro. D'aggiunger solamente tre scalini. E ce l'adatteremo proprio giusto. Sarà molto più comoda.

- Tu mi dovresti ascoltare, - rispose Lévin con stizza. - Io t'avevo detto, metti a posto le pareti di sostegno e poi incastra gli scalini. Adesso non potrai correggere. Fa' come ho ordinato, tagliane una nuova.

Il fatto era che nell'ala di fabbricato che si costruiva l'imprenditore aveva sciupata la scala, tagliandola separatamente e senza calcolar la pendenza, sicché tutti gli scalini eran riusciti inclinati, quando l'avevano messa a posto Adesso l'imprenditore voleva, lasciando la medesima scala, aggiungervi tre scalini.

- Sarà molto meglio.

- Ma dove ti uscirà mai coi tre scalini?

- Fatemi la grazia, signore, - disse il legnaiolo con un sorriso sprezzante. - Uscirà proprio giusto. Allora vuol dire che comincerà di giù, - diss'egli con un gesto convincente, - andrà, andrà su e arriverà.

- Ma tre scalini aumenteranno anche la lunghezza... E dove arriverà?

- Allora vuol dire che, come andrà di giù, così pure arriverà, - diceva insistentemente e con persuasione l'imprenditore.

- Sotto il soffitto e nel muro arriverà.

- Fatemi la grazia. Vedete, comincerà di giù. Andrà, andrà su e arriverà.

Lévin tirò fuori la bacchetta del fucile e cominciò a disegnargli una scala sulla polvere.

- Su, vedi?

- Come ordinate, - disse il legnaiolo, mentre gli si rischiaravan gli occhi a un tratto e, evidentemente, avendo infine capita la cosa. - Si vede che bisogna tagliarne un'altra.

- Eh, così, fa' appunto così come t'è stato comandato, - gridò Lévin, sedendosi in calesse. - Via! Tieni i cani, Filipp!

Lévin adesso, avendo lasciati dietro di sé tutti i pensieri familiari ed economici, provava un così forte sentimento di gioia della vita e di attesa, che non aveva voglia di parlare. Inoltre provava quel senso di agitazione concentrata che prova ogni cacciatore, avvicinandosi al luogo dell'azione. Se qualcosa pure lo occupava adesso, eran soltanto le questioni: se avrebbero trovato qualcosa nella palude di Kòlpeno, come si sarebbe dimostrata Làska in confronto a Crac, e come lui stesso quel giorno sarebbe riuscito a tirare. E se si fosse coperto di vergogna dinanzi a una persona nuova? E se Oblònskij l'avesse superato nel tiro? - gli veniva pure in mente.

Oblònskij provava un sentimento simile ed era poco loquace anche lui. Il solo Vàsegnka Veslòvskij discorreva allegramente senz'interrompersi. Adesso, ascoltandolo, Lévin si vergognava di rammentare com'era stato ingiusto con lui il giorno prima. Vàsegnka era realmente un bravo ragazzo, semplice, bonario e molto allegro. Se Lévin l'avesse incontrato da scapolo, si sarebbe fatto intimo con lui. A Lévin dispiaceva un pochino il suo modo ozioso di veder la vita e una certa disinvolta eleganza. Come se egli si riconoscesse un alto indubitabile valore perché aveva le unghie lunghe e il berrettino e il resto in corrispondenza; ma questo si poteva scusare per la sua bonarietà e distinzione. Egli piaceva a Lévin per la sua buona educazione, l'ottima pronuncia nelle lingue francese e inglese e perché era un uomo del suo mondo.

A Vàsegnka piaceva straordinariamente il cavallo di steppa del Don che era al bilancino sinistro. Non faceva che estasiarsene: - Com'è bello galoppare per la steppa su un cavallo di steppa. Eh? Non è vero? - egli diceva. Nel cavalcare un cavallo di steppa s'immaginava qualcosa di selvaggio, di poetico, da cui non veniva fuori nulla; ma la sua ingenuità, in particolar modo insieme con la sua bellezza, il sorriso simpatico e la grazia dei movimenti, era molto attraente. Fosse perché la sua natura era simpatica a Lévin, o perché Lévin cercava in espiazione del peccato del giorno avanti di giudicar tutto buono in lui, a Lévin faceva piacere stargli assieme.

Allontanatisi tre verste, Veslòvskij a un tratto s'accorse che non aveva i sigari e il portafoglio e non sapeva se li aveva perduti o lasciati sulla tavola. Nel portafoglio c'erano trecentosessanta rubli e perciò non si poteva lasciar la cosa così.

- Sapete cosa, Lévin, io faccio una galoppata fino a casa su questo cavallo del Don del bilancino. Sarà un'ottima cosa. Eh? - egli diceva, preparandosi già a montare.

- No, perché mai? - rispose Lévin, che calcolava che Vàsegnka non doveva avere meno di sei pudy di peso. - Manderò il cocchiere.

Il cocchiere andò sul cavallo del bilancino, e Lévin si mise a guidar lui stesso la pariglia.

 

IX.

- Su, qual è dunque il nostro itinerario? Esponilo un po' per benino, - disse Stepàn Arkàdjevič.

- Il piano è il seguente: adesso andiamo fino a Gvozdjòvo. A Gvozdjòvo c'è una palude da beccaccini da questa parte, e dietro Gvozdjòvo vengono delle maravigliose paludi da beccacce, e ci son anche dei beccaccini. Adesso fa caldo, e noi verso sera (venti verste) arriveremo e faremo la caccia della sera; pernotteremo, e domani poi nelle paludi grandi.

- E per strada non c'è niente forse?

- C'è; ma perderemmo del tempo, e fa caldo. Ci sono due bei posticini, ma è difficile che ci sia qualcosa.

A Lévin stesso era venuta voglia d'andare in quei posticini, ma i posticini eran vicini a casa, li poteva sempre fare, e i posticini erano piccoli, per tre non c'era posto da tirare. E perciò andava contro coscienza dicendo che era difficile che ci fosse qualcosa. Giunti all'altezza d'una piccola palude, Lévin voleva passarle accanto senza fermarsi, ma l'esperto occhio venatorio di Stepàn Arkàdjevič vide subito l'acquitrino dalla strada.

- Non ci passiamo? - diss'egli, indicando la piccola palude.

- Lévin, per favore! che cosa magnifica! - cominciò a pregare Vàsegnka Veslòvskij, e Lévin non poté non acconsentire.

Non fecero a tempo a fermarsi, che i cani, sorpassandosi l'un l'altro, volavano già verso la palude.

- Crac! Làska!...

I cani tornarono.

- In tre si sarà allo stretto. Io rimarrò qui, - disse Lévin, sperando che non avrebbero trovato niente, tranne le pavoncelle che s'erano alzate a causa dei cani e, dondolandosi in volo, piangevano lamentosamente sopra la palude.

- No! Andiamo, Lévin, andiamo insieme! - chiamava Veslòvskij.

- Davvero, si sarà allo stretto. Làska, indietro! Làska! Non avete mica bisogno d'un altro cane?

Lévin rimase vicino alla linjéjka e guardava con invidia i cacciatori. I cacciatori attraversarono tutta la piccola palude. Tranne una gallinella e le pavoncelle, di cui una la uccise Vàsegnka, nella piccola palude non c'era nulla.

- Su, ecco, vedete che non mi rincresceva per la palude, -disse Lévin, - si perde soltanto del tempo.

- No, però è allegro. Avete visto? - diceva Vàsegnka Veslòvskij, montando goffamente sul calesse col fucile e la pavoncella in mano. - Come l'ho ammazzata bene questa! Non è vero? Via, arriveremo presto dove si fa sul serio?

A un tratto i cavalli si slanciarono avanti, Lévin picchiò il capo contro la canna del fucile di qualcuno, ed echeggiò uno sparo. Lo sparo propriamente era echeggiato prima, ma così parve a Lévin. Il fatto era che Vàsegnka Veslòvskij, abbassando i cani, premeva un grilletto, e tratteneva l'altro cane. La cartuccia entrò nel terreno, senz'aver fatto del male a nessuno. Stepàn Arkàdjevic scosse il capo e rise con aria di rimprovero rivolto a Veslòvskij. Ma Lévin non aveva il coraggio di sgridarlo. In primo luogo, qualsiasi rimprovero sarebbe apparso provocato dallo scampato pericolo e dal bernoccolo ch'era saltato fuori sulla fronte di Lèvin; e in secondo luogo, Veslòvskij fu dapprima così ingenuamente addolorato e poi rise in modo tanto bonario e attraente della loro comune confusione, che non poteva non ridere lui stesso.

Quando si avvicinarono alla seconda palude, che era abbastanza grande e doveva prender molto tempo, Lévin li esortò a non scendere. Ma Veslòvskij lo supplicò di nuovo. Di nuovo, giacché la palude era stretta, Lévin da padrone ospitale, rimase vicino ai veicoli.

Fin dal momento dell'arrivo Crac si spinse verso dei monticelli. Vàsegnka Veslòvskij corse per primo dietro al cane. E Stepàn Arkàdjevič non fece a tempo ad avvicinarsi, che era giŕ volato fuori un beccaccino. Veslňvskij fece cilecca, e il beccaccino si posò su un prato non falciato. Questo beccaccino fu lasciato a Veslòvskij. Crac lo trovò di nuovo, si fermò, e Veslòvskij lo uccise e tornò verso i veicoli.

- Adesso andate voi, e io rimarrò coi cavalli, - diss'egli.

Lévin cominciava a esser tormentato dalla gelosia venatoria. Consegnò le redini a Veslòvskij e andò nella palude.

Làska, che già da lungo tempo guaiva lamentevolmente e si lagnava dell'ingiustizia, si avventò innanzi dritto verso un gruppo di monticelli scuro, noto a Lévin, a cui Crac non era ancora andato.

- Come mai non la fermi? - gridò Stepàn Arkàdjevič.

- Non lo spaventerà, - rispose Lévin, rallegrandosi per il cane e affrettandoglisi dietro.

Il cercare di Làska, quanto più essa si accostava ai monticelli noti, tanto più si faceva serio. Un piccolo uccellino di palude la distrasse soltanto per un attimo. Fece un giro dinanzi ai monticelli, ne cominciò un altro e a un tratto ebbe un brivido e s'irrigidì.

- Va', va', Stiva! - gridò Lévin, sentendo come il cuore gli cominciava a battere più forte e come a un tratto, quasi che un certo paletto si fosse aperto nel suo udito teso, tutti i suoni, perduta la misura della distanza, cominciarono a colpirlo disordinatamente, ma con vivacità. Sentiva i passi di Stepàn Arkàdjevič, prendendoli per un lontano calpestio di cavalli; sentiva il fragile suono dell'angolo d'un monticello strappatosi con le radici, su cui era salito, prendendo questo suono per il volo d'un beccaccino; sentiva anche di dietro non lontano un certo sguazzare per l'acqua di cui non si poteva render conto.

Scegliendo il posto per il piede, egli si avvicinava al cane.

- Pil!

Non un beccaccino, ma una beccaccia sfuggì di sotto al cane. Lévin mosse il fucile, ma nel medesimo tempo che egli mirava, quel medesimo suono di uno sguazzare per l'acqua si fece più alto e vi si aggiunse la voce di Veslòvskij, che gridava stranamente forte qualcosa. Lévin vedeva che col fucile prendeva la beccaccia di dietro, ma tuttavia tirò. Convintosi d'aver fatto cilecca, Lévin si volse e vide che i cavalli col calesse non eran più sulla strada, ma nella palude.

Veslòvskij, desiderando di vedere il tiro, era entrato nella palude e aveva fatto impantanare i cavalli.

"Il diavolo lo porti!" proferì Lévin fra sé, ritornando verso il veicolo impantanato. - Perché vi siete mosso? - gli disse seccamente e, chiamato il cocchiere, si diede a liberare i cavalli.

Lévin era stizzito che gli avessero ostacolato il tiro, e che avessero fatto impantanare i suoi cavalli, e soprattutto che per liberare i cavalli, per staccarli, né Stepàn Arkàdjevič né Veslòvskij aiutassero lui e il cocchiere, giacché né l'uno né l'altro avevan la minima idea di ciò che voleva dire attaccare. Senza rispondere neppure una parola alle assicurazioni di Vàsegnka che là era completamente asciutto, Lévin lavorava in silenzio col cocchiere per liberare i cavalli. Ma poi, riscaldatosi col lavoro e avendo visto con che zelante fervore Veslòvskij tirasse il calesse per un parafango, sicché l'aveva perfino staccato, Lévin si rimproverò d'esser troppo freddo verso Veslòvskij sotto l'influenza del sentimento del giorno avanti, e cercò di cancellar la sua secchezza con un'affabilità particolare. Quando tutto fu messo in ordine e il veicolo fatto uscir sulla strada, Lévin ordinò di tirar fuori la colazione.

- Bon appétit, bonne conscience! Ce poulet va tomber jusqu'au fond de mes bottes, - diceva con un proverbietto francese Vàsegnka, fattosi di nuovo allegro, terminando di mangiare il secondo pulcino. - Via, adesso i nostri malanni son finiti; adesso tutto andrà felicemente. Soltanto io per la mia colpa ho il dovere di seder a cassetta. Non è vero? Eh? No, no, io sono Automedonte. Guardate come vi porterò! - egli rispondeva senza lasciar andare le redini, quando Lévin gli aveva chiesto di lasciar venire il cocchiere. - No, devo espiar la mia colpa, e sto benissimo a cassetta -. E si mise in movimento.

Lévin aveva un po' paura ch'egli avrebbe stancato i cavalli, particolarmente quello sinistro, il sauro, che non sapeva tenere; ma involontariamente si sottometteva all'allegria di lui, ascoltava le romanze che Veslòvskij cantò per tutta la strada sedendo a cassetta, o i racconti e le rappresentazioni dialogate su come bisognava guidare all'inglese, four in hand; e tutti dopo colazione nella disposizione d'animo più allegra giunsero alla palude di Gvozdjòvo.

 

X.

Vàsegnka conduceva i cavalli così in fretta, che arrivarono alla palude troppo presto, sicché faceva ancora caldo.

Essendosi avvicinato a una palude importante, lo scopo principale del viaggio, Lévin pensò involontariamente a come avrebbe potuto liberarsi di Vàsegnka e camminare senz'inciampo. Stepàn Arkàdjevič evidentemente desiderava la stessa cosa, e sul suo volto Lévin vedeva l'espressione di preoccupazione che un vero cacciatore ha sempre innanzi al principio della caccia e d'una certa bonaria furberia che gli era propria.

- E come andremo? La palude è ottima, io lo vedo, e anche gli avvoltoi, - disse Stepàn Arkàdjevič indicando due grandi uccelli che roteavano sopra le carici. - Dove ci son gli avvoltoi, lŕ c'č di sicuro anche selvaggina.

- Su, ecco, vedete, signori, - disse Lévin, stringendo più forte gli stivali ed esaminando i pistoni nel fucile con un'espressione un po' cupa. - Vedete queste carici? - Egli indicò un'isoletta che appariva bruna per la verdura nera in un enorme prato bagnato, falciato a mezzo, che si estendeva dalla parte destra del fiume.

- La palude comincia qui, dritto dinanzi a voi, vedete, dove è più verde. Di qua va a destra, dove camminano i cavalli; là ci son dei monticelli, di solito ci sono dei beccaccini: e anche intorno a quelle carici là fino a quegli ontani e proprio fino al mulino. Ecco là, vedi, dove c'è un'insenatura. E' il luogo migliore.

Là una volta ho ucciso diciassette beccacce. Ci divideremo coi due cani in direzioni diverse e là al mulino ci riuniremo.

- Su, e chi va a destra, chi a sinistra? - domandò Stepàn Arkàdjevič. - A destra è più largo, andate voi due, e io a sinistra, -egli disse come spensieratamente.

- Benissimo! lo vinceremo nel tiro. Su, andiamo, andiamo, andiamo! - rincalzò Vàsegnka.

Lévin non poteva non acconsentire, e si separarono.

Erano appena entrati nella palude, che tutt'e due i cani cominciarono a cercare insieme e si spinsero verso l'acqua rugginosa. Lévin conosceva questo cercare di Làska, prudente e indefinito; conosceva anche il luogo e aspettava un piccolo branco di beccacce.

- Veslòvskij, venite a fianco, a fianco! - egli proferì con la voce che gli veniva meno al suo compagno che sguazzava nell'acqua e la direzione del cui fucile, dopo lo sparo casuale alla palude di Kòlpeno, involontariamente interessava Lévin.

- No, non voglio incomodarvi, non pensate a me.

Ma Lévin involontariamente pensava e ricordava le parole di Kitty, quand'ella lo lasciava andar via: "guardate di non ammazzarvi l'un l'altro". I cani si avvicinavano sempre di più, evitandosi a vicenda, seguendo ognuno il proprio filo; l'aspettazione d'una beccaccia era così viva che lo schioccare del proprio tacco, tirato fuori dalla melma, sembrava a Lévin il grido della beccaccia, ed egli afferrava e stringeva il calcio del fucile.

Pum! pum! gli echeggiò sopra l'orecchio. Vàsegnka aveva tirato contro uno stormo d'anitre che roteavano sopra la palude e in quel momento eran volate sopra ai cacciatori avvicinandosi eccessivamente. Lévin non fece a tempo a voltarsi, che squittì una beccaccia, un'altra, una terza, e un otto ancora se ne sollevarono l'una dietro l'altra.

Stepàn Arkàdjevič ne abbatté una proprio nel momento in cui si metteva a fare i suoi zig-zag, e la beccaccia cadde come una palla nel terreno paludoso. Oblònskij ne mirò senza fretta un'altra, che volava ancora in basso verso le carici, e insieme col suono dello sparo anche questa beccaccia cadde, e si vedeva com'essa saltava fuori dalle carici falciate, battendo l'ala, bianca di sotto, ch'era rimasta intatta.

Lévin non fu così felice: tirò alla prima beccaccia troppo da vicino e fece cilecca, la mirò quando aveva già cominciato a sollevarsi, ma intanto ne volò fuori ancora una di sotto ai suoi piedi e lo distrasse, ed egli fece cilecca un'altra volta.

Mentre caricavano i fucili si sollevò ancora una beccaccia, e Veslòvskij, che aveva fatto a tempo a caricare un'altra volta, lasciò andare per l'acqua ancora due cariche a pallini minuti. Stepàn Arkàdjevič raccolse le sue beccacce e guardò Lévin con gli occhi scintillanti.

- Su, adesso ci separiamo, - disse Stepàn Arkàdjevič, zoppicando un poco con la gamba sinistra e tenendo il fucile all'erta e fischiettando al cane, andò da una parte. Lèvin e Veslòvskij andarono dall'altra.

A Lévin accadeva sempre che, quando i primi colpi erano infruttuosi, egli si accalorava, si stizziva e sparava male tutta la giornata. Così fu anche quel giorno. Beccacce si vide che ce n'erano molte. Di sotto al cane, di sotto ai piedi dei cacciatori volavano fuori ininterrottamente delle beccacce, e Lévin avrebbe potuto riabilitarsi, ma, quanto più sparava, tanto più si copriva di vergogna dinanzi a Veslòvskij, che tirava allegramente bene o male, senz'ammazzar nulla e senza punto sconcertarsi per questo. Lévin si affrettava, non resisteva, si accalorava sempre di più ed era giunto ormai al punto che, tirando, non sperava quasi più di ammazzare. Sembrava che anche Làska lo capisse. Aveva cominciato a cercare più pigramente e si volgeva a guardare i cacciatori come con perplessità o con rimprovero. Gli spari seguivan gli spari. Il fumo della polvere era intorno ai cacciatori, e nella grande carniera spaziosa c'eran soltanto tre beccacce leggerine, piccole. Del resto una era stata ammazzata da Veslòvskij e una era comune. Frattanto dall'altra parte della palude si sentivan gli spari non frequenti, ma, come sembrava a Lévin, significativi di Stepàn Arkàdjevič e quasi dopo ognuno di essi si sentiva: "Crac, Crac, aport!"

Questo agitava ancor di più Lévin. Le beccacce volavano senz'interruzione nell'aria sopra le carici. Lo squittire per terra e il gracchiare in alto si sentivano incessantemente da tutte le parti; le beccacce fatte alzar prima e che si eran librate nell'aria si posavano dinanzi ai cacciatori. Invece di due avvoltoi adesso ne volavano diecine stridendo al di sopra della palude.

Passata la parte maggiore della palude, Lévin e Veslòvskij si spinsero fino al luogo per il quale, a lunghe striscioline appoggiate alle carici, era distribuita una prateria di mužikí, segnata dove da striscioline calpestate, dove da un piccolo tratto falciato. Metà di queste strisce era già falciata.

Benché per il non falciato ci fosse poca speranza di trovare altrettanta roba quanta per il terreno falciato, Lévin promise a Stepàn Arkàdjevič di riunirsi con lui e andò innanzi col suo compagno per le strisce falciate e non falciate.

- Ehi, cacciatori! - gridò loro uno dei mužikí seduti presso un carro staccato, - vieni a meriggiare con noi! A bere il vino!

Lévin si volse a vedere.

- Vieni, n'è nulla! - gridò un allegro mužikí barbuto col viso allegro, mostrando i denti bianchi e sollevando una bottiglia quadrata verdognola, che splendeva al sole.

- Qu'est-ce qu'ils disent? - domandò Veslòvskij.

- Invitano a ber la grappa. Probabilmente hanno divisi i campi. Io andrei a bere, - disse Lévin non senza furberia, sperando che Veslòvskij sarebbe stato sedotto dalla grappa e se ne sarebbe andato presso di loro.

- E perché offrono?

- Così, si divertono. Davvero, accostatevi a loro. Per voi è interessante.

- Allons, c'est curieux.

- Andate, andate, troverete la strada del mulino! - gridò Lévin e, voltatosi, vide con piacere che Veslòvskij, chino, inciampando con le gambe stanche e tenendo il fucile nella mano tesa, si traeva dalla palude andando verso i mužikí. - Vieni anche tu! - gridava il mužík a Lévin. - Non aver paura! Mangerai un poco di pirožňk!

Lévin aveva un forte desiderio di bere della grappa e di mangiare un pezzo di pane. Era indebolito e sentiva che strappava a forza fuori dal terreno pantanoso le gambe che s'impigliavano, e per un minuto fu nel dubbio. Ma il cane si fermò. E subito tutta la stanchezza scomparve, ed egli andò con facilità per il terreno pantanoso verso il cane. Di sotto alle sue gambe volò fuori una beccaccia; egli sparò e l'ammazzò: il cane seguitava a star fermo. "Pii!" Di sotto al cane se ne sollevò un'altra. Lévin tirò. Ma la giornata era disgraziata; egli fece cilecca, e quando andò a cercare quella ammazzata, non trovò neppur quella. Si trascinò attraverso tutte le carici, ma Làska non credeva ch'egli avesse ammazzato, e, quand'egli la mandava a cercare, faceva finta di cercare, ma non cercava.

 Anche senza Vàsegnka, cui Lévin rimproverava la propria sfortuna, la cosa non s'accomodò. Beccacce ce n'era molte anche qui, ma Lévin faceva cilecca una volta dietro l'altra.

I raggi obliqui del sole erano ancora caldi; il vestito, bagnato di sudore da parte a parte, s'appiccicava al corpo; lo stivale sinistro, pieno d'acqua, era pesante e schioccava; per il viso insudiciato da un sedimento di polvere colava a gocce il sudore; in bocca c'era un gusto amaro, nel naso l'odor della polvere e dell'acqua rugginosa, negli orecchi l'incessante schioccar delle beccacce; le canne non si potevan toccare: tanto s'erano infocate, il cuore aveva battiti forti e brevi; le mani tremavano per l'agitazione, e le gambe stanche inciampavano e s'intrecciavano per le montagnole e il terreno paludoso; ma egli camminava e sparava sempre. Finalmente, fatta cilecca in modo vergognoso, gettò a terra il fucile e il cappello.

"No, bisogna ritornare in sé!" si diss'egli. Tirati su il fucile e il cappello, chiamò ai suoi piedi Làska e uscì dalla palude. Uscito all'asciutto, si sedette su una montagnola, si scalzò, versò fuori quel che c'era nello stivale, poi si avvicinò alla palude, bevve dell'acqua con sapor di ruggine, bagnò le canne infocate e si lavò il viso e le mani. Rinfrescatosi, mosse di nuovo verso il luogo dove s'era portata la beccaccia, con la ferma intenzione di non accalorarsi.

Voleva esser calmo, ma fu la stessa cosa. Il suo dito premeva il grilletto prima ch'egli prendesse di mira l'uccello. Tutto andava sempre peggio.

Aveva soltanto cinque capi nella carniera quando uscì dalla palude dirigendosi verso l'ontaneto dove doveva incontrarsi con Stepàn Arkàdjevič.

Prima di vedere Stepàn Arkàdjevič, egli vide il suo cane. Di sotto alla radice rivoltata d'un ontano saltò fuori Crac, tutto nero per il limo puzzolente della palude, e con l'aria d'un vincitore scambiò un'annusata con Làska. Dietro Crac si fece vedere nell'ombra degli ontani anche la figura ben fatta di Stepàn Arkàdjevič. Egli veniva incontro rosso, sudato, col colletto sbottonato, zoppicando sempre un poco nello stesso modo.

- Ebbene? Avete tirato molto! - diss'egli, sorridendo allegramente.

- E tu? - domandò Lévin. Ma domandare non era necessario, perché aveva già vista la carniera piena.

- Ma non c'è male.

Aveva quattordici capi.

- Una bella palude! A te probabilmente dava noia Veslòvskij. In due con un cane solo si sta a disagio, - disse Stepàn Arkàdjevič, attenuando il proprio trionfo.

 

 

XI.

Quando Lévin e Stepàn Arkàdjevič giunsero nell'isba del mužík dal quale si fermava sempre Lévin, Veslòvskij era già là. Era seduto nel mezzo dell'isba e, tenendosi con tutt'e due le mani a una panca, da cui lo tirava via un soldato, fratello della padrona di casa, per gli stivali spruzzati di melma, rideva del suo riso contagiosamente allegro.

- Sono appena venuto. Ils ont été charmants. Figuratevi, m'hanno dato da bere, da mangiare. Che pane, è una maraviglia! Délicieux! E la grappa, non ne ho mai bevuta di migliore! E a nessun costo hanno voluto prender denari. E non fanno che dire: "non te la prendere", in un certo modo.

- E perché pigliar denari? Si vede che ve l'hanno offerta. Hanno forse grappa da vendere? - disse il soldato, dopo aver tirato via finalmente con la calza annerita lo stivale bagnato.

Malgrado la poca pulizia dell'isba, insudiciata dagli stivali dei cacciatori e dai cani sporchi che si leccavano, l'odore di polvere e di palude di cui essa s'empì, e l'assenza di coltelli e di forchette, i cacciatori bevvero il tè e cenarono con un gusto tale, come si mangia soltanto a caccia. Lavati e puliti, andarono in un fienile, dove i cocchieri avevan preparati dei letti ai signori.

Benché cominciasse già a far buio, nessuno dei cacciatori aveva voglia di dormire.

Dopo aver oscillato fra i ricordi e i racconti sul tiro, sui cani, sulle cacce precedenti, il discorso cadde su un tema che interessò tutti. Pigliando occasione dalle espressioni di entusiasmo già più volte ripetute di Vàsegnka sul fascino di quel ricovero notturno e dell'odor del fieno, sul fascino del carro rotto (a lui sembrava rotto perché era stato tolto dall'avantreno), sulla bonarietà dei mužikí che gli avevan dato da bere la grappa, sui cani, che giacevano ognuno ai piedi del suo padrone, Oblònskij raccontò del fascino della caccia da Maltus, alla quale era stato l'estate scorsa.

Maltus era un noto riccone ferroviario. Stepàn Arkàdjevič raccontava che paludi aveva comperate questo Maltus nel governatorato di Tver e come erano mantenute e che carrozze, che dog-carts avevan portato i cacciatori e che tenda con la colazione era stata piantata presso la palude.

- Non ti capisco, - disse Lévin, sollevandosi sul suo fieno, -come non ti sono antipatiche quelle persone? Capisco che una colazione col Lafitte è molto piacevole, ma possibile che non ti sia antipatico appunto quello sfarzo? Tutte queste persone, come prima i nostri appaltatori, guadagnano i denari in un modo da meritare, mentre li guadagnano, il disprezzo della gente, non si curano di questo disprezzo, e poi con quello che hanno disonestamente guadagnato si redimono dal disprezzo di prima.

- Completamente giusto! - rispose Vàsegnka Veslòvskij. -Completamente! S'intende che Oblònskij lo fa per bonhommie, ma gli altri dicono: Oblònskij ci va pure...

- Per nulla, - Lévin sentiva che Oblònskij sorrideva dicendo questo: - semplicemente non lo stimo più disonesto di chi si sia fra i mercanti e i nobili ricchi! E quelli e questi hanno guadagnato egualmente col lavoro e con l'ingegno.

- Sì, ma con che lavoro? E' forse lavoro quello di ottenere una concessione e rivenderla?

- S'intende ch'è un lavoro. Un lavoro nel senso che, se non ci fosse lui o altri simili a lui, non ci sarebbero neanche le strade ferrate.

- Ma non un lavoro come il lavoro del mužík e dello scienziato.

- Ammettiamolo, ma è lavoro nel senso che la sua attività dà risultati: le strade ferrate. Ma, già tu pensi che le strade ferrate sono inutili.

- No, è un'altra questione; sono pronto a riconoscere che sono utili. Ma qualsiasi acquisto non corrispondente al lavoro impiegatovi non è onesto.

- Ma chi determinerà mai la corrispondenza?

 

- Però come odora forte il fieno fresco! - disse Stepàn Arkàdjevič, sollevandosi. - Non mi addormenterò a nessun costo. Vàsegnka ha combinato qualcosa là. Senti il riso e la sua voce? Non dobbiamo andare? Andiamo!

- No, io non vado, - rispose Lévin.

- Possibile che tu faccia anche questo per principio? - disse sorridendo Stepàn Arkàdjevič, cercando il suo berretto nel buio.

- Non per principio, ma perché ci andrei?

- Ma sai, tu creerai dei malanni, - disse Stepàn Arkàdjevič, avendo trovato il berretto e alzandosi.

- Perché?

- Non vedo forse in che posizione ti sei messo con tua moglie? Ho sentito come da voi è una questione di primaria importanza che tu vada o no a caccia per due giorni. Tutto questo è bene come idillio, ma per tutta una vita questo non basta. L'uomo dev'essere indipendente, - egli ha i suoi interessi maschili. L'uomo deve esser virile, - disse Oblònskij, aprendo il portone.

- Cioè cosa, andare a far la corte alle ragazze dell'opre? -domandò Lévin.

- E perché anche non andarci, se è una cosa allegra? Ça ne tire pas à conséquence. Mia moglie per questo non starà peggio, e io mi divertirò. La cosa principale è conservare il sacrario della casa. Che in casa non ci sia nulla. E le mani non te le legare.

- Può darsi, - disse asciutto Lèvin, e si voltò su un fianco. - Domani bisogna andare presto e io non sveglio nessuno e vado all'alba.

- Messieurs, venez vite! - si sentì la voce di Veslòvskij ch'era tornato. - Charmante! Sono io che l'ho scoperta. Charmante, proprio una Gretchen, e io e lei abbiamo già fatto conoscenza. Davvero, carina carina! - egli raccontava con una tale aria d'approvazione come se precisamente per lui ella fosse stata fatta carina e lui fosse contento di chi gliel'aveva preparata.

Lévin finse di dormire, e Oblònskij, messe le pantofole e acceso un sigaro, usci dal fienile, e presto le loro voci si chetarono.

Lévin per lungo tempo non poté dormire. Sentì come i cavalli masticavano il fieno, poi come il padrone col ragazzo più grande si preparò e andò via a far la guardia; poi sentì come il soldato si metteva a letto dall'altra parte del fienile col nipote, un piccolo figliolo del padrone; sentì come il ragazzo con una vocina sottile comunicò allo zio la propria impressione sui cani, che al ragazzo sembravano terribili ed enormi; poi come il ragazzo domandava chi avrebbero chiappato quei cani, e come il soldato con voce roca e assonnata gli diceva che domani i cacciatori sarebbero andati nella palude, e avrebbero sparato coi fucili, e come dopo, per liberarsi dalle domande del ragazzo, disse: - Dormi, Vàska, dormi, se no guarda, - e presto si mise a russare lui stesso, e tutto si calmò; si sentiva soltanto il nitrito dei cavalli e il gracidio d'una beccaccia. "Possibile che sia soltanto negativo?" egli si ripeté. "Su, e allora? io non son colpevole". E si mise a pensare alla giornata di domani.

"Domani andrò di mattina presto e prendo impegno di non accalorarmi. Di beccacce ce n'è un'infinità. Ci sono anche dei beccaccini. E verrò a casa, un biglietto da Kitty. Sì, che Stiva magari abbia anche ragione? Non sono virile con lei, mi son fatto una femminuccia... Ma che fare mai! E di nuovo una cosa negativa!"

Nel sonno sentì il riso e l'allegro parlare di Veslòvskij e di Stepàn Arkàdjevič. Per un attimo aprì gli occhi: la luna era spuntata, ed essi stavano sul portone aperto, discorrendo, fortemente illuminati dalla luce lunare. Stepàn Arkàdjevič diceva qualcosa della freschezza della fanciulla, paragonandola a una nocciola fresca appena schiusa, e Veslòvskij, ridendo del suo riso comunicativo, ripeteva le parole dettegli probabilmente da un mužík: "Tu cerca più che puoi d'avere la tua!" Lévin nel sonno proferì:

- Signori, domani appena giorno! - e s'addormentò.

 

XII.

Svegliatosi sul far dell'alba, Lévin provò a destare i compagni. Vàsegnka, giacendo sul ventre e allungata una gamba coperta dalla calza, dormiva così profondamente che da lui non si poteva ottenere risposta. Oblònskij nel sonno rifiutò d'andare così presto. Perfino Làska, che dormiva arrotolata ad anello, all'estremità del fieno, si alzò malvolentieri e allungava e raddrizzava pigramente, una dopo l'altra, le sue zampe posteriori. Calzatosi, preso il fucile e aperta con precauzione la porta scricchiolante del fienile, Lévin usci sulla strada. I cocchieri dormivano presso le carrozze, i cavalli sonnecchiavano. Uno soltanto mangiava l'avena, spargendola col muso per il trogolo. Fuori era ancora grigio.

- Cos'è che ti sei levato così presto, giaggiolo mio? - gli si rivolse amichevolmente, come a un buon vecchio conoscente, la vecchia padrona uscitagli incontro dall'isba.

- Ma per andare a caccia, zia. Qui ci passo alla palude?

- Dritto per di dietro; per le nostre aie, uomo caro, e per la canapa; là c'è un viottolo.

Camminando cautamente coi suoi abbronzati piedi nudi, la vecchia accompagnò Lévin e levò la chiusura presso l'aia.

- Dritto così e giungerai alla palude. I nostri ragazzi ci hanno portate le bestie iersera.

Làska correva avanti allegramente per il sentiero; Lévin le andava dietro con passo rapido, leggero, guardando ininterrottamente il cielo. Desiderava che il sole non sorgesse prima ch'egli fosse giunto alla palude. Ma il sole non tardava. La luna, che splendeva ancora quand'egli usciva, adesso brillava soltanto come un pezzo di mercurio; il lampo mattutino di calore che prima non si poteva non vedere, adesso bisognava cercarlo; le macchie prima indefinite nella campagna lontana adesso eran già chiaramente visibili. Erano mucchi di segala. La rugiada non ancora visibile senza la luce del sole nell'alta canapa profumata, da cui era già stata tolta via quella sterile, bagnava le gambe e il camiciotto di Lévin più su della cintura. Nella calma trasparente del mattino si sentivano i minimi suoni. Una piccola ape col fischio d'una palla passò volando accanto all'orecchio di Lévin. Egli guardò con attenzione e ne vide ancora un'altra e una terza. Esse tutte volavan fuori dal graticcio d'un arniaio e sopra la canapa scomparivano in direzione della palude. Il viottolo portò dritto alla palude. La palude si poteva riconoscere dai vapori che se ne sollevavano, dove più spessi, dove più radi, sicché le carici e i cespuglietti di citiso, come isolette, si cullavano su quel vapore. Al limite della palude e della strada i ragazzetti e i mužikí, che avevano fatta la guardia, eran coricati e innanzi l'alba dormivano sotto i gabbani. Non lontano da loro andavano tre cavalli impastoiati. Uno di essi rumoreggiava coi ferri. Làska camminava di fianco al padrone, chiedendo d'andare avanti e volgendosi a guardare. Passati i mužikí che dormivano e giunto all'altezza del primo tratto paludoso, Lévin esaminò i pistoni e lasciò andare il cane. Uno dei cavalli, uno bruno ben nutrito di tre anni, avendo visto il cane, si slanciò con forza e, sollevata la coda, sbuffò. I rimanenti cavalli si spaventarono anche loro e, sguazzando per l'acqua, con le zampe impastoiate e producendo con gli zoccoli tratti fuori dall'argilla spessa un suono simile a uno schiocco, si misero a saltare fuori della palude. Làska si fermò, guardando con scherno i cavalli e interrogativamente Lévin. Lévin carezzò Làska e fischiò, in segno che si poteva cominciare.

Làska si mise a correre allegra e preoccupata per la melma che tremolava sotto di lei.

Entrata di corsa nella palude, Làska immediatamente, fra gli odori a lei noti delle radici, delle erbe di palude, di ruggine, e l'odore estraneo di sterco equino, senti l'odore degli uccelli sparso per tutto quel luogo, di quegli stessi uccelli odorosi, che più degli altri l'agitavano. Qua e là per il muschio e le bardane di palude quest'odore era molto forte, ma non si poteva stabilire da che parte si rafforzasse e s'indebolisse. Per trovar la direzione, bisognava andar più lontano sotto il vento. Senza sentire il movimento delle proprie zampe, Làska a un galoppo teso, tale che a ogni salto avrebbe potuto fermarsi se se ne fosse presentata la necessità, corse a destra lontano dal venticello antelucano che spirava dall'oriente e si volse verso il vento. Aspirata dentro di sé l'aria con le narici dilatate, essa sentì immediatamente che non c'erano soltanto le orme, ma loro stessi erano lì, dinanzi a lei, e non uno, ma molti. Làska diminuì la velocità della corsa. Erano lì, ma dove appunto, non poteva ancora precisarlo. Per trovare proprio quel luogo essa aveva già cominciato un giro, quando la voce del padrone la distrasse. "Làska! qua!" diss'egli indicandole l'altra parte. Essa stette un po' ferma, domandandogli se non era meglio fare come aveva cominciato. Ma egli ripeté l'ordine con voce irosa, facendo vedere un ammasso di montagnole coperto d'acqua, dove non poteva esserci nulla. Essa gli obbedì, fingendo di cercare, per fargli piacere, si trascinò per tutto l'ammasso di montagnole e tornò al luogo di prima, e immediatamente li sentì di nuovo. Adesso, quand'egli non la disturbava, essa sapeva che fare, e, senza guardarsi sotto le zampe, inciampando con stizza nelle alte montagnole e andando a finir nell'acqua, ma raddrizzandosi con le pieghevoli, forti zampe, cominciò un giro che le doveva spiegare ogni cosa. Il loro odore la colpiva sempre più fortemente, in modo sempre più definito, e a un tratto diventò affatto chiaro per essa che uno di loro era lì, dietro a quella montagnola, cinque passi davanti ad essa, e si fermò e s'irrigidì con tutto il corpo. Sulle sue zampe basse non poteva veder nulla dinanzi a sé, ma dall'odore sapeva che esso era posato non più lontano che a cinque passi. Stava ritta, sentendolo sempre di più e godendo nell'aspettativa. La sua coda tesa era allungata e tremava soltanto proprio sulla punta. La sua bocca era lievemente aperta, le orecchie sollevate. Un'orecchia s'era voltata ancora durante la corsa, ed essa respirava faticosamente, ma con prudenza, e con prudenza ancora maggiore si volse, più con gli occhi che con la testa, a guardare il padrone. Egli col viso che gli era abituale, ma sempre con gli occhi terribili, camminava, inciampando, per le montagnole e straordinariamente adagio, come le sembrava. Le sembrava ch'egli camminasse adagio e lui correva.

Avendo notata questa particolare ricerca di Làska, mentr'essa si stringeva tutta al terreno, come se remasse a gran passi con le zampe posteriori e aprendo lievemente la bocca, Lévin capi ch'essa fiutava i beccaccini, e, pregato Dio fra sé, per avere un buon esito, particolarmente per il primo uccello, accorse verso di essa. Fattosi proprio vicino, egli cominciò a guardare dinanzi a sé dalla propria altezza e vide con gli occhi quel ch'essa vedeva col naso. Nel vicoletto fra le montagnole alla distanza d'una sažégn si vedeva un beccaccino. Volto il capo, esso stava in ascolto. Poi, raddrizzate e chiuse di nuovo le ali, dimenata goffamente la coda, sparve dietro un angolo.

- Pil! Pil! - gridò Lévin, spingendo Làska nel sedere.

"Ma io non posso andare, - pensava Làska. - Dove andrei? Di qua li sento e se mi muoverò in avanti non sentirò più nulla, dove siano e chi siano -. Ma ecco che egli la spinse col ginocchio e con sussurro agitato proferì: - Pil, Làsočka, pil!

"Eh, allora se lui lo vuole, lo farò, ma adesso non rispondo più di me", essa pensò e si precipitò avanti fra le montagnole a gambe levate. Adesso non fiutava più nulla e vedeva e sentiva soltanto, senza capir nulla.

A dieci passi dal luogo di prima col gracchiar grasso e il rumore particolare delle ali dei beccaccini si levò un beccaccino. E subito dopo lo sparo cadde pesantemente col petto bianco contro la melma bagnata. Un altro non aspettò e si levò dietro a Lèvin senza bisogno del cane.

Quando Lévin si voltò verso di esso, era già lontano. Ma lo sparo lo raggiunse. Dopo aver volato per un venti passi, il secondo beccaccino si levò in su a palo e cadde pesantemente a capofitto, come una palla scagliata, su un luogo secco.

"Ecco che ce ne sarà assai!" pensava Lévin, riponendo nella carniera i tiepidi e grassi beccaccini. "Eh, Làsočka, ce ne sarŕ assai?"

Quando Lévin, caricato il fucile, si mosse per andare avanti, il sole, quantunque non fosse ancora visibile dietro le piccole nubi, era già sorto. La luna, perduto tutto lo scintillio, biancheggiava sul cielo come una nuvoletta; stelle non se ne vedeva più neanche una. I tratti umidi, che prima s'inargentavano di rugiada, adesso si doravano. La ruggine era tutta ambrata. Il turchino delle erbe s'era mutato in un verde giallino. Gli uccelli di palude brulicavano sui cespuglietti, che presso il ruscello brillavan di rugiada e facevano una lunga ombra. Un avvoltoio s'era svegliato e stava seduto su una bica, volgendo il capo da un lato all'altro, guardando la palude malcontento. Le gracchie volavano verso i campi, e un ragazzetto scalzo cacciava già innanzi i cavalli verso un vecchio che s'era levato di sotto al gabbano e si grattava. Il fumo degli spari biancheggiava come latte per il verde dell'erba.

Uno dei ragazzetti venne di corsa presso Lévin.

- Zietto, qua c'eran dell'anitre ieri! - gli gridò e gli andò dietro di lontano.

E per Lévin, alla vista di questo ragazzo che esprimeva la propria approvazione, fu doppiamente piacevole ammazzare ancora proprio lì una dietro l'altra tre beccacce.

 

XIII.

L'auspicio venatorio che, se non si sia lasciato scappare il primo animale e il primo uccello, la battuta sarà felice, si dimostrò giusto.

Stanco, affamato, felice, Lévin dopo le nove del mattino, dopo aver camminato per un trenta verste, con diciannove capi di selvaggina di pregio e un'anitra, che aveva legata alla cintura, giacché non entrava più nella carniera, tornò all'alloggiamento. I suoi compagni si erano già svegliati da un pezzo e avevano avuto il tempo di farsi venir fame e di far colazione.

- Aspettate, aspettate, lo so che son diciannove, - diceva Lévin, ricontando per la seconda volta i beccaccini e le beccacce, che non avevano più quell'aspetto importante di quando volavan via, curvi e rinsecchiti, col sangue coagulato, coi capini voltati da un lato.

Il conto era giusto, e l'invidia di Stepàn Arkàdjevič fu piacevole per Lévin. Fu anche piacevole per lui che, tornato all'alloggiamento, trovò già arrivato il messo di Kitty con un biglietto.

"Sono completamente sana e allegra. Se temi per me, puoi essere ancora più tranquillo di prima. Ho una nuova guardia del corpo, Màrja Vlàsjevna, - (era la levatrice, un personaggio nuovo, importante nella vita familiare di Lévin). - venuta a farmi visita. M'ha trovata in piena salute e l'abbiamo fatta rimanere fino al tuo arrivo. Tutti siamo allegri, stiamo bene, e tu, per favore, non t'affrettare, ma se la caccia è buona, rimani ancora un giorno".

Queste due gioie, la caccia felice e il biglietto della moglie, erano tanto grandi, che i due piccoli dispiaceri avuti dopo la caccia passarono con facilità per Lévin. Uno consisteva in ciò, che il sauro del bilancino, che il giorno prima evidentemente aveva faticato troppo, non mangiava la biada ed era triste. Il cocchiere diceva che era sfiancato.

- Ieri l'avete spossato, Konstantín Dmítrič, - diceva. - E come, l'avete spinto per dieci verste fuor di strada!

L'altro dispiacere, che sconvolse il primo momento la sua buona disposizione d'animo, ma sul quale dopo rise molto, consisteva in ciò, che di tutte le provviste, date da Kitty con una tale abbondanza che sembrava non si potessero finir di mangiare in una settimana, non era rimasto nulla. Ritornando stanco e affamato dalla caccia, Lévin sognava in modo così preciso i pirožkí che, avvicinandosi all'alloggiamento, sentiva il loro odore e sapore in bocca, come Làska fiutava la selvaggina, e ordinò subito a Filipp di servirglieli. Risultò che non soltanto di pirožkí, ma anche di pulcini non ce n'era più.

- Eh, ha proprio un appetito! - disse Stepàn Arkàdjevič, indicando Vàsegnka Veslòvskij. - Io non soffro di mancanza d'appetito, ma è stupefacente...

- E che far mai! - disse Lévin, guardando cupamente Veslòvskij. - Filipp, allora da' della carne.

- La carne l'hanno mangiata, e l'osso l'hanno dato ai cani, rispose Filipp.

Lévin senti tanto dispiacere, che disse con stizza: - Mi avessero almeno lasciato qualcosa! - e gli venne voglia di piangere.

- Allora pulisci la selvaggina, - diss'egli con voce tremante a Filipp, cercando di non guardare Vàsegnka, - e mettici sopra dell'ortica. E per me chiedi almeno del latte.

Dopo poi, quando si fu saziato di latte, si vergognò di aver mostrato stizza a una persona estranea, e si mise a canzonare il suo risentimento affamato.

La sera fecero ancora una battuta, in cui anche Veslòvskij ammazzò alcuni capi, e nella notte tornarono a casa.

La via del ritorno fu altrettanto allegra come la via per andar là. Veslòvskij ora cantava, ora ricordava con piacere le proprie avventure coi mužikí, che gli avevano offerta la grappa e gli avevano detto: "non te la prendere", ora le proprie avventure notturne con le nocciole e una ragazza a opra e un mužík che gli aveva domandato s'era ammogliato e, avendo sentito che non era ammogliato, gli aveva detto: "E tu non desiderare le mogli altrui, ma più di tutto cerca di farti la tua". Queste parole facevan particolarmente ridere Veslòvskij.

- In generale sono straordinariamente contento della nostra gita. E voi, Lévin?

- Io son molto contento, - disse con sincerità Lévin, che era in modo particolare gioioso non soltanto di non sentire quell'ostilità che aveva provato a casa per Vàsegnka Veslòvskij, ma, al contrario, di sentir per lui la disposizione più amichevole.