Finitudine e infinito in Leopardi
Antonio Prete
da Leopardi e il pensiero moderno, Feltrinelli, Milano 1989
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Je ne peints pas l'estre. Je peints le passage
MONTAIGNE, Essais, III, 2
L' irreversibile, la malinconia
La figurazione del tempo nella scrittura leopardiana ha fratture, sospensioni, ferite: come non è risolta nella scansione che convoca passato e futuro entro il cerchio visibile del presente, così non ha alcuna solidarietà con i fantasmi della promessa e della rigenerazione.
Una perturbante insistenza scuote fino alla vertigine la meditazione leopardiana sul tempo: il già stato, il mai più, il terminato per sempre dischiudono il vuoto di un tempo bruciato, fatto mera assenza, imprigionato nell'impossibile. Leggiamo in data 11febbraio 1821 nello Zibaldone (644-46): "L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso." E, in una considerazione sulla partenza, riferita all'infanzia: ... è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita".
Questa temporalità che si manifesta con l'abisso di una frattura, col vuoto di una cancellazione, non ha le tracce dell'epicurea sospensione del tempo, né è rassicurata da una escatologia riconciliatrice.
La finitudine è, nel suo primo movimento, esperienza dell'essere esposti, non protetti neppure da quel ricomporsi del tempo che è la narrazione, il piacere della narrazione. Perché anche la ricordanza, questo movimento che dischiude insieme le speranze antiche e l'ombra che le dissipa, conosce la spina dell'irrevocabile, il dolore del non ritorno:
La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosa, quando essa è considerata come passato, finito, che non è, non sarà più, fait (Zib., 4492, 21 aprile 1829).
"Era quel dolce / E irrevocabil tempo": nel silenzio che per un istante separa, con la grazia della spezzatura, il dolce e l'irrevocabile c'è la pena per la stretta complicità del dolce e dell'irrevocabile. Il tempo giovanile dell'amore torna nel ricordo con la spada dell'irreversibile. Un ossimoro del pensiero. Che ha in sé la stessa violenta convivenza degli altri leopardiani ossimori: le vane speranze, gli ameni inganni, la calda disperazione. Sintomi, tutti, di una ferita, di una condizione di esilio. E anche quel leggero possesso di sé, quella percezione del tempo cristallizzato in ricordo che, nell'idillio Alla luna, lo specchio lunare rinvia alle "luci" del poeta, insieme con il piacere della rimembranza, è poi allontanato nel "tempo giovanil", confinato in un suo irripetibile e consunto orizzonte: i due versi aggiunti in calce a una copia dell'edizione Starita del 1835 sanciscono l'amarezza per questa distanza ("Nel tempo giovanil, quando ancor lungo / La speme e breve ha la memoria il corso").
Il ricordo, chiuso nel suo irreversibile tempo, è uno dei fantasmi che visitano e confermano l'esilio dalla felicità: e così lo intenderà Kierkegaard quando in uno scritto di Enten Eller cercherà "il più infelice" (Il più infelice è appunto il titolo del discorso) tra le "individualità del ricordo", e della più compiuta di esse dirà: "Ciò che dunque spera sta dietro di essa, ciò che ricorda sta davanti."
La malinconia per la cosa finita ha nell'infinito. nell'idea e nel desiderio di infinito, la sua ragione:
La cagione di questi sentimenti è quell'infinito che contiene in se stesso l'idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v'è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più (Zib., 2243, 10 dicembre 1821).
Il desiderio, o l'idea, di infinito fonte della malinconia: il sublime romantico ha qui una sua prima esegesi. La cosa terminata, che l'infinito contiene e dice, abita il tempo del poeta, come pietrificata vita, e col gelo di una bianca assenza. La poesia di Leopardi - dal dissiparsi delle favole antiche all'interrogazione del silenzio lunare - muove da questo vuoto di speranza, da questa scheggia d'infinito, e sua negazione, che è la cosa terminata. Ma muove anche - in un ribaltamento della rappresentazione - dal finito che ha iscritto in sé il suo oltre, dal limite che dice, nel suo stesso porsi, lo sconfinamento e l'azzardo e il naufragio. Il primo movimento attiene alla ricordanza, il secondo alla rappresentazione dell'infinito. Si potrebbero leggere i Canti secondo questi due modi, o sotterranee impalcature - di poetica e di teoresi -: poesia della ricordanza e del tramonto, l'una, poesia dell'infinito, l'altra. Sapendo che la distinzione ha la labilità che ogni confine esegetico ha dinanzi alla vita del testo.
La lingua della poesia buca l'orrore dell'irreversibile e fa tornare la cosa terminata come parola, il mai più come ritmo, il tempo-cenere come tempo del canto. E proprio la poesia - parola dell'assente, corteo di parvenze di un tempo che più non c'è - la terra dove è sospesa la tirannia del tempo storico, e non nella variante umanistica di una sopravvivente voce che ravviva l'opacità del presente, ma nel teatro di una interiorità che dà presenza al fuggitivo, ospita l'irrevocabile, dà un fremito di vita al non vissuto.
Morfologia delle parvenze: la ricordanza, l'indefinito
La ricordanza - nello Zibaldone annessa alla teoria del piacere - è la replica dell'immaginazione allo scacco del desiderio, il costituirsi di un tempo delle parvenze che risarcisce il vanificarsi (anzi l'assenza) di un tempo del piacere. Ma è anche immagine di un'immagine, ripetizione, ritorno di un'immagine antica:
Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica (Zib., 515, 16 gennaio 1821).
La sorgente è un'anteriorità di cui è figura l'infanzia, con il suo tempo senza confine, con i suoi non ancora disvelati miraggi. Questo ritorno, che fa dell'anteriore la radice dell'immagine, è più prossimo al pensiero analitico che alla mémoire involontaire. E quanto al suo rapporto con le figure della nostalgia, non ha i tratti del mal du pays, né sprofonda nello spleen: semmai in questo fantasmatico ritorno del proprio irreversibile tempo, nella sua trasparente e impalpabile lontananza, nella sua così prossima inappartenenza, trema il riflesso di un tempo immobile, dove stanno, inaccessibili e perdute, le favole antiche, la physis vivente, il non-sapere. Così la ricordanza, mentre dischiude un nuovo tempo - d'illusione e di disinganno - lascia trasparire l'impossibile cielo fermo dell'origine. Ogni profondo rammemorare è un pensiero dell'origine, della sua incolmabile distanza.
La ricordanza leopardiana ha più analogie col sogno, con le sue ombre che resistono nel risveglio, piuttosto che con un teatro della memoria: essa dispone, nella verità della finzione, un tempo perché l'immagine possa permanere, e l'illusione possa scambiarsi con il vero. L'apparizione, nei versi di Il sogno, dice questa permanenza dell'immagine:
"...Ella negli occhi / Pur mi restava, e nell'incerto raggio / Del Sol vederla io mi credeva ancora". Il tempo della poesia è assediato da queste parvenze: come se il tempo dell'esistenza lasciasse staccate da sé le ombre del suo passaggio, perché la parola della poesia le potesse poi accogliere e nominare e trattenere. Una custodia della sparizione, una cura dell'assente: la poesia leopardiana è anche un dialogo - di confidenza e di stupore - con quelle ombre, muovano esse dal palco di una storia il cui "suono" è perduto o dall"'aranitica valle" dell'Inno ai Patriarchi o dal "primo giovanil tumulto" delle Ricordanze.
Alla leopardiana meditazione sul tempo non è familiare l'immaginazione del futuro: c'è come una recisione dell'attesa, o meglio una sua dislocazione in un tempo che ne ha già svelato la vanità, e dissipato la gioia, e disperso il segreto. Valéry, che ha consegnato ai Cahiers una lunga meditazione sul tempo, tra fenomenologia, fisica e poetica, dice dell'attesa che è forma temporale dell'impossibile, rottura della successione di eventi, appropriazione di un tempo che non c'è. Queste definizioni, come il bel verso della Jeune Parque "Tout peut naître ici-bas d'une attente infinie" possono riferirsi anche a Leopardi, ma con l'ombra del disinganno già avvenuto, col tremito di un sogno che sopravvive soltanto nel tempo della poesia. La speranza è nominata nell'asprezza ribadita di una negazione: "A te la speme / Nego, mi disse, anche la speme" (La sera del dì di festa). Oppure è osservata, come accade nei numerosi passi dello Zibaldone, nella sua contraddetta necessità: connaturale all'uomo, eppure dissipata dalla ragione.
Il lucreziano tremito di vita, il "novo d'amor desio", la "nova speranza" che scuotono, col ritorno della "bella età", piante e animali, non accolgono il tempo presente dell'uomo, ma rinviano al tempo incontaminato delle favole antiche, al tempo di una physis dalla cui viva e "materna voce" siamo, forse da sempre, separati. Questo paradigma della speranza e dell'armonia che è la primavera, porta con sé, nel suo ritorno, nella sua pienezza di vita, l'immagine di chi dalla speranza e dall'armonia è stato escluso: "... per te non torna / Primavera giammai". La violenza del non-ritorno, che qui l'enjambement, col suo détour, sembra voler risarcire, sovrappone asprezza e dissonanza al petrarchesco "Primavera per me più non è mai". Poi il baudelairiano "Le Printemps adorable a perdu son odeur" eleverà la stagione a sintomo sensitivo del tempo perduto. E pure le ''antiche speranze", che la "rimembranza acerba" divenuta "compagna" del "vago immaginar", preserva, sono, nella meditazione leopardiana sul tempo, figure della permanenza, nomi che chiamano alla presenza quel che non c'è. Paradosso d'una temporalità lacerata, e ricomposta soltanto in quel tempo, non più labilmente interiore, ma fisico, che è il ritmo del verso. Poiché l'esser presente - del limite o dello sguardo - è sempre, per la poesia di Leopardi, un esserci per l'immaginazione: contenga esso il germe di un'avventura che dal "sedendo e mirando" muova verso lo spaurimento e il naufragio, o corteggi, come accade nel Pensiero dominante, un oblio e una quiete che dischiudano la presenza dell'altro, oppure, come in Aspasia, sancisca il dissiparsi, o la rimozione, dello "smisurato amor" e degli "affanni" col verso "Il mar la terra e il ciel miro e sorrido".
Se nell'ordine temporale il presente è il punto di fuga per la sua stessa cancellazione, nell'ordine dello spazio, e dunque del vedere, il confine, e il limite, sono la soglia per un oltrepassamento, per una dissipazione per così dire metafisica dello sguardo. Anche qui la fuga ha attinenza con lo statuto del desiderio, con il suo essere sempre aperto e mai colmato. La forma di questo sconfinamento, di questa complicità con l'oltre, è la "parvenza d'infinito : una parvenza che ha nel vago, nel lontano, nell'indefinito la sua declinazione di poetica.
Nella Storia del genere umano - l'operetta che contamina un'esegesi gnostica del libro della Genesi con le mitografie e cosmogonie classiche - Giove, non potendo comunicare agli uomini la "propria infinità né fare la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini", decide di dilatare i confini del creato. In questa creazione amplificata e diveniente, Giove moltiplica "le apparenze di quell'infinito che gli uomini sommamente desideravano", e, per dare alimento all'immaginazione, crea l'eco, e inoltre lo strepito delle foreste. Apparenze d'infinito sono anche i sogni:
Creò similmente il popolo de' sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non vedeva modo di ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, sebbene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale.
Questa "apparenza d'infinito" come nutrimento necessario degli uomini e come sostanza "umana" della creazione, ci riporta a quei primi commenti della Genesi - da Filone a
Origene a Basilio a Gregorio di Nissa - dove più visibile e incombente è l'ombra del Timeo platonico, e più dolorosa è la ferita di una distanza dall'origine.La parvenza d'infinito, e l'indefinito come sua figurabilità, diventano il sigillo di una ricorrente meditazione poetica. Il circoscritto che richiama, piacevolmente, l'idea d'infinito (Zib., 185, 25 luglio 1820), "l'impressione di una specie d'infinità" che il non vedere i confini comporta (Zib., 472, 4 gennaio 1821), l'indefinito come sostanza delle immagini e sensazioni che dalla fanciullezza salgono e della fanciullezza sono una "rimembranza" e un influsso" (Zib., 515-516, 16 gennaio 1821): passaggi, e germi, di una teoria dell'immagine.
L'indefinito è la traccia per delineare, nelle pagine dello Zibaldone (1744-47, 20 settembre 1821) una poetica della luce solare e della luce lunare, insieme rapportate alla produzione di "idee indefinite": la "sorgente nascosta", la luce incerta e impedita", la luce "vista dalla parte dell'ombra", la luce che nella città "è frastagliata dalle ombre", infine "la varietà, l'incertezza, il non vedere tutto": margini di una teoria della visione che ha il suo compimento e la sua cifra poetica nella luce lunare che vela e rivela insieme: epifania dell'invisibile, finestra su un'interiorità interrogante, emblema di un pensiero che sfida i confini.
Il fuggitivo
Le parvenze d'infinito, che la ricordanza e l'indefinito portano con sé, dislocano la vera existentia in un altrove che nessuna religione può dire. Questa impossibilità di dare voce e senso e compimento a una presentita felicità, a uno stato di desiderio, non ha altra replica che un'interrogazione infinita.
Fernando Pessoa, in una poesia che ha per titolo Canto a Leopardi, dà presenza a questa voce del poeta e, come accade spesso nella mappa delle affinità, la poesia è un'esegesi del pensiero leopardiano: il domandare di Leopardi si colloca nel varco abissale tra un altrove inconoscibile e "o dubio e incerto mundo": nella notte astratta della ragione ("na noite abstracta da Razão") l'inquieto domandare allontana il mondo in una fluttuante parvenza d'esistenza: "Tudo è como se fora inexistente". Il fuggitivo leopardiano, cui Pessoa dà romantica voce, diviene, da figura del tempo, sostanza stessa e definizione del tempo.
Poiché sono vanificati gli emblemi di una barocca vanitas, il fuggitivo appare nella poesia leopardiana secondo i modi teoretici della sua classica rappresentazione: il nascere alla morte, e l'inafferrabilità di un tempo che si consuma appena nominato. I versi di Seneca ("Prima, quae vitam dedit, hora carpsit") o di Manilio ("Nascendo moritur, finisque ab origine pendet"), così come sono ritessuti nella straordinaria riflessione di Montaigne sul rapporto tra filosofia e morte (il capitolo XX del primo libro degli Essais che ha per titolo Que philosopher, c'est apprendre à mourir), sono passaggi di una ininterrotta meditazione che Leopardi raccoglie e protrae, aggiungendovi la riflessione sulla rimozione del sapere della morte, rimozione che è opera propria della civiltà, della sua ''spiritualizzazione''. Quanto all'inafferrabilità, più che al mito faustiano, la riflessione leopardiana è prossima ad altre metafisiche e radicali definizioni, come quella che del tempo darà Schopenhauer: "Il tempo è ciò in grazia del quale ogni cosa, in ogni momento, diventa nulla nelle nostre mani" (Parerga e Paralipomena, cap. XI). Ma il fluire non ha per Leopardi quell'argine e principio che per Schopenhauer è la "volontà di vivere".
La poesia leopardiana non è l'esercizio dell'evocazione e del ricordo, ma l'allestimento di un teatro vuoto di gesti, su cui campeggia un personaggio-ombra: il passaggio. L'involarsi di "ogni giorno più lieto" (Ultimo canto di Saffo) ha nella vanità della storia il suo sconfinato reciproco: "Or dov'è il suono / Di quei popoli antichi? or dov'è il grido / De' nostri avi famosi, e il grande impero / Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio / Che n'andò per la terra e l'oceano?" (La sera del dì di festa). Sulla violenta sottrazione di presenza che la morte sancisce resiste il nome di Silvia o di Nerina, a dire le "speranze antiche", ma questo dire comporta una dilatazione "infinita" della caducità: "Questo è quel mondo? questi / I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi / Onde cotanto ragionammo insieme?"
La salmodia del vanire - svincolata da ogni protezione trascendente - sarà ritmo del pensiero negli ultimi Canti.
Ritmo che, in A se stesso, si affida a un adagio nei cui silenzi traspare il patto del vivere col morire: austera variazione dell'elegia del nulla così come dall'antico vento d'Oriente era trapassato nel sapienziale Qohélet.
Nel marmoreo addio della prima sepolcrale l'incontro tra la bellezza e l"'inevitabil segno" che è la morte svolge l'exemplum più consueto della vanitas verso il grido contro la natura: la quale è indifferente all'arcana legge del distacco, al dolore fatto sostanza del vivere. Un grido che nell'altra sepolcrale veste i modi di un'interrogazione sulla metafisica radice del soffrire, su quella aspra convivenza - che il platonismo ha in tante forme declinato - dell'ombra e del desiderio, del destino di fragilità e del sogno d'infinito, della polvere e del sublime: "Natura umana, or come, / Se frale in tutta e vile, / Se polve ed ombra sei, tant'altro senti?"
"Scende la luna; e si scolora il mondo": nella cesura del verso, nel silenzio che separa i due emistichi, s'incontrano i due notturni, il notturno della luce lunare che rivela un paesaggio di ombre, di finzioni, di forme insieme nitide e nascoste, e il notturno nel quale l'assenza della luna fa del paesaggio il teatro di un'immensa privazione. Nel cuore di un verso, nella pausa tra lo scenico declino della luna e la sua assenza, il tramonto dice il suo patto con l'allegoria: con la giovinezza si dileguano anche le ombre e le sembianze dei "dilettosi inganni". E il notturno che sopravviene al tramonto della luna non è più la campagna tornata oscura, ma il deserto di una vita cui è anche negata l'attesa dell'alba. Se la "fuggente luce" della luna era salutata, nel primo notturno, dal canto del carrettiere, la caduta della luna, il venir meno delle "lontane speranze" è accolto dal canto del poeta: canto dell'estraneità e del tramonto, mise-en-abîme che ha il suo specchio nel tramonto della poesia stessa. Nel sogno di Alceta (Lo spavento notturno) la caduta della luna, la teatrale fine del suo incantesimo e potere, era situata nell'esile varco tra la lettera dell'onirico e il senso dell'allegorico: qui il tramonto ha dato al presagio di un sogno la certezza di una condizione. Nel tramontare sta la solidarietà tra l'esistenza e la natura.
Tempo immobile, tempo stellare
Il tempo chiuso dell'irreversibile e il tempo fuggente delle parvenze o delle illusioni hanno un oltre che li attraversa e li sovrasta. Non è il cielo purissimo dell'uno plotiniano, e neppure il prima della creazione o la creazione come caduta. È un'anteriorità che via via, nei luoghi più diversi della scrittura leopardiana, diventa il confine da cui muove la critica della civiltà, ovvero della "spiritualizzazione", dell'eccesso di filosofia, dell'uniformità, della diseguaglianza. Un'anteriorità che è come la tessitura dell'altro nel tappeto di un pensiero intento a scrutare le forme di un esilio. Che è anzitutto esilio dalla felicità. Finzione di un tempo assente, mai trasformato in una protezione o in un'attesa. Non appartengono alla ricerca leopardiana né la platonica, e romantica, identificazione dell'origine con la meta, né le fantasmagorie di un pensiero apofatico che nel deserto dell'assenza veda comporsi il volto, e il nome, dell'Altro. L'anteriorità che sostiene la meditazione - teoretica e poetica insieme - di Leopardi è corporea, attiene al vivente, a un tempo che la storia ha lambito, e poi cancellato o allontanato, per poter essere capace di astrazione e di violenza. A questo tempo oltre il tempo si addicono parole come errore o "fantasma". O anche "favola": le "favole antiche", nella loro declinazione mitica, dicono di una physis vivente, di una sua lingua per l'uomo, di una (qui, davvero hölderliniana) armonia possibile e perduta. E nella variante biblica, raccontano di un tempo in cui "l'ameno error", pur nella caduta, rendeva "amica" la terra, poiché l'età dell'oro non era che mancanza di "affanno" e di sapere.
Dell'origine, della ricerca d'infinito che ogni scoperta del limite faceva insorgere, è traccia il "fantasma chiamato Amore", che nella prima operetta è come il sigillo di una provvisoria tregua nel conflitto tra la terra e il cielo. Con un corteggio di "invisibili" e "stupende larve" scende di quando in quando tra gli uomini, a mitigare la verità della condizione infelice.
Un varco, un'irruzione dell'infanzia, della sua "infinita speranza", delle sue "belle e care immaginazioni", che ferisce il tempo opaco del limite e della ripetizione.
L'anteriore, cioè l'antico, il fanciullo, il selvaggio, l'animale: figure di volta in volta evocate come fantastica sfida a un'idea esteriore e progettuale del tempo. La corrispondenza (vichiana) tra la "sapienza poetica" degli antichi e l'ignoranza fantasticante dei fanciulli ("quando in nessun luogo soli interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni...") suggerisce i modi di un'alterità che è anzitutto sguardo sul naturale". Poiché il fanciullo è "quasi l'unico soggetto dove si possono esplorare, notare e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali" (Zib., 644, 11 febbraio 1821). La meraviglia, e la sorpresa, queste forme di un tempo squarciato dall'evento, rinnovato dall'inatteso, questi modi privilegiati e profondi della conoscenza, sono propri del fanciullo e ci dicono qualcosa sull'origine della filosofia e della poesia: "e forse il fanciullo sa talvolta assai più del filosofo, e vede chiaramente delle verità e delle cagioni, che il filosofo non vede se non confusamente, o non vede punto..." (Zib., 2020, 31 ottobre 1821). Sulla relazione originaria tra il filosofo e la meraviglia si poteva leggere nel Teeteto: "Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante, non sbagliò, mi sembra, nella genealogia" (Teet., 55d).
Come il selvaggio ci dice di un'alterità cancellata, portata nel dominio dell'uniformità, l'animale racconta il paradosso di una libertà vigorosa, di un non sapere che lo trattiene al di qua della contraddizione "umana" tra l'essere per la felicità e il non poter essere felici.
Finzioni naturali, lingua di una physis che la storia ha reso indecifrabile e inaccessibile, tempo che il troppo vedere della ragione esclude dal suo orizzonte. Ma anche questa lingua, infine, conosce la sintassi del soffrire.
C'è un altro tempo nella teoresi leopardiana: tempo astrale e lunare, figurazione cosmografica dell'infinito, della sua immaginazione, trascrizione dell'erudita passione astronomica dell'adolescenza in fisica, e metafisica, celeste. Forme di una lontananza che consegna il mondo alle ombre di una immensa vanità. Questo oltretempo non ha in Leopardi fondamenti dottrinari, e la suggestione neopitagorica e neoplatonica, o la mediazione di Bruno, laddove ci fossero, sarebbero consumate nella autonomia di una finzione teoretica e poetica.
Il registro comico, menippeo e lucianeo, l'invenzione libresca ed erudita, il dispiegarsi fantastico della notizia scientifica, attivano, in alcune Operette, una distanza dal punto di vista dell'uomo: finzione di un'antropologia cancellata, o almeno allontanata nell'infinitesima dimensione di un passaggio irrilevante. Così, nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, spariti, per le innumerevoli strategie di distruzione, gli uomini, 'la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non son stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi". Nel Dialogo della terra e della luna le ciance di una terra vanerella e frivola sono travolte dalla considerazione della luna sulla presenza planetaria del male. E dove il registro cosmicomico cede a una medi tazione sul ritmo dell'universo, come accade nel Cantico del gallo silvestre, il pensiero della fine, nonostante l'artificio del manoscritto ritrovato e dell'apocrifo, si profonda nel tempo di una sparizione che dall'esistenza individuale si allarga alla terra, ai pianeti, all'universo. Ma in questa prospettiva stellare sulla caducità, in questa fisica entropica ed effimera, è scritta la rinascita di nuove terre e nuovi cieli: l'apocalisse, priva di fiamme e di allegoresi, è solo l'immaginazione di un tempo della materia che esalti, nella sua abissale lontananza, l'insignificanza, velata di miti, del tempo infelice dell uomo.
Nei Canti è la luna - di volta in volta compagna, confidente, enigma, sfinge - l'emblema di un oltretempo che vede il morir delle cose, l'affanno dei viventi, e risponde col suo silenzio a un interrogare che via via si spalanca sul deserto del senso.
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuoi dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Le domande di senso che il pastore rivolge alla luna, nel Canto notturno, s'aggirano oltre i confini del visibile, e da quell'oltre che è la parola dell'infinito, tornano, in un'improvvisa cessazione dell'adagio lirico, verso di sé, verso i propri inconoscibili confini. Ma la comparazione tra l'infinito e l'io non si smarrisce nella contemplazione di crittografie stellari, si ravvolge invece nella domanda che dice la distanza tra il sapere dell'angelo luminoso ch'è la luna - sapere del divenire come suprema apparenza, sapere del "tacito infinito andar del tempo" - e il sapere del male che appartiene al vivente. Solo una metamorfosi angelica - mimesi della luna, rottura dei confini del senso, leggerezza di un dissolvimento negli elementi naturali -potrebbe dissipare quel sapere, o al meno sospenderlo:
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il suono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
Da un tempo senza tempo viene l'immagine del canto Alla sua donna: dissimiglianza da quel ch'è terreno, teofania dell'impossibile, idea al di qua della forma, oppure figura che un'altra terra "ne' superni giri" accoglie tra "mondi immemorabili". La prossimità dell'assente genera un nuovo pathos per un nuovo sublime, ma nello stesso tempo spalanca l'abisso tra "gli anni infausti e brevi" e l'altro tempo di cui è figura.
L'ascesi del pensiero, in un calco dell'itinerario religioso, attingerà, circa dieci anni dopo, l'esperienza di un oblio del vero, dunque una sospensione del tempo dell'affanno:
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov'io,
Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Nel giardino della conversazione col Pensiero dominante (vv. 100-106) nella gioiosa astrazione di una solitudine per il pensiero, alle sequenze del distacco dal mondo seguirà l'approdo a un nuovo tempo e a un nuovo spazio: e l'elevazione non comporterà il naufragio, ma l'esperienza di un oblio.
E infine, il notturno stellare della Ginestra (vv. 161166):
[…] e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
Lo sguardo non si acquieta nella contemplazione, perché il pensiero muove dal paesaggio verso la spirale della vanità, secondo i modi di una comparazione che comporta la metamorfosi della terra in un punto. Nel trionfo dell'immensità, il nome della terra è soltanto un nome, e il granello di sabbia che essa designa può solo rinviare a un deserto vuoto di senso, a una vanificazione di tutti i sogni dell'uomo.
Dire l'infinito
Dall'idillio del 1819 ai pensieri del 1826 e 1827 la meditazione leopardiana sull'infinito si svolge secondo i modi negativi di una rappresentazione impossibile. Non si tratta di cercare nel pensiero leopardiano dell'infinito una teoresi da annettere all'una o all'altra delle classiche dispute sull'infinito, da Aristotele a Cusano a Bruno a Cartesio: Leopardi si dichiara estraneo alle metafisiche "logomachie" sul tempo e sullo spazio ( ... come il tempo è un modo o un lato del considerar la esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla": Zib., 4233, 14 dicembre 1826). Così come rifiuta il motivo teologico della infinità di Dio da cui discenderebbe l'infinità dell'universo e il motivo, anche romantico, della infinità del "sentimento" da cui si indurrebbe l'infinità della creazione.
Il primo tempo della riflessione è raccolto nei pensieri del luglio 1820: l'infinito ha a che fare col desiderio, dunque col movimento del piacere, l'illimitatezza definisce la natura stessa del desiderio, ed è per l'illimitatezza che il desiderio non ha mai risposte, e incontra sempre il finito, il circoscritto, il limite. L'infinità del desiderio è materiale, e in assenza di risposte, si nutre della speranza e dell'illusione. L"'infinità materiale" del desiderio è "conseguenza immediata e necessaria dell'amor proprio e della propria conservazione": sul confine tra il visibile e l'invisibile, per via dell'immaginazione che lo alimenta, il desiderio d'infinito fa esperienza di un oltrepassamento, di uno sfondamento del limite, di un'erranza oltre il confine: "...allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina quello che non vede...". Ma, nello stesso mese di luglio, il piacere per ciò ch'è circoscritto è spiegato con "l'idea d'infinito" che comporta: idea che enuncia già, per la sua indeterminatezza, la posizione alla quale sempre si atterrà Leopardi: l'impossibilità, cioè, di concepire infinito: "...l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità...". Dunque, una poetica dell'indefinito: la ricordanza è l'immagine antica che tornando provoca la "sensazione indefinita (Zib., 515, 16 gennaio 1821), il piacere nella rappresentazione dell'antico deriva dall"'idea di un tempo indeterminato" (Zib., 1429, 1 agosto 1821). Inoltre, sia la teoria della luce sia la meditazione sull'ascolto sono fondate, nello Zibaldone, in una poetica dell'indefinito.
Il tema della materialità dell'infinito ritorna nel settembre 1823 in rapporto alla questione della felicità e alla critica della "spiritualizzazione": a una domanda di "infinito terreno", a un desiderio di felicità materiale e corporea e terrestre, il Cristianesimo risponde con la "felicità celeste" (Zib., 3497-3509, 23 settembre 1823). Ma anche quello che Leopardi qui chiama "infinito terreno" ha sede solo nell'immaginazione, e non è un vero e proprio "sentimento". La dimostrazione, per negazione, sarà data di lì a pochi mesi, il 5 aprile 1824:
Se l'uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si fosse tal sensazione, purché non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice... (Zib., 4061).
Tra l'aprile e il giugno del 1826 la meditazione leopardiana sull'infinito ha passaggi decisivi, e si dispiega in una intersezione dei luoghi classici della questione, richiamati e fatti convergere attorno alla più forte delle affermazioni: la coincidenza tra infinito e nulla.
Il nulla è l"'infinità vera": l'affermazione conclude il primo movimento della pagina che comincia con "Tutto è male" (Zib., 4174): la critica del sistema di Leibniz non si affida a regole logico-dimostrative, e si distende nella più gelida delle amplificazioni, dove lo stile stesso è sopraffatto dal tremito dell'immagine: tracce della gnosi si congiungono alla illuministica critica della felicità. E la finitezza dell'universo, mentre si racconta nei particolari e nei sistemi, temporali e spaziali, espone non la sua complicità col male, ma la sua consustanzialità al male:
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi (Zib., 4175).
In questa pagina che introduce al giardino della sofferenza, l'infinità del nulla ha alcuni tratti dell'antico α
πείρου: pura negativitΰ, non-essere che avvolge l'universo, inconoscibile confine del mondo. L'infinitΰ del nulla θ qui il fondo su cui θ sbalzata la tragica sequenza del male. L' infinità vera del non essere è il bene, l'infinità falsa dell'universo è il male: è dissipata, ma nel paradosso di questo attributo supremo del non-essere, in questa ironica teofania del non-esistente, la metafisica che nell'opacità dell'ombra legge la traccia della perfezione lontana e originaria.Dopo un pensiero che riporta l'infinito dall'ordine delle sensazioni all'ordine dei sogni, delle idee contraddittorie in se stesse (Zib., 4177-78), torna il tema del nulla come "infinità vera" (Zib., 4178, 2 maggio 1826): il niente è l'illimite, l'individualità dell 'esistenza il limite:
Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell'essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l'infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla...
Ma questa infinità del nulla non può esistere se non nell'immaginazione, nel pensiero, nella lingua. Il passaggio alla recinzione linguistica dell'infinito ha la data del 4 giugno 1826 (Zib., 4181-82) e consegue alla considerazione che le categorie di tempo e di spazio sono prive di un fondamento che non sia linguistico:
[...] la infinità del tempo non proverebbe né la esistenza né la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla, infinità che non esiste né può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua.
Tornando, il sabato di Passione del 1827, sull'argomento di chi deduce dall'infinità dell'universo l'infinità del creatore, conclude le osservazioni polemiche col piglio del paradosso e dell'ironia: "Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?" (Zib., 4275, 7aprile 1827). Un'estrema ripresa dell'infinito è intenta a definirne il carattere illusorio (Zib., 4192, 30 agosto 1826). È l'immaginazione che toglie i confini del cosmo: il fanciullo, il selvaggio, il primitivo credono che il mare non abbia confini e che le stelle non si possano contare.
Da questa stessa disposizione alla finzione e all'eccesso della finzione era nata la prima, la più arrischiata, meditazione leopardiana sull'infinito, quella che ha preso circoscrizione di ritmi e di versi sotto l'intestazione di L'infinito.
È lo stormire che nell'Infinito apre l'arco della comparazione: l'infinito silenzio è l'oltre che con lo stormire confina, l'oltre che è il ritmo di questa voce. Lo stormire è la lingua della natura che, mostrando il suo limite e l'oltre che lo attraversa, si muta nella lingua della poesia, cioè nella parola che vuol tenere insieme il silenzio e il suono: questa voce e quell'infinito silenzio, la tristezza della natura priva di voce - le morte stagioni - e il risuonare della natura che è qui presente e viva, il tempo cancellato e il tempo vivente. La finzione, che prima aveva convocato nel pensiero gli interminati spazi e i sovrumani silenzi e la profondissima quiete è ora raccolta in questa voce, in questo suo essere qui per i sensi, così viva e determinata (e Rilke, nella sua traduzione, rendendo "la presente e viva e il suon di lei" con "und diese daseiende Zeit, die lebendige, tönende" ha esposto della presenza insieme la forza del suono e la trasvalutazione metafisica).
Quella finzione ora torna, sull'onda di questa voce, come insostenibile comparazione, come azzardo che nel confine del pensiero vede tremare quell'immensità che è abolizione del confine, spengimento della voce, fine del pensiero. Se l'ascolto dello stormire era diventato lingua della poesia, il naufragio, oltre che naufragio del pensiero, è naufragio della lingua, esperienza dell impossibilità di dire l'infinito. Che è poi l'esperienza stessa della poesia. Ma l'essersi aggirati sui confini di questa impossibilità dà al naufragio la dolcezza di un pensiero che intravede il suo oltre, di un corpo che prova tutto l'arco della sua sensitiva finzione, di una lingua che corteggia il silenzio che la circoscrive e la esalta e la svuota.
Nell'idillio del 1819 Leopardi aveva già esposto il senso della sua meditazione sull'infinito: dire l'infinito nella sua impossibilità di dirlo. Del resto, in questa parola che non può dire l'infinito, è la scommessa, fragile e insieme arrischiata, della poesia.