I libri della giovinezza

 

Elisabetta Liguori

elisabetta.liguori-lisi@poste.it

 

 

C’è chi dice che per i migliori sia oggettivamente riscontrabile un picco artistico creativo. Uno soltanto, intorno ai ventitré anni, mese più, mese meno. Dopo quel picco, quindi, le beautiful mind, i matematici, pittori, musicisti, poeti, scivolerebbero lentamente verso il declino. Questa brevità sembrerebbe connessa sia alla qualità delle energie fisiche e mentali, quanto alla leggerezza del cuore, o forse ad una specie di euforia psichica, o, chissà, al singolo momento casuale. Se così fosse la creatività dovrebbe essere avvicinata all’arte. E, se così fosse, arte e giovinezza sarebbero in qualche modo sinonimi, due emozioni contigue. La giovinezza conterrebbe in sé l’arte, così come l’arte la giovinezza. Artistico sarebbe dunque proprio quel momento fuggevole e incomprensibile, colto nel momento esatto della sua fuga.

In altri termini quest’idea confermerebbe la naturalità del genio, del talento puro. 

Io, che mi sono sempre chiesta se il talento esista davvero e di che materia sia fatto esattamente, proverei un piacere immenso nel capirci qualcosa di più sul punto, soprattutto ora che sono alla soglia dei quaranta anni e quel noto picco è solo un vago ricordo.

In letteratura ci sono numerosi esempi di verdi esplosioni di genio (ma anche esempi contrari), poi seguite da un inesorabile calar di tono, da una dissipazione graduale e inevitabilmente triste delle personali, iniziali, risorse. Da sempre, pertanto, i giovani scrittori sono oggetto di attenzione, invidia, disorientamento, secondo scuole di valutazione differenti. Quel che è certo è che la questione desta molto interesse, tanto che, da Tondelli in poi, non si fa che discuterne, raccogliendo gli scritti di letterati in culla, confrontandoli, analizzandoli, proteggendoli o sfruttandoli come si fa con inquiete piantine capaci di frutti imprevisti. Una visione come questa rischierebbe però di porre da una parte i giovani, dall’altra il resto dell’umanità che scrive. Bisogna andarci cauti.

Giusto a tal proposito, mi è capitato di recente di leggere e presentare i libri d’esordio di due autori molto giovani: Adesso tienimi di Flavia Piccinni e Andai dentro la notte illuminata di Giancarlo Liviano D’Arcangelo. Durante la presentazione si è molto parlato di letteratura e giovinezza. È stato estremamente interessante discutere di quello che scrivono e leggono i giovani. Di come la letteratura si serva della giovinezza, e di come la giovinezza si serva della letteratura. Ieri e oggi. Della durata anagrafica del talento e circa l’esistenza o meno di un’ univoca giovinezza letteraria. Molti i quesiti, poche le risposte definitive. Quella sera avevamo per le mani due libri, tra loro molto diversi, accomunati solo da una gioventù dolente. Due libri molto ben scritti. Due storie quasi opposte per stili e contenuti, ma ugualmente tragiche e furenti. Due protagonisti di sesso diverso: Martina per la Piccini, Alex per Liviano. La giovinezza letteraria di Martina e  Alex descritta da due giovani autori di talento: quale osservatorio migliore?

Vediamo nel dettaglio.

La Martina protagonista di Adesso tienimi è una ragazza ferita, che vive il suo ultimo anno al liceo come il peggiore dei mali possibili. Violentata e sedotta da uno dei suoi professori, ne diventa prima amante schiavizzata, per poi esserne abbandonata, quando il suo tiranno sceglie di togliersi la vita sparandosi un colpo alla testa. Martina è quindi una ragazza malata, che attraversa la sua breve esistenza in una Taranto avvelenata dalla diossina come un fantasma, stravolta da una paura devastante: essere lasciata sola. Perché tutto sembra orrendamente prossimo alla fine per lei: la scuola, l’allegria, l’amore, l’amicizia, la vita. La scuola muore, Taranto muore, ogni forma d’amore muore, il futuro muore e lei assiste all’ultimo atto come paralizzata, riempiendosi la pancia di cibo e gli occhi di visioni del passato.

L’Alex di Andai dentro la notte illuminata è invece un ragazzo di provincia che decide di risolvere i problemi economici della sua famiglia ricorrendo ad effetti speciali. Sul Golden Gate a San Francisco, la notte di Natale, cinque uomini sono pronti a morire pur di apparire in tivù con un fantasmagorico spettacolo in diretta e nello stesso tempo ricavarne un’ingente somma di denaro per i propri eredi. Un texano condannato alla sedia elettrica, un omosessuale malato di aids, un porno attore evirato dalla moglie, due amanti esibizionisti e un italiano medio. Quest’ultimo è appunto Alex, il quale, deluso dalla famiglia, dalla sua città (una Martina Franca rivisitata con il nome di Villa Franca), dall’amore e dalla realtà in generale, decide di regalare la sua vita allo show business, di immolarsi alla società dell’ apparenza mediatica nella quale vive immerso da sempre.

Confrontando i due romanzi, così per gioco, posso individuare alcuni punti comuni.

1)      L’uso della prima persona, l’appassionata urgenza della stessa.

Si  può pensare che l’uso della prima persona ricorra di frequente proprio negli autori più giovani e che questa circostanza sia espressione di una necessaria anagrafica irruenza? Forse sì. Capita infatti che, all’inizio di un’esistenza artistica, la passione, la foga, la rabbia, l’entusiasmo, spinga chi scrive a dar più spazio a se stesso, rispetto al resto, al fine di costruire la propria visione del mondo. È il fascino dell’Io.

2)      L’attenzione agli stati amorosi: causa e conseguenza del dolore.

Sia per Martina che per Alex il dolore è conseguenza dell’amore, così come il dolore è stato a suo tempo causa dell’amore stesso. L’amore così diventa assillo, alibi, lente d’osservazione e psicofarmaco.

3)      L’amore e l’odio per il sud, terra da perdere e poi farsi restituire.

Sono ragazzi del sud, questi due, benché da anni vivano altrove, figli di una nuova forma di dolorosa emigrazione, innocentemente costretti a veder soffrire la propria terra e ad adorarla, pur continuando a guardarla da lontano. Il sud di questa scrittura resta latente e dannoso come un virus. Oggetto di studio e bisognoso di cura.

1)      La solitudine intesa come paura e bisogno.

Martina e Alex vivono ai margini, se pure in contesti differenti. Della solitudine subiscono il fascino, ma nello stesso tempo ne sono angosciati. Sentono l’ antinomia tra il desiderio di uniformarsi e quello di distinguersi. Gli schemi della comunicazione sociale, nei quali sono invischiati, sono per loro croce e delizia. In particolare, per Martina la marginalità è il frutto della depressione, è il realizzarsi della sua più grande paura, alla quale non sa e non vuole opporre alcuna resistenza, mentre per Alex rappresenta isolata espressione di autenticità, in un mondo in cui tutto è apparenza, forma costruita, verità telecomandata.

       5) Il cibo, tanto cibo.

I giovani hanno fame. Devono crescere, quindi hanno più fame degli altri. Tutto sta nella pancia degli uomini, lì resta. Forse anche per questo il cibo ha un ruolo fondamentale in entrambi questi romanzi. Per Martina il cibo è il silenziatore delle emozioni, lo strumento che sostituisce rumore ad altro rumore, il suono che sovrasta le altre urla. Il cibo riempie il vuoto che ha dentro, soddisfa i suoi bisogni primari e per un secondo la distrae, pur continuando ad essere traccia necessaria per la ricostruzione razionale dei propri ricordi. Lei stramangia per spegnersi o accendersi. È il cibo la sua unica voce, quella più immediata, il suo modo di restare in mezzo agli altri, servendosi di un codice condivisibile. Cibandosi continuamente, Martina si tiene ancorata al terreno ed alla vita e, nello stesso tempo, si rende diversa e lontana dagli altri. Per Alex il cibo è diversamente importante. Attraverso lo stesso, lui ricostruisce il senso della propria terra, delle proprie origini, segna le differenze, racconta i ritmi della propria famiglia e dei suoi errori, tradizionalmente regolati su quelli del calendario gregoriano. In più, descrivendo cibo a vagonate, forme tardo gotiche di ostentazione culinaria, sprechi colossali,  Alex fustiga a suo modo i costumi moderni, la loro decadenza, ne diventa indagatore feroce.  Il cibo descritto dai giovani, ne consegue, può diventare verità, strumento di comprensione, condanna e salvezza, oltre che linguaggio.

       6) La morte rappresentata, avvicinata, desiderata.

Bel contrasto quello tra la giovinezza e la morte. Curioso notare come il pensiero della morte si allontani con l’età, piuttosto che avvicinarsi. Questo tema da giovani probabilmente attrae principalmente per la sua vertigine, per la sua astrattezza. Poi, nell’età del mezzo, si pensa ad altro, si tenta la via dell’immortalità o della rimozione. I quarantenni ne parlano poco, infatti. Infine, in vecchiaia, la morte ritorna ed è pensiero razionale. Si pensi a romanzi come quello dell’ultimo Roth. O di Updike. Ad ogni modo, si scrive della morte o con la morte, per intuizione o per sintesi, ma mai per la morte. Chi non ha speranza di vita, neppure un barlume, un solo respiro, non scrive, perché la scrittura, quale che sia il suo contenuto, a mio avviso è sempre gesto di grande ottimismo, di fiducia nel futuro dell’umanità. In questi due romanzi la morte si fa personaggio. Con Lei, Alex e Martina, si confrontano, fantasticano, si mettono in gioco. La morte per entrambi è un’idea che non ha in sé nulla di definitivo, ma al contrario si fa commovente, affascinante, avventato gesto di rivolta.

 

Dopo le comunanze, perché no, è possibile osservare anche le differenze tra i due libri in analisi.

1) Per prima cosa, lo stile.

Flavia Piccinni utilizza una linea più colloquiale, diretta, elegantemente gergale, gemella dell’ambiente che descrive, a tratti minima, ma tagliente, come un piccolo stiletto nascosto in uno stivale. La scelta di tale stile è influenzata anche dalla cadenza del racconto stesso. Direi necessaria.  La narrazione infatti compie un percorso ossessivo ma breve, obbligato dalla patologia esistenziale che descrive: Martina cammina e si muove nella sua città, fa un passo in avanti, a piedi, in auto o in motorino, da sola o in compagnia, e ad ogni suo passo segue una visione, un ricordo del passato, quindi una regressione, accompagnata dallo strazio emotivo che ne deriva. Martina si trattiene, è spaventata, cauta, e la sua lingua appare come smozzicata, incatenata, incerta, minimale.

Giancarlo Liviano invece racconta un universo spettacolare, pirotecnico, rutilante: quello del reality show, della televisione e delle sue icone. Appunto per questo non può che servirsi di una lingua altrettanto spettacolosa, ricchissima, spumeggiante, persino barocca. I suoi sono veri e propri virtuosismi lessicali. Il suo stile è la rappresentazione perfetta di un luccicare accecante e confondente, che si fa sempre più vicino, più inquietante, più opprimente.

2) In seconda istanza, il tono ambientale.

Flavia utilizza ambientazioni di tipo intimo, claustrofobico. A parte il vento che la riempie quando viaggia sul suo motorino, tutto il resto accade, si ripete, si trasforma, sempre all’interno di una sola stanza, di un letto, di un divano, di un’aula. La visione del mondo di questa autrice, conseguentemente, appare solitaria, univoca, desertica. Contaminata, eppur primitiva. I personaggi del suo romanzo, pur avendo ruoli essenziali nel dipanarsi della malattia psichica di Martina, restano fuori dal suo universo, incapaci di incidervi concretamente.

Giancarlo, al contrario, apre a tutto l’universo conosciuto in senso ampio, facendo propria una visone coralmente pessimistica. Il suo è un respiro internazionale. I suoi personaggi sono comprimari: agiscono e interagiscono col protagonista, chiamati a dar voce ora al male, ora al bene, ora al ridicolo, ora alla bellezza, ora all’assurdo, ma, nonostante questa funzione iconografica, non perdono mai di carnalità.

3) Per ultimo, il fine.

Uno scrittore dovrebbe avere un fine quando scrive. Perché scrivono Flavia e Giancarlo? Per necessità e per intuito senza dubbio, ma lo fanno anche per condividere intuizioni differenti.

L’analisi della giovanissima tarantina Piccini è di tipo psichico esistenziale, quella del meno giovane ma sempre pugliese Liviano D’Arcangelo è di tipo sociologico. Quanto ci cambia la violenza? Quanto violenta può essere la morte ? sembra chiedersi Martina. Cosa significa la nostra morte per chi ci vive accanto? Quale è il prezzo della verità nell’odierna società dell’immagine Si domanda Alex.

 

 

Chili e chili di merda da produrre tutte le domeniche, e il cibo consumato che si putrefaceva in materia organica anfibia, finiva per asserragliarsi in ogni angolo dei nostri corpi sugnosi. Il pranzo della domenica era un’ infame indecenza, una vera presa per il culo alla fame del mondo. Era un piroscafo in oro massiccio parcheggiato tra barchette dei pescatori, uno schiaffo all’anoressia con l’esito di farla apparire come un’esplosione di benessere. Il vino annacquava ogni cibo così come il caldo inondava la fame e stritolava l’aria a migliaia di chilometri dai nostri corpi, ad anni luce dalle nostri menti, e se fossimo vissuti laggiù senza un sistema efficiente di fognature, avremmo camminato nella nostra stessa merda per giorni e giorni dopo ogni boccone.

(da Andai, dentro la notte illuminata,  pag. 52)

 

Fino a quando non arrivano gli antipasti, ci guardiamo attorno. Facciamo quelle cose, io e mia madre, di cui noi ridevamo quando mangiavamo al ristorante insieme. Mi ricordo che mi prendevi la mano e poi, mentre mi parlavi, cercavi coppie che stavano in silenzio. Le coppie tristi, così le chiamavi. E se ti chiedevo se anche noi, mai, saremmo diventati così, scoppiavi a ridere e dicevi che era impossibile. Avevamo sempre qualcosa da dirci. Poteva essere un taglio su qualche insegnante o studente, sul furto nel negozio di articoli sportivi di via Nitti, sui tarallini più buoni. Cose serie e stupide si confondevano, si mescolavano fra loro. Vorrei chiedere ad Adriana perchè è venuta. Che cosa è successo. Se papà, una volta tornato a casa, avrà trovato qualcosa da mangiare. Ma ho paura. Vorrei che adesso il cameriere ci portasse qualcosa da mangiare e che i piatti fossero talmente pieni, da non consentirci di parlare.

(da Adesso tienimi , pag. 86)

 

Tutto questo per arrivare a dire: cosa?

In questi due ottimi romanzi, la giovinezza appare come una virtù, non un pretesto. La giovinezza lo è sempre. Essere giovani, e far della propria giovinezza autentica comunicazione, mi sembra un gran merito. Se lo si sa fare bene, meglio. Questi due ragazzi sanno farlo, sono certa, ma se da questo assunto derivi che la giovinezza sia capace in sé di produrre capolavori, io non so dirlo. Chi può escludere che la pratica, l’ambiente, la tenacia dell’osservazione non abbiamo un ruolo altrettanto importante nell’esistenza artistica di un individuo? Nessuno può. mi sento di scartare l’ipotesi che, dopo questo romanzo, Flavia e Giancarlo possano scrivere di meglio. O di peggio. Nessuno può. Un romanzo, o due o tre ad essere molto, ma molto produttivi e fortunati, scritto intorno ai vent’anni ha il merito di offrire a chi legge l’ebbrezza del primo sguardo dell’uomo sul mondo. Gode della leggerezza e del furore giovanile, qualità che s’oppongono al peso che deriva dall’eccesso di consapevolezza tipico della maturità, peso dal quale l’umanità tutta spesso è ammorbata o paralizzata. Si tratta però di un godere, sia chiaro, non di un testimoniare. In altre parole, i libri della giovinezza offrono purezza, innocenza, stupore, sia a scriverli, sia a leggerli, cioè hanno tutto quello che un’opera d’arte deve avere in partenza.

Non so altro. Non so dire se un romanzo scritto a vent’anni sia il migliore romanzo possibile, ma mi sento di affermare che un romanzo scritto con assoluta onestà ed integrità a vent’anni, da un buon scrittore nato al sud in una certa epoca, con specifiche frequentazioni ed esperienze, è probabilmente l’unico che quel certo scrittore è in grado di scrivere ai suoi vent’anni posto nelle medesime condizioni.

È l’unicità, si sa, è un valore universale.

 

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