IL  SENSO  DI  COLPA  BIANCO

 

Eric Gans

 

gans@humnet.ucla.edu

 

Chronicles of Love and Resentment n. 310, 311 e 313

 

Traduzione dall'inglese di Fabio Brotto

 

brottof@libero.it  

 

www.bibliosofia.net

 

 

La politica di questi ultimi anni, dominata dalla realtà minacciosa del terrorismo islamico, sembra fatta in modo da persuaderci del primato del risentimento nelle vicende umane. Persone che non solo desiderano rischiare la morte, ma che abbracciano la morte stessa pur di uccidere il maggior numero possibile di nemici, sembrerebbero offrire la prova incontrovertibile che non l’amore ma il risentimento vince tutto. Ma fin dal momento in cui Nietzsche per primo teorizzò le ressentiment, è stato chiaro che la scena del risentimento e la potenza che genera dipendono da un fenomeno complementare, che consente al marginale uomo del risentimento di trionfare sulle forze che controllano la configurazione scenica—un fenomeno per il quale Nietzsche non fornisce alcuna reale spiegazione. Chiamo questo fenomeno il senso di colpa bianco (white guilt). Il termine viene spesso usato in riferimento al senso di colpa sperimentato dai bianchi per i vantaggi iniqui che il razzismo ha loro conferito. Almeno due libri, entrambi pubblicati nel 1997, contengono l’espressione nei loro titoli stranamente simili: Race card: White Guilt, Black Resentment, and the Assault on Truth and Justice, a cura di Peter Collier e David Horowitz, e Black Anxiety, White Guilt, and the Politics of Status Frustration di T. Alexander Smith and Lenahan O'Connell. Ma dal momento che nel nostro sistema semiotico intuitivo il bianco non è, come ci dicono i trattati di ottica, una combinazione di tutti i colori, ma l’assenza del colore—lo stato di non-marcatezza—mi sento giustificato nel definire il senso di colpa bianco riferendomi ad una bianchezza metafisica e non puramente fisica. Senza dubbio la nozione di senso di colpa bianco nella cultura occidentale dipende da una coincidenza di metafisico e fisico, ma è il primo ad avere la priorità: il senso di colpa bianco è il senso di colpa del non-marcato nei confronti di chi è marcato.

 

Come punto di riferimento si può prendere il numero del Los Angeles Times del 12 dicembre 2004, in cui Michael Kinsley nello stesso tempo si congratula e si duole  per la rapidità con cui il matrimonio gay è giunto alle soglie di una generale accettazione, ed in alcuni circoli è giunto ad essere considerato un diritto. Kinsley termina il suo pezzo così:

 

[L’accelerazione del processo del riconoscimento delle ingiustizie] significa che tutti noi che ci consideriamo americani di buon cuore, ben intenzionati ed empatici—ma non possiamo pretendere di essere molto lungimiranti—proprio in questo momento abbiamo sotto i nostri occhi un’ingiustizia che presto apparirà lampante, e non la vediamo per niente. Da qualche parte in questo Paese una donna nera gay, grata beneficiaria delle trasformazioni passate e presenti nella percezione collettiva, ha detto oggi in tutta innocenza qualcosa che appena tra pochi anni potrà colpirla come incredibilmente duro, crudele e sbagliato.

 

La lesbica nera di Kinsley si renderà presto conto che lei stessa sta opprimendo qualcuno di più “nero”. Quale illustrazione della potenza del senso di colpa bianco potrebbe essere più eloquente di questa certezza anticipatrice di nuove vittime da scoprire?

 

ANALISI ORIGINARIA

 

Nella scena originaria il momento del risentimento si dà quando i partecipanti si rendono conto che l’interdizione sacra dell’oggetto centrale lo rende loro inaccessibile. In una gerarchia preumana, l’ostilità dei partecipanti, che non dovremmo ancora chiamare risentimento, sarà diretta verso quelli più alti nell’ordine di beccata. Queste società animali consentono l’esternazione dell’aggressività nel rapporto di uno contro uno, sia in un effettivo scontro per la supremazia, sia in un atteggiamento di sottomissione ritualizzata. Quello che è specifico del risentimento umano è la sua dipendenza dal segno che designa l’oggetto al centro di una scena. Il risentimento provato nei confronti dei propri simili è mediato attraverso il centro; il trasferimento dell’aggressività verso il centro, il risultato dell’abdicazione dell’animale alfa sotto la pressione collettiva del gruppo è il meccanismo girardiano del capro espiatorio, che susseguentemente provoca lo sparagmos o distruzione/divisione collettiva dell’oggetto/vittima centrale.

 

Il momento originario del senso di colpa bianco si colloca dopo lo sparagmos, una volta che la vittima è stata divisa tra i partecipanti. Lo scenario dell’origine di Freud come quello di Girard situano in questo punto una forma di senso di colpa. In Totem e Tabù i figli si sentono colpevoli per aver ucciso il loro padre, e di conseguenza rinunciano alle donne per le quali l’assassinio originale è stato compiuto. Ne La violenza e il sacro, il sollievo avvertito dagli uccisori della “vittima emissaria” è la fonte della sua divinizzazione. L’idea di Girard corre il rischio di anacronismo meno di quella di Freud, dal momento che essa non richiede un senso di colpa soggettivo. Ma in una prospettiva originaria il punto importante è che i partecipanti sentono di dovere alla vittima, o più precisamente all’essere sacro che la vittima incarna, onore e sacrificio.

 

Nella scena originaria, l’unica figura marcata è quella centrale: tutti i partecipanti sono bianchi. Alla conclusione della scena, la vittima non esiste più a fornire un referente per il segno originario, il quale da quel momento in poi può essere richiamato solo nel contesto storico dell’evento originario. Il segno ostensivo non ha nulla da indicare se non il luogo vuoto che era occupato dalla vittima. La tensione tra il luogo vuoto e la vittima ricordata è ciò che nella scena originaria corrisponde al nostro concetto di senso di colpa. Risentimento e senso di colpa sono inseparabili, dal momento che l’espulsione immaginaria della figura centrale che riempie la fantasia del risentimento è ciò che lascia il luogo (immaginariamente) vuoto. Questo movimento ha la stessa struttura di quello dell’esperienza estetica, in cui la coscienza dello spettatore oscilla tra il segno e il suo referente immaginario: lo spettatore è risentito verso la sua dipendenza dal segno estetico, sentendosi colpevole per il suo cortocircuito immaginario. Di fronte allo sparagmos, la reazione dei partecipanti non è la naturale pietà per la vittima di cui parla Rousseau, ma un senso di sacrilegio per la violazione del referente sacro. Poiché questa violazione è stata realizzata come atto collettivo, il senso di colpa originario implica la possibilità di ricattare gli altri partecipanti, una possibilità che rimane latente nelle società premoderne, nelle quali la responsabilità per il sacrilegio è rimessa in scena e purgata attraverso il sacrificio.

 

Questa analisi suggerisce che la fonte sotterranea del senso di colpa bianco non è l’esercizio della violenza ma la rimozione del referente sacro. Quindi non dovrebbe affatto risultare sorprendente il fatto che quelli che perpetrano atti di aperta violenza contro le vittime della società sono le ultime persone cui possa essere attribuito il senso di colpa bianco. Quello che scopre la postmodernità è che per il solo ignorare coloro che sono designati come vittime, i membri della società non-marcati possono essere obbligati a sentirsi in colpa, da queste vittime e soprattutto da quelli che le rappresentano. Non occorre nemmeno che le vittime stesse siano in grado di articolare una protesta: invero, non occorre nemmeno che siano umane, anzi non occorre neppure che siano senzienti. L’ambientalismo radicale è alimentato dal senso di colpa bianco esattamente quanto l’azione affermativa o le cause collettive contro i produttori di sigarette o l’opposizione alla pena di morte. Il pluriomicida riconosciuto colpevole, la vittima di cancro ai polmoni, lo studente appartenente ad una minoranza svantaggiata, l’albero destinato ad essere abbattuto, perfino la fascia dell’ozono, tutti occupano la stessa posizione nella configurazione del mio senso di colpa bianco: io non ho recato loro alcuna violenza, ma sono colpevole di aver contribuito alla rimozione del loro status vittimario e perciò sacro.

 

IL SENSO DI COLPA BIANCO NELLA STORIA

 

Il risentimento della Modernità, esemplificato da una linea che va dall’Amleto attraverso il Misantropo di Molière fino a Rousseau e al Romanticismo, era un nichilismo impotente, dipendente dalla scena, dalla quale il soggetto preferiva rivendicare l’espulsione piuttosto che agire o per ricomporla o per distruggerla. La schöne Seele di Hegel è una variante di questa linea in cui il risentimento è sublimato in uno schiacciante senso del male del mondo, un male che ci può contaminare solo dall’esterno, e che noi combattiamo, o per lo meno denunciamo, vanamente.

 

Il risentimento moderno non è ancora il senso di colpa bianco, poiché il soggetto risentito non ammette alcuna propria complicità nell’espulsione, della quale vede la vittima in se stesso. La sua dinamica è situata entro una società per la quale l’autoproclamata esclusione della vittima romantica, personalizzando l’anonimità della società urbana con una visione di persecuzione, è copertamente un modo di integrazione. Senza dubbio gli intellettuali romantici, una volta venuta meno la loro simpatia per la Restaurazione, divennero campioni del peuple e accusatori della bourgeoisie—sebbene questa fosse da loro disprezzata più per il suo filisteismo che per la sua oppressione del proletariato. Ma gli intellettuali radicali del XIX secolo non avrebbero mai concepito come loro missione primaria quella di provocare il senso di colpa bianco, che di fatto sarebbe stato ammettere la propria sconfitta. Il vero rivoluzionario vuole vincere, non limitarsi a far scaturire un senso di colpa nel suo avversario. L’intellettuale borghese radicale depone la sua colpa quando abbraccia la causa proletaria e combatte per l’annientamento della sua stessa classe.

 

L’abolizione delle differenze de iure nello status politico dopo la Seconda Guerra Mondiale non si sarebbe potuta ottenere senza senso di colpa bianco. Ma le prime conquiste dell’era postbellica erano fondate su di una forma ristretta di senso di colpa bianco, alla quale esse potevano promettere una conclusione scevra da ansie kinsleiane. Il senso di colpa per il colonialismo o la segregazione razziale si conclude insieme al fenomeno stesso, proprio come il senso di colpa per la non concessione del voto alle donne termina quando il voto è garantito. Porre termine ai privilegi de iure significa creare una società di eguali, una meritocrazia. Gli intellettuali rooseveltiani delusi, a cui era sembrato che questo fosse il punto supremo del sistema di mercato, si sono oggi per la maggior parte uniti al campo dei neoconservatori. Poiché l’ideale meritocratico è vulnerabile al risentimento inevitabilmente generato in coloro che hanno meno successo di quello che desidererebbero, e il nostro sistema politico fa sì che se questi individui sono membri di gruppi ben definibili possano credibilmente affermare di subire uno stigma sociale, inevitabilmente sorgeranno dei movimenti per promuovere i loro interessi chiamando in causa il senso di colpa bianco del resto della società.

 

L’apice del senso di colpa bianco senza limiti inizia con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS. Con la società di mercato che non è più minacciata da un sistema socioeconomico rivale, qualsiasi opposizione ad essa è da questo momento in poi soltanto interna. A questo punto l’intellighenzia rivoluzionaria è costretta a riconoscere l’identità essenziale di quello che in precedenza era apparso come diviso in due entità ontologicamente distinte ed opposte: la classe degli oppressori e la classe di quelli che li denunciano. Gli intellettuali non sono più la voce del proletariato che sta al di fuori della struttura del potere a causa del suo non possesso dei mezzi di produzione, ma la coscienza della borghesia universale: quelli che forniscono e quelli che subiscono il senso di colpa, i suoi soggetti e i suoi oggetti sono i medesimi. L’unica differenza (ma la differenza è tutto) è che gli intellettuali vorrebbero purificarsi del proprio senso di colpa mediante la sua diffusione presso coloro che continuano ad ignorarlo.

                   

Il risentimento di coloro che si vedono come vittime può ottenere dei risultati soltanto alleandosi con la forza, di gran lunga più possente, del senso di colpa bianco. Quella che può essere chiamata sinistra vittimaria è in politica l’insieme di coloro che dedicano le proprie energie alla coltivazione del senso di colpa bianco—anzitutto il proprio, poi quello di tutti gli altri. Piuttosto che come espressione di un risentimento per il fallimento, il senso di colpa bianco viene coltivato come compensazione per il successo. Il senso di colpa bianco non è lasciato alla psicologia individuale, e nemmeno a quella di gruppo. Esso viene amministrato da una rete di istituzioni che incanalano la sua energia in gesti di espiazione che esse cercano di imporre al resto della popolazione. I gruppi di attivisti concepiscono come loro missione quella di difendere gli interessi della natura, degli animali, dei lavoratori stranieri, anteponendoli a quelli del proprio ceto, che generalmente è benestante. Il Partito Democratico e le istituzioni blu ad esso collegate, i media, il mondo dello spettacolo e l’università, sono le componenti più visibili di questa rete, che l’undici settembre ha turbato, ma che da allora si è più che ristabilita. Perfino Kinsley è infastidito dalla crescente banalizzazione del senso di colpa bianco istituzionalizzato: con l’eccezione di una piccola rumorosa fazione di conservatori scarsamente rappresentati nelle università di prestigio e sullo scenario mediatico, gli intellettuali danno per scontato che un senso di colpa bianco illimitato sia l’unica pietra di paragone del giudizio etico.

 

L’intensità del disprezzo che la classe intellettuale rivolge all’elettorato che ha fatto vincere Bush ha la sua fonte nell’indifferenza che questo dimostra rispetto al senso di colpa bianco. Con l’odiare l’establishment neocon, il progressista vittimario ammette e simultaneamente rifiuta la propria complicità nell’oppressione che denuncia. Sotto questo profilo, il terrorismo islamico è una fonte di paura reale ma anche di sollievo morale, consentendo all’intellettuale da un lato di ritenere l’Amministrazione totalmente responsabile di aver fatto di noi un bersaglio e, dall’altro, di dimenticare che il risentimento degli islamisti non è diretto a politiche americane specifiche ma al sistema di mercato nel suo insieme. La relazione tra la Sinistra intellettuale e i terroristi è simbiotica proprio perché non è simmetrica (se vi è simmetria, è tra i terroristi e i falchi, nessuno dei quali è affetto in modo rilevabile dal senso di colpa bianco). La Sinistra condanna la società occidentale perché essa opprime il suo Altro, mentre gli islamisti denunciano l’arrendevolezza dei propri governanti. I terroristi pongono in essere le stesse azioni che i nostri rivoluzionari interni realizzano simbolicamente: quante volte il World Trade Center e il Pentagono sono stati bruciati in effigie durante le proteste anti-globalizzazione nel corso delle conferenze sul commercio mondiale? Il fatto che gli intellettuali e gli islamisti abbiano un nemico comune spiega perché i primi tendano ad esprimere meno ostilità verso i secondi che verso i rappresentanti della società del mercato globale.

 

KINSLEY HA RAGIONE?

 

Poiché la pratica religiosa è un buon indicatore dello status di rosso o blu, lo spartiacque rosso-blu comunemente indicato, con il suo simbolismo di classe di colli rossi [1] e sangue blu, invertito in modo anomalo, viene spesso descritto in termini di battaglia tra teocrazia e secolarismo. Ma il modo più semplice e diretto per distinguere i due campi è quello di guardare come si collocano in rapporto al senso di colpa bianco. I rossi si distinguono dai blu in quanto non sono abbastanza sensibili al senso di colpa bianco al punto di farne la chiave di volta della loro visione politica. Sebbene i rossi abbiano dominato le elezioni del 2004, il voto blu non si è attestato molto lontano dal 50%. A questo punto la domanda è: queste elezioni sono state un punto d’arresto storico per il pensiero vittimario e per il senso di colpa bianco che lo sostiene, o si è trattato di un momento di opposizione ad una tendenza a lungo termine che è già andata al di là dell’abolizione della segregazione e dell’apartheid, fino a promuovere il matrimonio gay e a stabilire commissioni per la pari opportunità tra i sessi?

 

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Sarebbe un errore caratterizzare il senso di colpa bianco come una relazione binaria tra l’individuo colpevole e il centro che egli ha svuotato del suo referente vittimario. Come ogni interazione scenica, il senso di colpa bianco ha un aspetto ternario: esso è condiviso con gli altri partecipanti e insieme mediato da loro, come una tassa che si deve al centro e che gli altri contribuenti si assicurano che venga pagata. Anche quando ci si trova davanti ad una diretta rivendicazione vittimaria, quello che si teme maggiormente, psicologicamente e soprattutto istituzionalmente, è la condanna da parte di coloro che condividono la colpa. Negli Stati Uniti, ma in modo crescente anche negli altri Paesi occidentali, il risarcimento alle vittime, come implica il politicamente corretto (espressione sinistra), è assicurato mediante il processo giudiziario e/o meccanismi burocratici di vertenza. L’iperbole che spesso infetta il discorso vittimario ha la funzione di rammentare questo alla comunità più ampia. Si sa bene, anche se non si dice, che la retorica vittimaria non ha bisogno di rispondere ai normali requisiti di verità—come testimonia il prestigio di Al Sharpton [2] dopo la beffa di Tawana Brawley—dal momento che la sua funzione è quella di rammentare alla maggioranza bianca la sua condizione di colpa più che di mettere in luce una ingiustizia specifica. Il senso di colpa bianco nel suo stretto significato storico è distinto dal più generale fenomeno del senso di colpa originale quale appare nel modello di Freud o in quello di Girard, o nell’analisi nietzscheana del ressentiment. Freud e Girard parlano di colpa solo in riferimento alla vittima specifica, padre o emissario: questo modello di senso di colpa, poiché non è mediato dall’essere/significato del segno originario, è assimilato al senso di colpa per l’omicidio nella società umana costituita, il quale può essere esteso soltanto ad altri casi di vittimizzazione faccia a faccia. La classica vittima di ingiustizia è un individuo anche quando appartiene ad un gruppo stigmatizzato. Il caso Dreyfus può aver provocato grida di “morte ai Giudei!” e dato vita al Sionismo, ma era interamente focalizzato sulla colpa o l’innocenza di Dreyfus (e secondariamente su altri individui nell’esercito, sulla comunità ebraica, sulla stampa progressista e reazionaria, ecc.).

 

Di contro, il carattere specifico del senso di colpa bianco postmoderno è la natura collettiva della figura vittimaria. Per citare un paio di esempi degli anni Novanta, lo scandalo Tailhook [3] e il pestaggio di Rodney King non riguardarono tanto King o Paula Coughlin ma i neri e le donne, e perfino le minoranze in generale (la maggior parte dei saccheggi durante le sommosse scatenate dal caso King furono operati da ispanici). King né la Coughlin erano o innocenti o colpevoli: erano vittime. L’assoluzione di O.J. Simpson nonostante la sua patente colpevolezza è stata espressione di un’assimilazione siffatta dell’individuo al suo gruppo razziale. La maggioranza dei giurati neri che votarono per l’assoluzione e i loro sostenitori dentro la comunità nera (si stima che un 70%  dei neri proclamasse l’innocenza di Simpson) in realtà non stavano giudicando Simpson ma stavano piuttosto “mandando un messaggio” alla maggioranza bianca. In questo caso, l’applicazione della retorica vittimaria ad un individuo privilegiato non è riuscita a persuadere il pubblico generale/bianco, ma questa retorica è stata appresa e rinforzata da gente che successivamente si è abituata ad usarla.

 

Ciò che rende possibile il senso di colpa bianco collettivo è il fatto che, sebbene coloro che partecipano alla scena originaria uccidano solo una vittima singola, la loro colpa—e su questo punto noi ci distinguiamo da Freud e Girard—non è nei confronti di quell’individuo ma della divinità, il significato del segno sacro che essi hanno spogliato del suo referente. Ci si può rammaricare di una perdita, ma verso un essere sussistente ci si può soltanto sentire colpevoli. Mettere in corto circuito questo processo conglobando vittima e divinità, come nella dottrina cristiana dell’eternità del logos incarnato, rende impossibile la comprensione di un modo di pensare nel quale l’individuo è significante solo come rappresentativo di un essere collettivo. La retorica vittimaria è un’estensione della Sklavenmoral di Nietzsche, mediante la quale il debole domina il forte, ma aggiunge una componente collettiva che Nietzsche non ha mai anticipato. Il ressentiment di Nietzsche subordina il forte ai preti giudeo-cristiani sulla base di una Morale astratta che condanna l’esercizio del potere mondano piuttosto che a partire da un senso di colpa nei confronti di coloro sui quali si esercita il potere. L’arma degli schiavi cristiani contro i loro signori è la loro fede nella promessa di Cristo a ciascuno di loro come individui, non un’accusa di schiavofobia. La fase del movimento per i diritti civili dominata dalla figura di Martin Luther King prendeva esempio esplicitamente da questa visione del Cristianesimo. La generale reverenza provata verso Luther King riflette la sua enunciazione di una visione egualitaria che trascendeva il colore della pelle. Non è affatto un caso che, oggi, quelli che hanno una più forte identità cristiana siano proprio quelli schierati contro il senso di colpa bianco. Il senso di colpa bianco può dipendere dall’associazione cristiana del sacro con la vittima, ma rigetta la fondamentale mediazione cristiana, che passa per Dio. Il pensiero vittimario postmoderno è fondamentalmente ateistico: esso vede l’interazione umana come un gioco a somma zero che si svolge su di una scena priva di mediatore centrale, e questo è propriamente il motivo per cui esso è così vulnerabile ai paradossi della cooperazione sul modello del Dilemma del Prigioniero [4].

 

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Storicamente, la centralità collettiva del senso di colpa bianco deriva dall’Olocausto. Che una società inorridita da Auschwitz abbia liberato le sue colonie e posto fine alla segregazione razziale riflette un difetto morale nelle classificazioni de jure che ha le sue radici nella scena originaria.  Dato che il senso di colpa bianco postmoderno è una reazione all’ideologia nazista della razza, è importante esaminare il substrato morale di questa ideologia, che è stata una versione così estrema dei valori morali imperanti da determinare un cambiamento paradigmatico, il quale ha tracciato una circonferenza nuova e più piccola intorno al comportamento che si può accettare. Il razzismo nazista inizia con l’antisemitismo, che fornisce il tema centrale della filosofia della vita di Hitler così come è esposta nel Mein Kampf, e dopo il 1933 è il mezzo centrale per affermare tramite l’esclusione la solidarietà della comunità ariana. La stigmatizzazione degli Ebrei è stata il modello esemplare per tutte le leggi razziali naziste: se si potevano giustificare l’espulsione, la spoliazione e lo sterminio finale degli Ebrei affermando l’incompatibilità della loro esistenza con la salute della Germania ariana, allora altri gruppi (zingari, omosessuali, malati mentali) potevano essere condannati secondo gli stessi criteri.

 

Gli Ebrei non sono semplicemente gli Altri della società occidentale immaginati da Sartre nelle sue famose Réflexions sur la question juive (1946): essi sono coloro che rifiutano Cristo nel nome della Torah, il Vecchio Testamento che è garante del loro esser stati i primi a essere scelti dal Dio Unico e a sceglierlo a loro volta. (Per un recente esame di priorità degli Ebrei e antisemitismo, vedansi le Chronicles 301 e 302.) La persecuzione nazista degli Ebrei non è stata portata avanti come dominio sadico sui più deboli—sebbene molti dei “volonterosi boia di Hitler” si siano abbandonati a questo sentimento—ma come reazione difensiva di un soggetto che si sente escluso dall’Essere sacro per opera di coloro che vantano un diritto di priorità. Dato che le forze del sistema di mercato sono per natura globalizzanti, la loro associazione con gli Ebrei, nomadi e tribali, il cui favoleggiato potere sul denaro, al di là degli esempi storici, deriva in ultima analisi dalla loro priorità nello scambio sacro, consente all’antisemita di promuovere l’eliminazione degli Ebrei come mezzo per sradicare l’anomia moderna e restaurare la solidarietà comunitaria.

 

La Postmodernità ignora la priorità ebraica nel monoteismo che riflette la struttura paradossale dell’esser-primi-nell’eguaglianza, la quale è, come evidenzia Adam Katz, un elemento necessario della scena originaria minimale (vedasi il

suo Remembering Amalek: 9/11 and Generative Thinking  http://www.anthropoetics.ucla.edu/ap1002/amalek.htm). Proprio come nella scena originaria uno solo dei partecipanti deve avere per primo scoperto/inventato il segno, così un solo popolo deve essere stato il primo a scoprire/inventare il Dio Unico. Nella configurazione originaria, l’Ebreo è il primo membro del gruppo a trasformare il gesto appropriativo in un segno designante l’oggetto alla cui appropriazione (temporaneamente) si rinuncia. Perseguire l’Ebreo significa rifiutare questo gesto originario e, con esso, la stessa umanità. Chi rifiuta non riesce a vedere che la priorità dell’Ebreo è quella della rinuncia, non quella dell’appropriazione. Gli Ebrei rinunciano all’opportunità di evocare direttamente il centro sacro: nell’Esodo Dio rivela a Mosè il suo nome come frase dichiarativa (vedi Science and Faith, 1991). La deviazione antisemitica sul primo emittente del segno, sotto l’effetto del risentimento originario, di quell’aggressione che originariamente era diretta verso l’oggetto centrale, nella scena originaria deve rimanere solo una possibilità latente, poiché se questa deviazione avesse avuto luogo il segno della rappresentazione umana non sarebbe stato comunicato.

 

L’antisemitismo—che a sua volta è una protesta vittimaria—costituisce il paradigma di ciò che viene condannato dal pensiero vittimario che perviene a dominare l’era postmoderna. Ma sebbene l’antisemitismo sia di molto differente dalle forme di razzismo più rozze—ad esempio, da quella del Sud segregazionista—la retorica vittimaria postbellica rifiuta di distinguere tra la denuncia della priorità sacra degli Ebrei e la subordinazione di gruppi giudicati inferiori. Essendo lo sterminio di malati mentali, Zingari, Russi, oppositori politici ed omosessuali un male equivalente a quello dello sterminio degli Ebrei—e molti non-ebrei, stanchi dell’enfasi sull’Olocausto, insistono su questa equivalenza al punto di farne un rimprovero—gli orrori del nazismo (e quelli di un razzismo meno trattato ma quasi altrettanto violento come quello giapponese) hanno provocato una reazione contro le distinzioni de iure anche nei confronti di gruppi che non hanno fatto sorgere alcuna invidia della priorità nei loro dominatori, al di là di una russoviana nostalgia del naturale. Le potenze coloniali non provavano invidia—o risentimento—nei confronti dei popoli stranieri soggiogati: esse semplicemente li consideravano come posti su di un livello inferiore dello sviluppo umano, vuoi sotto il profilo dell’umanità stessa (cosa ingiustificabile), vuoi sotto il profilo della loro organizzazione sociale (il che è giustificabile). Ciò che in entrambi i casi si vedeva era un gruppo dominante che ne opprimeva un altro meno forte, a prescindere dall’ideologia che giustifica l’oppressione.

 

E tuttavia l’adozione del modello antisemitico non è senza conseguenze. Poiché la persecuzione degli Ebrei si fonda sul risentimento verso una superiorità attribuita, la loro relegazione in uno status de iure inferiore non è giustificata da una affermazione di minori capacità. E dal momento che la distinzione nazista-ebreo è il modello paradigmatico dello status differenziale, esso è portato implicitamente ad invalidare qualsiasi pretesa di superiorità sugli altri fatta secondo lo spirito del “fardello dell’uomo bianco”.

 

Eppure, il conseguimento dell’eguaglianza de iure per i gruppi etnici e razziali non rappresenta, come hanno stabilito i sostenitori postbellici della meritocrazia, la fine della storia nella sfera civile. Se si trova curioso il fatto che la battaglia per ricevere un uguale trattamento al ristorante sia stata seguita così presto da richieste di compensazione, si dovrebbe ritornare al modello storico che ha fornito la garanzia morale per i movimenti di liberazione postbellici. L’invidia che è una componente essenziale dell’antisemitismo è riprodotta ex post facto dal garantire preferenze ai gruppi vittime: il compensatorio sostituisce la priorità storica. Gli Ebrei hanno fatto la curiosa esperienza del passaggio, nel giro di una generazione, da Untermenschen a bianconzoli [5], dal subire una discriminazione a causa di quello che sono al subirne un’altra—in verità molto più benigna—a causa di quello che essi non sono.

 

DEMOCRAZIA E PRIORITÀ

 

Sebbene, al pari di ogni altra modalità di interazione umana, il senso di colpa bianco abbia radici nella scena originaria, esso non dovrebbe essere considerato un fenomeno originario. Similmente, il nucleo minimale dell’umano non può contenere in sé atteggiamenti quali la xenofobia, dal momento che la comunità originaria è, nel momento in cui si stabilisce, l’umanità intera. Il senso di colpa originario che segue allo sparagmos non divide la comunità contro se stessa. Una relazione tra gli umani alla periferia e il centro sacro può diventare mediata da altri umani solo una volta che questi ultimi siano divenuti capaci (grazie all’accumulazione di un surplus economico) di usurpare la funzione mediatrice centrale della redistribuzione rituale.

 

Il compito dell’analisi originaria in casi del genere è quello di determinare quale momento della scena originaria rechi in sé la potenzialità di queste dissimmetrie.  In riferimento al senso di colpa bianco, questa analisi ci permetterà di chiarificare la relazione storica tra la xenofobia genocida delle potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale (Auschwitz) e il complesso di colpa-risentimento che domina l’era postbellica e rimane ancora una forza potente oggi nel mondo democratico progressista.

 

Nella scena originaria, la formazione della comunità caccia fuori tutti i conflitti interni; ma, come Adam Katz ha fatto rilevare, questo non è un processo istantaneo. Che l’emissione del segno sia operata spontaneamente da tutti i membri del gruppo è un’ipotesi più forte e meno parsimoniosa rispetto a quella secondo cui un primo membro del gruppo, interrompendo il suo gesto appropriativo nei confronti dell’oggetto centrale, fornisce agli altri un modello di comportamento da imitare. Questa priorità, una volta che noi l’abbiamo inclusa nel nostro modello, contiene la potenzialità latente non solo della differenziazione, ma anche della gerarchia, e dei risentimenti che la gerarchia suscita sia in quelli che stanno in alto sia in quelli che stanno in basso.

 

La categoria generale della xenofobia è anticipata dalla possibilità latente di un risentimento verso (e di una discriminazione contro) i primi o gli ultimi utilizzatori del segno,  sia gli uni che gli altri visti come più prossimi al centro rispetto all’io non-marcato: i primi perché hanno scoperto la sua sacralità, i secondi perché hanno persistito nelle loro pretese sulla sua realtà. La relazione tra i due risentimenti è asimmetrica. La cruciale replica storica della priorità della scena originaria in un mondo di società eterogenee è la invenzione/scoperta ebraica del monoteismo, la ridefinizione della scena come un fenomeno esplicitamente globale con il Dio Unico come suo unico centro (vedansi le Chronicles 301 e 302). Sebbene il Dio monoteistico sia affermato come Dio che sta in modo uguale sopra tutti gli uomini, il fatto che siano stati gli Ebrei ad affermare questo del loro dio dà origine al persistente fenomeno dell’antisemitismo. Similmente, le radici originarie della comune xenofobia (razzismo, etnocentrismo) affondano nella possibilità simmetrica che hanno i primi utilizzatori del segno di operare una discriminazione degli ultimi.

 

Il senso di colpa bianco si allontana dal suo modello originario assai più della xenofobia: nella forma forte in cui lo conosciamo oggi, difficilmente può essere collocato prima della caduta del muro di Berlino, e il senso di colpa per l’esclusione dell’Altro collettivo, che è un’estensione della nostalgia pre-romatica del primitivo, probabilmente non precede la Rivoluzione Francese. Una nota dell’Essai sur les revolutions (1797) di Chateaubriand, che descrive il preteso incontro dell’autore con un indiano d’America presso le Cascate del Niagara, contiene la straordinaria sentenza “Come gli ero grato del suo non amarmi!” (Comme je lui savais gré de ne pas m'aimer!). Questa primordiale espressione di senso di colpa bianco è nondimeno lontana dalle odierne espressioni terrorizzate del politicamente corretto, se non altro perché a quel tempo la sua affettazione idiosincratica di avversione per se stessi sarebbe apparsa—ed era intesa ad apparire—paradossale. Come tutti i fenomeni di mimetismo, il senso di colpa bianco quando è espresso da un ego romantico unico non è lo stesso che si dà quando a provare vergogna delle proprie pretese di universalità  è un’intera classe, i cui membri illuminati indicano chi mantenga queste pretese come l’elemento di contrasto che fa risaltare la loro virtù.

Il senso di colpa bianco interiorizza entro il gruppo non-marcato l’accusa, reale o potenziale, da parte dei marcati secondo la quale essi sono stati esclusi dalla sua concezione dell’umanità universale—come capita, ad esempio, quando per parlare si usa il maschile come genere prevalente sul femminile [studenti e studentesse sono stati richiamati all’ordine – esempio del trad.], ma non quando, seguendo la nuova ortodossia, per vendetta o ironia si fa il contrario. Il senso di colpa bianco è il rovescio del razzismo inconscio: con la fine delle differenze de iure nello status dei gruppi, un’ansia senza confini, del tipo di quella che ha ispirato l’articolo di Michael Kinsley sopra citato, prende il posto del senso di colpa per i privilegi sanciti dalla legge.

 

Il rifiuto della priorità non ispira alcun senso di colpa: è l’essere ultimi che è sinonimo di condizione vittimaria. Così, soltanto durante i primi anni del secondo dopoguerra, prima che Israele desse prova di possedere l’esercito più potente del Medio Oriente, gli Ebrei hanno potuto trarre, essendo visti come semplici vittime, vantaggio sostanziale dal senso di colpa bianco. Non esiste alcun senso di colpa bianco antisemitico che si distingua dalla tipologia antirazzista: sebbene l’ideologia e il comportamento dell’antisemita differiscano da quelli del razzista tipico, egli da sé non afferma la sua invidia della priorità ebraica, e così, anche se pentito, non tematizza questa distinzione nel senso di colpa. Così solo una metà della lezione dell’Olocausto è stata appresa: da un lato, i privilegi de iure debbono essere aboliti per includere tutti gli umani in un’umanità globale che sta profilandosi, ma dall’altro—e questo tende ad essere dimenticato—le priorità storiche debbono essere preservate dai tentativi, operati dal senso di colpa, di negare la loro validità, altrimenti tutti saranno assorbiti in un risentimento omicida. Hitler disprezzava tutte le razze “non ariane”, ma fantasticava che la sua missione su questa terra fosse quella di proteggerla dagli Ebrei (“Facendo la guardia contro i Giudei io difendo l’opera del Signore”: Mein Kampf, cap. 2). Il rifiuto della priorità, senza la quale l’umano è inconcepibile, è equivalente al nichilismo, l’odio dell’Essere. Precisamente per il fatto che gli umani sono le creature più mimetiche, essi progrediscono con l’imitarsi l’un l’altro piuttosto che con lo scoprire ciascuna verità in modo indipendente l’uno dall’altro: la storicità umana dipende da qualcuno che arriva per primo.

 

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Prima dell’ undici settembre si sarebbe potuto immaginare che il nichilismo del senso di colpa bianco stesse risolvendosi, in analogia col dialogo tra fautori e avversari del politicamente corretto che si svolge nelle università. La prima metà degli anni Novanta ha visto molti libri dedicati alla questione del politicamente corretto: Dinesh D'Souza, Illiberal Education: The Politics of Race and Sex on Campus (1992); Jung Min Choi and John W. Murphy, Politics and Philosophy of Political Correctness (1992); Ward Parks, Political_Correctness and the Assault on Individuality (1993); Edith Kurzweil and William Phillips, eds, Our Country, Our Culture: The Politics of Political Correctness (1994); Sarah Dunant, ed. War of the Words: The Political Correctness Debate (1994); Marilyn Friedman and Jan Narveson, Political Correctness: For and Against(1995), ed altri ancora. I conservatori forniscono storie degli orrori del politicamente corretto; i progressisti negano la serietà di questi argomenti e additano la persistenza di sessismo e razzismo; i moderati condannano gli eccessi di entrambe le parti e ci ricordano che le università—e la società nel suo insieme—funzionano abbastanza bene. Il politicamente corretto si declina in molti modi, ma nella società occidentale il movimento che lo ha spinto con più forza è il femminismo, dominato da donne dell’alta borghesia con una professione, i cui obiettivi sono di carattere incrementale e non nichilistico. A prescindere dalle fantasie delle estremiste che parificano sesso e stupro, e il patriarcato con la tirannia, nelle società del “primo mondo” uomini e donne continuano a trovare modi per andare avanti, adattandosi alla crescente ma mai totale convergenza delle traiettorie della loro vita. Dopo l’undici settembre, tuttavia, ci viene ricordato che non possiamo goderci il lusso di portare a compimento l’integrazione culturale tra di noi: che vi sono persone che vogliono uccidere e morire per distruggere il sistema liberal-democratico, o in ogni caso sovvertirlo per quanto possibile. È sempre più evidente come l’Islam radicale, che fonde insieme antisemitismo e antiamericanismo nella sua opposizione sia alla priorità storica che a quella sincronica, mette in questione l’etica vittimaria, che richiede l’espiazione in luogo dell’affermazione di questa priorità.

 

La necessità di una scelta tra una posizione postmoderna ed una postmillenniale intorno al paradigma vittimario, tra l’accettare e il rifiutare il senso di colpa bianco su scala globale, ha prodotto una chiara differenziazione tra i due partiti politici americani, in netto contrasto con la rilassatezza del dibattito che sulla politica estera si aveva prima dell’undici settembre. Un esempio fra tutti: Martin Peretz, caporedattore di New Republic, il cui liberalismo coi muscoli è influenzato dalla sua devozione a Israele, nel 2000 sostenne con entusiasmo Gore. Nel 2004, definì Kerry “incompetente” e quasi sposò la causa di Bush, nonostante l’opposto parere del suo comitato di redazione. Nel frattempo, la maggioranza del Partito Democratico si è identificata col “pacifismo” di Michael Moore:

 

…alla prima di Fahrenheit 9/11 a Washington tra gli spettatori c’erano il presidente nazionale del Partito Democratico Terry McAuliffe, i senatori Tom Daschle, Barbara Boxer e Tom Harkin, i deputati Henry   Waxman, Charles Rangel e Jim McDermott (il quale prima della guerra disse che dava più credito a Saddam Hussein che a George W. Bush)…

 

Gli spettatori si sono alzati in piedi e hanno tributato al film un’ovazione. A Manhattan, il tesoriere del Comitato Nazionale democratico Maureen White ha organizzato una proiezione del film riservata ai maggiori finanziatori locali del partito. Raramente dei leader di un partito politico hanno promosso in modo così spudorato un film commerciale. (Chicago Sun-Times del 6 luglio 2004)

 

Di contro, la promozione della democrazia globale operata da Bush è un chiaro rigetto del senso di colpa bianco come tacita base della politica. Rifiutandosi di cedere al risentimento mediorientale verso la potenza americana, Bush chiede che i popoli dell’area spostino questo risentimento sui loro governanti non eletti, e si impegnino nella creazione di istituzioni di governo democratiche.

 

Le recenti elezioni in Irak illustrano la pertinenza della dottrina di Bush. Che la democrazia politica sia la soluzione del problema del senso di colpa bianco è qualcosa di più di un pezzo di propaganda neocon. Il senso di colpa bianco dipende da un modello di relazioni umane indelebilmente vittimario, secondo il quale, a prescindere dalle protezioni legali di cui godono, i gruppi marcati mantengono una traccia di esclusione dalla norma che privilegia i non-marcati. Invece di accettare la necessità della priorità come base di tutto il progresso umano, questo modello la condanna come alibi per la vittimizzazione dell’Altro. Il senso di colpa bianco pone in essere una generazione sacrificale del significato analoga a quella operata dalle posizioni russoviane dei Romantici. Sebbene questi ultimi fossero meno timidi dei postmoderni nel proclamarsi uniche vittime, e meno vincolati dalla competizione con la colpa dei loro pari, essi già vedevano se stessi come difensori delle vittime dell’arido borghese, da loro santificate (per i particolari, vedi L’Educazione sentimentale di Flaubert).

 

La democrazia basata sulle elezioni fornisce una cura formale per il senso di colpa bianco. In modo simmetrico rispetto al risentimento, il senso di colpa bianco dipende dalla distinzione tra marcato, persecutore non-marcato, e vittima, che esso insieme condanna e perpetua. Nel processo democratico, di contro, le differenze politiche circolano, senza che una di esse sia più marcata di un’altra. Nella cabina elettorale, tutti sono eguali. La democrazia non abolisce le differenze di ricchezza e status, quel che essa respinge è il modello vittimario. Le persone che eleggono il proprio governo non hanno bisogno di essere trattate come vittime: esse partecipano in un modo di scambio politico che realizza la libertà inerente alla scena originaria. In quanto opposto alla volontà generale di Rousseau, che precede il processo politico, la cui funzione è di scoprirla, il processo democratico, dalle elezioni al governo rappresentativo, genera informazione nuova e inattesa, che consente ai conflitti interni alle società democratiche di rimanere entro la sfera del dialogo: le battaglie sul politicamente corretto non sono combattute con uomini-bomba suicidi.

 

Il momento presente, che vede barlumi di speranza nel Medio Oriente, è un tempo propizio acché sia deposto il nostro senso di colpa vittimario e sia abbracciata la priorità, che sia quella degli Ebrei nel monoteismo, o quella dell’Occidente giudeo-cristiano nella nascita del libero mercato, o quella degli Arabi nelle loro terre ancestrali, come ciò che può generare nuovi gradi di libertà infine benèfici per tutti.

 

NOTE DEL TRADUTTORE

 

1.          Rednecks, lett. colli rossi, sono definiti gli operai bianchi del Sud, rozzi e reazionari, e per estensione i conservatori e i reazionari.

2.          Al Sharpton: reverendo nero che ha conteso a Jackson il ruolo di guida politica carismatica, con molti infortuni. Riporto alcune righe da Il Foglio della Domenica del 3 marzo 2002.  “Le disavventure di Al Sharpton sono un'infinità. La più grossa è quella legata al caso Brawely. Nel 1987, Tawana Brawely, studentessa nera di 15 anni, raccontò di essere stata violentata da un branco di ragazzi bianchi. Il suo racconto si rivelò una bufala, ma Sharpton fece in tempo a organizzare una feroce campagna contro Steven Pagones, allora assistente del procuratore distrettuale, accusato di essere uno degli assalitori della Brawely. Sharpton non è mai riuscito a liberarsi di questa storia ma non s'è mai pentito, neanche dopo la condanna per diffamazione”.

3.          Durante la convenzione del settembre 1991 dell’associazione Tailhook dei piloti della marina USA, vi fu un grave caso di abusi sessuali nei confronti di 14 donne ufficiali della marina e 12 donne civili. Nel 1995 Paula Coughlin, una pilota di elicotteri, vinse più di cinque milioni di dollari in una causa contro la catena di hotel Hilton per essere stata molestata sessualmente da colleghi aviatori all'Hilton di Las Vegas.

4.          Un’ottima illustrazione del Dilemma del Prigioniero è la seguente, che col consenso dell’autore traggo dal sito Problem setting di Umberto Santucci ( http://www.problemsetting.com/index.htm). Due persone sono state arrestate dopo una rapina in banca, e sono state messe in cella di isolamento. Un furbo inquisitore fa ad ognuno di loro la proposta: "se tu confessi e il tuo complice tace, ti libererò da ogni accusa ma userò la tua testimonianza per far condannare duramente l'altro. Se tu taci e il tuo complice confessa, tu sarai condannato e lui liberato. Se confessate tutti e due, sarete entrambi colpevoli ma io terrò conto del fatto che avete mantenuto la vostra parola. Se tacete tutti e due non posso considerarvi colpevoli della rapina, ma vi condannerò ugualmente per uso illegale di armi da fuoco. Se desideri confessare, devi lasciare una nota al carceriere prima del mio ritorno che avverrà domani mattina" Questo è il gioco proposto da Merrill Flood e Melvin Dresher nel 1950, come parte delle ricerche sulla teoria dei giochi promosse dalla Rand Corporation per le possibili applicazioni ad una strategia nucleare globale. Il titolo "il dilemma di prigioniero" e la versione attuale si devono ad Albert Tucker che volle rendere più accessibili le idee di Flood e Dresher a un pubblico di psicologi di Stanford. Il "dilemma" affrontato dai prigionieri è che, qualsiasi cosa faccia l'altro, ad ognuno dei due conviene più confessare che rimanere zitto. Ma se confessano tutti e due la conseguenza è peggiore che se ambedue fossero rimasti zitti. Un punto di vista comune è che l'enigma illustra un conflitto tra razionalità individuale e di gruppo. Un gruppo i cui membri perseguono razionalmente il proprio interesse può finire peggio di un gruppo i cui membri agiscono in modo contrario al proprio vantaggio razionale. Più generalmente, se si pensa che i vantaggi non rappresentino i propri interessi, un gruppo i cui membri perseguono razionalmente qualsiasi obiettivo può avere meno successo che se i suoi componenti avessero perseguito razionalmente i propri obiettivi individuali. Il dilemma ha avuto molto successo e una copiosissima letteratura. Può essere giocato in tanti modi, con sofisticate teorie matematiche e probabilistiche. Può servire anche da modello simbolico  per racconti, film, rapporti di affari e di lavoro.

 

5.          Tentativo di rendere lo slang dei neri “Whitey”, solitamente spregiativo.

 

 

 

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