Due di Leuco'

Da Dialoghi con Leuco' di Cesare Pavese

 

L'uomo-lupo

Licaone, signore d'Arcadia, per la sua inumanità venne mutato in lupo da Zeus. Ma il mito non dice dove e come sia morto.

 

(parlano due cacciatori)

Primo cacciatore. Non è la prima volta che s'ammazza una bestia.

Secondo cacciatore. Ma è la prima che abbiamo ammazzato un uomo.

Primo cacciatore. Pensarci non è fatto nostro. Sono i cani che ce l'hanno stanato. Non tocca a noi dirci chi fosse. Quando l'abbiamo visto chiuso contro i sassi, canuto e insanguato, sguazzare nel fango, coi denti più rossi degli occhi, chi pensava al suo nome e alle storie di un tempo? Morì mordendo il giavellotto come fosse la gola di un cane. Aveva il cuore della bestia oltre che il pelo. Da un pezzo per queste boscaglie non si vedeva un lupo simile o più grosso.

Secondo cacciatore. Io ci penso, al suo nome. Ero ancora ragazzo e già dicevano di lui. Raccontavano cose incredibili di quando fu uomo - che tentò di scannare il Signore dei monti. Certo il suo pelo era colore della neve scarpicciata - era vecchio, un fantasma - e aveva gli occhi come sangue.

Primo cacciatore. Ora è fatta. Bisogna scuoiarlo e tornare in pianura. Pensa alla festa che ci attende.

Secondo cacciatore. Ci muoveremo sotto l'alba. Che altro vuoi fare che scaldarci a questa legna? La guardia al cadavere la faranno i molossi.

Primo cacciatore. Non è un cadavere, è soltanto una carcassa. Ma dobbiamo scuoiarlo, altrimenti ci diventa più duro di un sasso.

Secondo cacciatore. Mi domando se, presa la pelle, si dovrà sotterrarlo. Una volta era un uomo. Il suo sangue fermo l'ha sparso nel fango. E resterà quel mucchio nudo di ossa e carne come di un vecchio o di un bambino.

Primo cacciatore. Che fosse vecchio non hai torto. Era già lupo quando ancora le montagne eran deserte. S'era fatto più vecchio dei tronchi canuti e muffiti. Chi si ricorda ch'ebbe un nome e fu qualcuno? Se vogliamo essere schietti, avrebbe dovuto esser morto da un pezzo.

Secondo cacciatore. Ma il suo corpo restare insepolto... Fu Licaone, un cacciatore come noi.

Primo cacciatore. A ciascuno di noi può toccare la morte sui monti, e nessuno trovarci mai più se non la pioggia o l'avvoltoio. Se fu davvero un cacciatore, è morto male.

Secondo cacciatore. Si è difeso da vecchio, con gli occhi. Ma tu in fondo non credi che sia stato tuo simile. Non credi al suo nome. Se lo credessi, non vorresti insultarne il cadavere perché sapresti che anche lui spregiava i morti, anche lui visse torvo e inumano - non per altro il Signore dei monti ne fece una belva.

Primo cacciatore. Si racconta di lui che cuoceva i suoi simili.

Secondo cacciatore. Conosco uomini che han fatto molto meno, e sono lupi - non gli manca che l'urlo e rintanarsi nei boschi. Sei così certo di te stesso da non sentirti qualche volta Licaone come lui? Tutti noialtri abbiamo giorni che, se un dio ci toccasse, urleremmo e saremmo alla gola di chi ci resiste. Che cos'è che ci salva se non che al risveglio ci ritroviamo queste mani e questa bocca e questa voce? Ma lui non ebbe scappatoie - lasciò per sempre gli occhi umani e le case. Ora almeno ch'è morto, dovrebbe avere pace.

Primo cacciatore. Io non credo che avesse bisogno di pace. Chi più in pace di lui, quando poteva accovacciarsi sulle rupi e ululare alla luna? Sono vissuto abbastanza nei boschi per sapere che i tronchi e le belve non temono nulla di sacro, e non guardano al cielo che per stormire o sbadigliare. C'è anzi qualcosa che li uguaglia ai signori del cielo: quantunque facciano, non han rimorsi.

Secondo cacciatore. A sentirti parrebbe che quello del lupo sia un alto destino.

Primo cacciatore. Non so se alto o basso, ma hai mai sentito di una bestia o di una pianta che si facesse essere umano? Invece questi luoghi sono pieni di uomini e donne toccati dal dio - chi divenne cespuglio, chi uccello, chi lupo. E per empio che fosse, per delitti che avesse commesso, guadagnò che non ebbe più le mani rosse, sfuggì al rimorso e alla speranza, si scordò di essere uomo. Provan altro gli dèi?

Secondo cacciatore. Un castigo è un castigo, e chi l'infligge almeno in questo ha compassione, che toglie all'empio l'incertezza, e del rimorso fa destino. Se anche la bestia si è scordata del passato e vive solo per la preda e la morte, resta il suo nome, resta quello che fu. C'è l'antica Callisto sepolta sul colle. Chi sa più il suo delitto? I signori del cielo l'hanno molto punita. Di una donna - era bella, si dice - fare un'orsa che rugge e che lacrima, che nella notte per paura vuol tornare nelle case. Ecco una belva che non ebbe pace. Venne il figlio e l'uccise di lancia, e gli dèi non si mossero. C'è anche chi dice che, pentiti, ne fecero un groppo di stelle. Ma rimase il cadavere e questo è sepolto.

Primo cacciatore. Che vuoi dire? Conosco le storie. E che Callisto non sapesse rassegnarsi, non è colpa degli dèi. E' come chi va malinconico a un banchetto o s'ubriaca a un funerale. S'io fossi lupo, sarei lupo anche nel sonno.

Secondo cacciatore. Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d'un tocco leggero, t'inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire, farsi lupo. Ma resti quello che è fuggito dalle case, resti l'antico Licaone.

Primo cacciatore. Vuoi dunque dire che, azzannato dai molossi, Licaone patì come un uomo cui si desse la caccia coi cani?

Secondo cacciatore. Era vecchio, sfinito; tu stesso consenti che non seppe difendersi. Mentre moriva senza voce sulle pietre, io pensavo a quei vecchi pezzenti che si fermano a volte davanti ai cortili, e i cani si strozzano alla catena per morderli. Anche questo succede, nelle case laggiù. Diciamo pure che è vissuto come un lupo. Ma, morendo e vedendoci, capì di esser uomo. Ce lo disse con gli occhi.

Primo cacciatore. Amico, e credi che gl'importi di marcire sottoterra come un uomo, lui che l'ultima cosa che ha visto eran uomini in caccia?

Secondo cacciatore. C'è una pace di là dalla morte. Una sorte comune. Importa ai vivi, importa al lupo che è in noi tutti. Ci è toccato di ucciderlo. Seguiamo almeno l'usanza, e lasciamo l'ingiuria agli dèi. Torneremo alle case con le mani pulite.

 

 

 

 

Il lago 

Ippolito, cacciatore vergine di Trezene, morì di mala morte per dispetto di Afrodite. Ma Diana, resuscitatolo, lo trafugò in Italia (l'Esperia) sui monti Albani dove lo adibì al suo culto, chiamandolo Virbio. Virbio ebbe figli dalla ninfa Aricia. Per gli antichi l'Occidente - si pensi all'Odissea - era il paese dei morti.

 

(parlano Virbio e Diana)

Virbio. Ti dirò che venendoci mi piacque. Questo lago mi parve il mare antico. E fui lieto di viver la tua vita, di esser morto per tutti, di servirti nel bosco e sui monti. Qui le belve, le vette, i villani non san nulla, non conoscono che te. E' un paese senza cose passate, un paese dei morti.

Diana. Ippolito...

Virbio. Ippolito è morto, tu mi hai chiamato Virbio.

Diana. Ippolito, nemmeno morendo voi mortali scordate la vita?

Virbio. Senti. Per tutti sono morto e ti servo. Quando tu mi hai strappato all'Ade e ridato alla luce, non chiedevo che di muovermi, respirare e venerarti. Mi hai posto qui dove terra e cielo risplendono, dove tutto è sapido e vigoroso, tutto è nuovo. Anche la notte qui è giovane e fonda, più che in patria. Qui il tempo non passa. Non si fanno ricordi. E tu sola regni qui.

Diana. Sei tutto intriso di ricordi, Ippolito. Ma voglio ammettere un istante che questa sia terra di morti: che altro si fa nell'Ade se non riandare il passato?

Virbio. Ippolito è morto, ti dico. E questo lago che somiglia al cielo non sa nulla d'Ippolito. Se io non ci fossi, questa terra sarebbe ugualmente com'è. Pare un paese immaginato, veduto di là dalle nubi. Una volta - ero ancora ragazzo - pensai che dietro i monti di casa, lontano, dove il sole calava - bastava andare, andare sempre - sarei giunto al paese infantile del mattino, della caccia, del gioco perenne. Uno schiavo mi disse: " Bada a quel che desideri, piccolo. Gli dèi lo concedono sempre ". Era questo. Non sapevo di volere la morte.

Diana. Questo è un altro ricordo. Di che cosa ti lagni?

Virbio. O selvaggia, non so. Sembra ieri che aprii gli occhi quaggiù. So che è passato tanto tempo, e questi monti, quest'acqua, questi alberi grandi sono immobili e muti. Chi è Virbio? Sono altra cosa da un ragazzo che ogni mattina si ridesta e torna al gioco come se il tempo non passasse?

Diana. Tu sei Ippolito, il ragazzo che morì per seguirmi. E ora vivi oltre il tempo. Non hai bisogno di ricordi. Con me si vive alla giornata, come la lepre, come il cervo, come il lupo. E si fugge, s'insegue sempre. Questa non è terra di morti, ma il vivo crepuscolo di un mattino perenne. Non hai bisogno di ricordi, perché questa vita l'hai sempre saputa.

Virbio. Eppure il sito qui è davvero più vivo che in patria. C'è in tutte le cose e nel sole una luce radiosa come venisse dall'interno, un vigore che si direbbe non ancora intaccato dai giorni. Che cos'è per voi dèi questa terra d'Esperia?

Diana. Non diversa dalle altre sotto il cielo. Noi non viviamo di passato o d'avvenire. Ogni giorno è per noi come il primo. Quel che a te pare un gran silenzio è il nostro cielo.

Virbio. Pure ho vissuto in luoghi che ti sono più cari. Ho cacciato sul Dìdimo, corse le spiagge di Trezene, paesi poveri e selvaggi come me. Ma in questo inumano silenzio, in questa vita oltre la vita non avevo mai tratto il respiro. Cos'è che la fa solitudine?

Diana. Ragazzo che sei. Un paese dove l'uomo non era mai stato, sarà sempre una terra dei morti. Dal tuo mare e dalle isole ne verranno degli altri, e crederanno di varcare l'Ade. E ci sono altre terre più remote...

Virbio. Altri laghi, altri mattini come questi. L'acqua è più azzurra delle prùgnole tra il verde. Mi par di essere un'ombra tra le ombre degli alberi. Più mi scaldo a questo sole e mi nutro a questa terra, più mi pare di sciogliermi in stille e brusii, nella voce del lago, nei ringhi del bosco. C'è qualcosa di remoto dietro ai tronchi, nei sassi, nel mio stesso sudore.

Diana. Queste sono le smanie di quand'eri ragazzo.

Virbio. Non sono più un ragazzo. Conosco te e vengo dall'Ade. La mia terra è lontana come le nuvole lassù. Ecco, passo fra i tronchi e le cose come fossi una nuvola.

Diana. Tu sei felice, Ippolito. Se all'uomo è dato esser felice, tu lo sei.

Virbio. E' felice il ragazzo che fui, quello che è morto. Tu l'hai salvato, e ti ringrazio. Ma il rinato, il tuo servo, il fuggiasco che guarda la quercia e i tuoi boschi, quello non è felice, perché nemmeno sa se esiste. Chi gli risponde? chi gli parla? l'oggi aggiunge qualcosa al suo ieri?

Diana. Dunque, Virbio, è tutto qui? Vuoi compagnia?

Virbio. Tu lo sai ciò che voglio.

Diana. I mortali finiscono sempre per chiedere questo. Ma che avete nel sangue?

Virbio. Tu chiedi a me che cosa è il sangue?

Diana. C'è un divino sapore nel sangue versato. Quante volte ti ho visto rovesciare il capriolo o la lupa, e tagliargli la gola e tuffarci le mani. Mi piacevi per questo. Ma l'altro sangue, il sangue vostro, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, non lo conosco così bene. So che è per voi vita e destino.

Virbio. Già una volta l'ho sparso. E sentirlo inquieto e smarrito quest'oggi, mi dà la prova che son vivo. Né il vigore delle piante né la luce del lago mi bastano. Queste cose son come le nuvole, erranti eterne del mattino e della sera, guardiane degli orizzonti, le figure dell'Ade. Solamente altro sangue può calmare il mio. E che scorra inquieto, e poi sazio.

Diana. A pigliarti in parola, tu vorresti sgozzare.

Virbio. Non hai torto, selvaggia. Prima, quando ero Ippolito, sgozzavo le belve. Mi bastava. Ora qui, in questa terra dei morti, anche le belve mi dileguano tra mano come nubi. La colpa è mia, credo. Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi questo.

Diana. Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

Virbio. Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice.

 

www.bibliosophia.homestead.com/Copertina.html