Un libro di Giuseppe Fornari

 

Fabio Brotto

 

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C’è molta passione in Filosofia di passione di Giuseppe Fornari (Transeuropa 2006). Una passione della ricerca e della verità che può contagiare il lettore, stimolandolo alla riflessione critica. Si tratta di una tappa importante nello sviluppo del pensiero di questo studioso, che qui definisce il suo rapporto con René Girard, pensatore cui resta profondamente debitore e da cui nello stesso tempo si distacca su alcuni punti assai rilevanti. Cercherò di svolgere una sintetica riflessione sugli elementi per me decisivi di questo ampio testo, riprendendo in qualche modo le fila di alcuni miei interventi su altri libri dello stesso autore.

 

Filosofia di passione reca come sottotitolo Vittima e storicità radicale. Titolo e sottotitolo mostrano chiaramente come ci si trovi di fronte ad un netto passaggio nella dialettica maestro-allievo tra Girard e Fornari. L’allievo tende a farsi autonomo, a non essere più solo un sostenitore e interprete della teoria mimetica, ma ad essere pienamente pensatore in proprio. Filosofia dice anzitutto questo, considerando che Girard non è un filosofo, e il suo rapporto alla filosofia è sempre stato problematico. Quella della storicità radicale è invece una categoria che, a mio giudizio, è essenzialmente teologica, e pone la questione, irrisolta anche in Fornari, del rapporto tra filosofia e teologia. La lettura di questo libro mi consente di riformulare le questioni che da anni mi vado ponendo sulle teorie di René Girard e di Eric Gans.

 

Le critiche che Fornari muove a Girard non sono di scarso spessore. Non mi sorprendono affatto, perché già nel 2002, in uno scambio di e-mail successivo alla pubblicazione di Fra Dioniso e Cristo, Fornari mi aveva fatto capire come su alcune questioni egli si stesse differenziando dal maestro.

Anzitutto, questa differenziazione si attua sui concetti di desiderio, mediazione e relazione all’oggetto.

Per Fornari, il pensiero di Girard è

 

estremamente efficace nel sottolineare fenomeni che una vera omertà collettiva e scientifica cerca di coprire, ma più che mai riduttivo nello sforzo semplificatorio che l’autore ha prodotto per identificare l’inesauribile fuoco della mimèsi rivalitaria. Pur di sintetizzare il principio esplosivo della rivalità, condensandolo nel suo concetto di mediazione interna, Girard si è reso cieco a tutti quegli aspetti del mimetismo umano in cui il mediatore è fisicamente o simbolicamente vicinissimo e il desiderio da lui suscitato raggiunge la massima intensità senza nessuna implicazione rivalitaria, almeno in linea di principio. Il caso più clamoroso è costituito dall’innamoramento, esperienza di estrema vicinanza emotiva e affettiva dove le componenti mimetiche si esaltano al grado più alto, e gli aspetti ostili e rivalitari possono benissimo intrudersi, ma esattamente come la patologia si intrude nella fisiologia.

(pp. 47 - 48 )

 

Anticipo qui una mia critica di fondo. Dunque, per Fornari esiste una mediazione positiva, una fisiologia dell’umano, per così dire, come si dà in modo particolarmente evidente nell’amore. Ora, a me pare che qui si evidenzi uno dei nodi problematici del pensiero fornariano, perché esso pone pur sempre all’origine assoluta della cultura la Vittima (con la V maiuscola) come principio da cui tutto scaturisce (comprese le coordinate spazio temporali), e per poter asserire insieme la mimesi come positiva non può che valorizzare positivamente il principio stesso da cui la mimesi scaturisce. Cioè il sacrificio. Dalla vittimizzazione (io ho coniato a suo tempo per la teoria di Fornari l’espressione onnivittimismo) devono scaturire di conseguenza anche i principi della morale, la distinzione tra il bene e il male. E, infine, il bene stesso deve scaturire dal processo vittimario: se è così, la fuoriuscita dal sacro violento oltre a non essere forse auspicabile non è pensabile, se non con un salto nella fede: e infatti questa, nonostante tutte le affermazioni di filosofia, è infine richiesta.

 

È caratteristica di Girard (…) anche una sostanziale svalutazione dell’oggetto, che è alternativamente o l’entità fantasmatica del desiderio in delirio, o l’entità neutra del puro bisogno, restando al di qua o al di là del desiderio “corretto” e non rivalitario, così che diventa impossibile capire il suo ruolo. (p. 48).

 

Certamente in Girard l’oggetto in quanto realtà solida e indipendente dal desiderio svanisce, e le sue qualità reali sfumano nell’indistinto del furore rivalitario, così che riesce molto difficile pensare, all’interno delle sue categorie, la desiderabilità ad es. di una bella donna se non come proiezione fantasmatica di soggetti desideranti in relazione conflittuale reciproca. Penso, tuttavia, che il desiderio non possa essere tematizzato criticamente se non in rapporto alla rappresentazione, senza la quale esso non sarebbe umano, e regredirebbe entro la sfera della mera appetizione. La bella donna non è desiderabile immediatamente, ma la mediazione non è necessariamente costituita da un rivale incombente (o da più rivali), piuttosto da un intreccio di rappresentazioni in cui sono presenti anche i diversi piani temporali, che nella mente desiderante compongono insieme l’intenzionalità e la possibilità (di acquisto, ma anche di perdita, di sventura, ecc.). Ma, come vedremo, forse anche per distinguersi da Eric Gans, cui destina poche righe, al solito abbastanza liquidatorie, Fornari non dedica molto spazio al tema del linguaggio e della rappresentazione, preferendo parlare di simboli. Va aggiunto, poi, che non solo l’oggetto in Girard è fantasmatico, ma lo è anche il soggetto. L’individuo esistente per se è secondo Girard, infatti, illusorio, un prodotto del Romanticismo. Tuttavia, la sua idea del dividuo rivalitario appare almeno altrettanto inconsistente. Manca a Girard una filosofia della persona o una qualche fondazione dell’essere del soggetto, per cui alla fine io mi sono sempre chiesto che cosa sia quello che, secondo lui, viene infine salvato da Cristo (visto che anche in Girard, sebbene in forma meno pronunciata che in Fornari, appare come necessario un salto nella fede), dato che l’umano è così insostanziale.

 

tutto ciò che concerne l’oggetto nell’uomo ha sin dall’inizio una connotazione cognitiva, emotiva e simbolica, e non è pertanto riducibile a una mera “cosalità” di impulsi di origine biologica. Appetiti e bisogni esistono eccome, ma non sono mere registrazioni di impulsi materiali e corporei da distinguere artificiosamente da un’imitazione che giungerebbe in un secondo momento, bensì come grado zero di un’organizzazione assai più complessa e capillarmente mimetica, che da subito interagisce con la sfera dei bisogni, interpretandoli e orientandoli secondo le sue dinamiche desiderative e imitative. (p 50)

 

La scoperta dei neuroni-specchio, confermando la disposizione fondamentale all’imitazione propria dell’umano (e delle scimmie), offre ai sostenitori della teoria mimetica (tra cui mi annovero, anche se lato o latissimo sensu) la grande occasione di interloquire con la parte più avanzata della scienza mostrandole, nel contempo, come essa possa essere solo un parziale, anche se importantissimo, contributo alla comprensione di quello stesso umano di cui essa è un prodotto. L’aspetto trascendentalmente auto-riflessivo deve essere sempre tenuto presente, qui come altrove. Ogni affermazione sull’umano e la sua origine, come ogni teoria dell’universo o equazione matematica ecc., si dà all’interno della trascendentalità del pensiero umano, e da quella sfera non può uscire. Così l’elemento che ci appare immediatamente esperienziale rimane irrelato e incomunicabile se non è assunto entro la dimensione della rappresentazione e del linguaggio. “Esistono esperienze non esprimibili”. Certo, ma questa affermazione è una espressione linguistica, e il suo contenuto è rappresentato nella dimensione intersoggettiva del linguaggio.

 

La cultura è a tal punto un'apertura e una realizzazione di potenzialità prima solo latenti a livello naturale che è essa stessa in un certo senso a "spiegare", e dispiegare, la natura, poiché vi introduce la possibilità inaudita e inedita d'una spiegazione, di qualcuno che abbia in sé la capacità culturale di compierla. Tali considerazioni possono essere adesso solo accennate, ma cercherò di riprenderle lungo tutta questa indagine, in attesa di svilupparle ulteriormente. Risulta abbastanza evidente che esse modificano nella sostanza, e anzi rovesciano, l'impostazione oggi prevalente nel considerare l'origine della cultura. (p. 63)

 

Come tutti coloro che derivano le loro idee da Girard, anche Fornari comprende con chiarezza che il grande problema di oggi è quello di una visione adeguata del rapporto tra natura e cultura. E anche per Fornari il grande tema diventa quello dell'Origine: l'origine della cultura, il distacco dell'umano dal mondo animale. Si tratta esattamente di quel distacco che i "modelli scientistici attualmente predominanti" interpretano come un passaggio evolutivo così lento e graduale da risultare totalmente nebuloso. Viene in mente la figura filosofica del sorite, o del calvo: tutti sanno che un capelluto e un calvo sono differenti, e che il calvo è stato chiomato. Cadendo un capello alla volta, ci deve essere stato un momento in cui è avvenuto il passaggio tra la condizione di chiomato e quello di calvo, e un solo capello dunque deve aver fatto la differenza. Ovviamente, la questione non può essere posta in termini analoghi per l'origine dell'umano: fino al momento x c'era animale, dal momento y abbiamo un umano. Il gradualismo assoluto è paradossale. Dunque è opportuno ipotizzare una nascita dell'umanità in termini catastrofici.

 

Qualsiasi spiegazione della cultura che non contempli, non constati le sue caratteristiche in sé irriducibili non spiega un bel nulla, fornisce al più uno scheletro di esplicazione ancora privo di vita. Perché qualcosa di più verosimile e vivo si introduca nel blocco monolitico dei modelli scientistici attualmente predominanti, bisogna elaborare un modello causale diverso, non solo relazionale e reciproco, vale a dire sistemico, ma anche, in qualche maniera, teleologico, nel senso che i termini del problema si presentano come se intervenisse una finalità, in primo luogo per il motivo che la cultura un mondo di finalità lo introduce (e a questo punto appare difficilmente evitabile chiedersi: lo introduce dal nulla?). (...) il concetto di intenzionalità, debitamente ridefinito e rivisitato, apre nuove prospettive al riguardo, interagendo con sensibilità straordinaria coi concetti di organizzazione sistemica e di doppio vincolo, e con quelli di evoluzione, ominizzazione e cultura. L'impressione, che reputo non infondata, è che per questa via si inauguri un ponte capace di unire una ricerca scientifica ed epistemologica a riflessioni più filosofiche e religiose, che non vengono meno all'autonomia della scienza in quanto la presuppongono e si alimentano dei suoi risultati: mi riferisco, naturalmente, a una scienza abbastanza diversa da quella oggi più in voga, a una scienza filosoficamente avvertita e consapevole della sua storicità, del suo appartenervi e del suo non poterne prescindere.

(pp. 63 – 64)

 

Finalità e intenzionalità sono caratteristiche della mente umana che possono essere comprese pienamente soltanto se riferite alla capacità di rappresentazione che è caratteristica degli umani. La teoria della mente, che manca anche agli animali a noi geneticamente più vicini (e agli umani autistici, come io ben so), implica che io sappia vedere nell'altro umano (o addirittura – errando – nel non-umano) una mente intenzionante come la mia. La riflessione di Fornari su questo punto mi sembra ancora carente, anche se coglie la necessità di approfondire il concetto di intenzionalità. Qui veramente la scienza (psicologia e neurobiologia, come nel caso dell'autismo) e la filosofia e l'antropologia possono camminare affiancate. Ovviamente, voler affermare che l'intenzionalità non può essere un mero aspetto dell'umano perché non può essere stata introdotta dal nulla mi pare un salto argomentativo . La stessa cosa si può affermare di altri elementi, come il linguaggio. È chiaro che il dal nulla non è una espressione di cui ci si possa sbarazzare con facilità: c'è dietro un mondo di pensiero, e millenni di filosofia. Tuttavia, mi pare che se noi rifiutiamo a priori il dal nulla, non possiamo dar ragione del salto reale che si verifica nel nostro passato ricostruibile, e ci dobbiamo adagiare su di un gradualismo evolutivo che fa impantanare il pensiero, rendendogli inaccessibile il novum.

 

Ricordo un incontro cui partecipai molti anni fa a Venezia. Tra gli oratori c'erano Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, che sedevano l'uno accanto all'altro. Ero abbastanza vicino a loro, tanto da poter udire il primo chiedere sottovoce al secondo che cosa pensasse di René Girard. Cacciari rispose: "Questi francesi dopo aver letto un pugno di libri credono di aver capito il mondo". Questa sentenza mi è venuta in mente leggendo i rilievi critici mossi da Fornari a Girard. In effetti, Fornari riconosce che è proprio la delimitazione, la ristrettezza dell'approccio girardiano ciò che gli dà forza. Il procedere di Girard è lineare, polemico e sbrigativo, non dialettico. Individua dei nemici e taglia loro la testa, ma è proprio la sua rozzezza che gli consente di afferrare il nucleo della verità. Questo pensa in sostanza Fornari del suo maestro, salendo sulle cui spalle ritiene di poter costruire una teoria più completa, ma non rivale (rivale è, secondo Fornari, quella di Eric Gans). Fornari mette in rilievo alcuni punti deboli della teoria girardiana, ma a mio giudizio rimane fedele ad alcuni suoi cardini, che mi paiono molto problematici. Anzitutto mi pare problematica l'affermazione fondamentale, quella dell'origine della cultura umana, ovvero dell'essere umano, dal processo vittimario. Infatti, come per Girard anche per Fornari l'umano ha origine da un millenario susseguirsi di crisi mimetiche di gruppi preumani, tutte sfocianti nell'espulsione/uccisione di una vittima, con conseguente senso di sollievo e beneficio avvertito dai membri del gruppo, spinti quindi a reiterare l'uccisione di propri membri in occasioni analoghe di stress collettivo. Nasce così, nel corso dei millenni, il rito sacrificale come ripetizione di gesti di uccisione collettiva.

 

La situazione venutasi a creare dopo l'uccisione della vittima non può essere descritta che come un'esperienza vertiginosa. La prima "differenza" che rompe il mondo relazionale e concreto degli animali, la prima scintilla di quella che poi sarebbe diventata coscienza si crea adesso, attorno alla vittima uccisa. Alla violenza che stava travolgendo tutti segue una pace improvvisa, in una sorta di duplice trauma collettivo che è imperniato intorno alla vittima, e che Girard descrive col termine «transfert», preso dalla letteratura antropologica da lui consultata, e reso famoso per lo sviluppo che ne ha dato la psicanalisi di Freud. Otteniamo così i due versanti fondamentali della scena d'origine secondo Girard: il transfert di aggressività, in cui tutti si lanciano contro la vittima, e il transfert di riconciliazione, in cui tutti si riappacificano intorno alla vittima espulsa, vedendola come divina perché non capiscono quanto è successo realmente e le attribuiscono un potere superiore. (p. 67)

 

Come la prima "differenza" dagli animali possa sorgere senza l'emergere contemporaneo del segno e della rappresentazione è per me del tutto misterioso. Ma soprattutto l'idea che i pre-umani possano vedere la vittima come divina "perché non capiscono quanto è successo realmente e le attribuiscono un potere superiore" pare non molto diversa, in linea di principio, da quella di coloro che parlavano di umanoidi spaventati dai fenomeni naturali, che avrebbero attribuito erroneamente ad entità superiori. Da dove verrebbe ad un essere ancora animale il senso del superiore e divino? Si può attribuire a qualcosa un'essenza o una qualità di cui non si ha, se pure oscuramente, un barlume di intuizione? In realtà, l'Origine è del tutto inattingibile, e si possono fare solo delle ipotesi, il cui valore ermeneutico riguarda solo l'umano quale già è, o forse solo l'umano quale appare agli umani di oggi: una proiezione all'indietro. Ciò non toglie che il valore ermeneutico dell'operazione possa essere alto (e secondo me lo è), ma quello di fornire una spiegazione totale dell'umano mi sembra una pretesa temeraria.

 

Personalmente, non amo particolarmente il termine transfert, con tutto ciò che di psicoanalitico esso si trascina appresso. D'altra parte, è noto che Girard deve molto, per la sua idea di origine, al Freud controverso di Totem e Tabù.

 

La parola «transfert» si giustifica nel suo senso letterale di trasferimento o traslazione, che ha valore purché non vi si faccia ricorso nell'accezione riduzionista che si è seguita finora, e di cui Girard resta pienamente partecipe. Quello che avviene è un autentico "trasferimento" della violenza sulla vittima, che realizza in forma collettiva e massiccia una tendenza elementarmente sostitutiva, riuscendo a trasformare ciò che è trasferito in una forza opposta, che investe il gruppo salvandolo, cioè effettua su di esso un secondo "trasferimento", dall'esterno verso l'interno, dal superiore verso l'inferiore. Tutte le future differenze della cultura - quella fra uomo e dio, fra vita e morte, fra dentro e fuori - nasceranno da questo passaggio incomprensibile e convergente fra due stati di per sé contrapposti che trovano nell'evento centrale dell'uccisione la loro risoluzione, la loro successione ordinata. (p. 68)

 

Dunque, abbiamo l'affermazione della centralità dell'esperienza (di gruppo) dell'uccisione di uno dei membri del gruppo stesso. Ad essa viene attribuito un potere fondativo, in quanto essa sta al centro di un movimento, di un passaggio tra due condizioni (stress e rilassamento) da cui scaturirebbero tutte le differenze. Ma perché, allora, tutte le differenze non potrebbero scaturire da fenomeni cui noi potremmo attribuire una potenzialità estatica non minore, come lo scatenamento nella furia della lotta del gruppo pre-umano contro un grosso animale, con la conseguente felicità della vittoria e del banchetto? Invece, Girard e Fornari pensano che le uccisioni operate dai pre-umani abbiano riguardato per un numero infinito di anni membri dello stesso gruppo umano. Avremmo degli ominidi dediti al massacro periodico di loro compagni, e non all'uccisione di animali di altra specie, cui sarebbero arrivati solo in un secondo tempo. Questo contrasta con l'evidenza del comportamento degli animali a noi più vicini, ovvero le scimmie superiori, e in particolare gli scimpanzé. Io penso che piccoli gruppi pervasi da mimetismo così violento da imporre periodicamente l'eliminazione violenta di un membro del gruppo non sarebbero sopravvissuti nei millenni, e nemmeno nei secoli. Dunque, una domanda anzitutto dovrebbe riguardare l'entità numerica dei gruppi preumani. In gruppi di poche decine l'uccisione violenta di un membro sarebbe dovuta avvenire abbastanza di rado da non mettere a repentaglio la sopravvivenza del gruppo stesso, ma se fosse avvenuta di rado ciò significherebbe che vi erano altri meccanismi per controllare il mimetismo violento. E come potevano esistere al di fuori della sfera della memorabilità collettiva mediata dal segno? Un controllo umano della crisi in assenza del segno è impensabile, e infatti i passi di Fornari in cui si parla dell'origine umana eludendo il tema del linguaggio mi sembrano nebulosi e poco convincenti:

 

Si è raggiunta una nuova stabilizzazione allorché le comunità preumane sono riuscite a ripetere sotto controllo le crisi da loro vissute e la loro risoluzione vittimaria, ossia allorquando hanno imparato a imitare se stesse perché avevano "capito" che solo così facendo potevano assicurare la propria sopravvivenza. Espressioni come "capire" vanno naturalmente usate tra virgolette, perché non si può parlare in fasi così arcaiche di una comprensione come noi la intendiamo, quanto piuttosto di un nuovo spazio di percezione che, a partire da esperienze di polarizzazione collettiva d'intensità esponenziale, aprono un nuovo campo di associazioni, introducono a nuove variabili che rendono possibili, incidendosi a viva forza nella memoria e nelle emozioni, dei collegamenti prima inesistenti, delle abitudini di sopravvivenza che sarebbero diventate connessioni causali, delle traslazioni reiterate che sarebbero divenute inferenze. Si organizza in tal modo uno spazio simbolico del trasferimento definibile come cultura, e coincidente con le forme più primordiali di religione, a sua volta definibile, nei termini da me teorizzati, come la stabilizzazione del trasferimento primordiale quale rapporto tra superiore e inferiore. Su questa religione, vale a dire cultura, dei primordi, nulla sappiamo in dettaglio, e si possono fare al più delle ipotesi di carattere strutturale e fenomenico (...) (p. 69)

 

Prendiamo ora in considerazione un altro passo, dal quale emergono e si chiarificano i due punti chiave della prospettiva di Fornari: anzitutto la fondazione dell'esperienza religiosa nel sacrificio, che quindi non può che essere visto come un originante positivo (con le conseguenze che abbiamo già indicato), in cui si coglie, seppur oscuramente, la vera trascendenza, e quindi la liberazione del religioso da quella compromissione essenziale col violento che è un tratto tipicamente girardiano (fin da La violenza e il sacro); in secondo luogo la collocazione di una esperienza religiosa là dove non può sussistere in assenza del segno umano.

 

La terminologia specifica usata da Girard per i due transfert è spia di un'impostazione teorica che amplifica gli inconvenienti già osservati a proposito del desiderio.

Del concetto di "trasferimento" e della sua legittimità ho già parlato, ed è già significativo che Girard ignori completamente l'opportunità di giustificarlo e spiegarlo; ma sono le specificazioni dei due transfert a denunciare più apertamente le conseguenze di questa mancata tematizzazione.

Il termine «transfert di aggressività» è intanto tutt'altro che indovinato, poiché identifica subito aggressività e violenza, che restano due fenomeni collegati ma nettamente distinti, tant'è vero che in molti casi è proprio l'aggressività a scongiurare la violenza: l'impressione è che Girard tenda inconsciamente a demonizzare tutto ciò che ha a che fare anche alla lontana con la violenza, in modo coerente con la sua demonizzazione dell'imitazione ravvicinata. Nettamente preferibile è invece parlare di transfert violento o persecutorio, ovvero anche di demonizzazione, se si vuole evidenziare l'aspetto della colpevolezza e mostruosità che sono fatte ricadere sulla vittima scelta.

Il termine «transfert di riconciliazione» ha, dal canto suo, un duplice inconveniente: non descrive le risultanze fenomeniche di ciò che doveva avvenire in queste situazioni, ovvero la percezione di una realtà superiore e assoluta che l'intera comunità adorava e alla quale sentiva di dover obbedire; e, di conseguenza, sottolinea solamente l'aspetto orizzontale della pace ritornata nel gruppo, con una deformazione di tipo immanentista che priva il problema di un suo termine fondamentale, vale a dire l'affacciarsi nel mondo naturale e animale di qualcosa che può ricevere soltanto il nome di «esperienza del trascendente» o simili. Con questa semplificazione fenomenica fondamentale il secondo "trasferimento" è ignorato nel suo dipanarsi reale di un significato supremo che si trasferisce sul gruppo, portandolo nella luce dell'esistente. Assolutamente da preferirsi sono pertanto espressioni più fenomenicamente adeguate come transfert di divinizzazione (divinizzante) o sacralizzazione (sacralizzante), o anche transfert estatico (mistico). (p. 71)

 

Mentre in Girard l'uccisione della vittima nel parossismo della crisi genera un transfert di riconciliazione, ovvero il gruppo preumano si sente sollevato e tutti i suoi membri tornano ad interagire pacificamente, e ciò rimane sul piano puramente mondano, Fornari forza, per così dire, in senso religioso, e parla di una "percezione di una realtà superiore e assoluta che l'intera comunità adorava e alla quale sentiva di dover obbedire". Dove è evidente la problematicità di un'adorazione in assenza del segno. La forzatura qui è più forte di quella che io vedo in Gans, che attribuisce l'emissione del primo segno (il gesto di appropriazione interrotto) ad un gruppo preumano che avverte la minaccia di una violenza totale e assoluta che proviene dal gruppo stesso. Percezione la cui fondatezza mi sembra anch'essa molto problematica. Da dove deriverebbe questa capacità di percezione? La violenza che potrebbe cancellare il gruppo infatti è già non più animale. Quindi il passaggio dall'animale all'umano è già avvenuto prima della scena originaria gansiana. Questo mi conferma nell'idea che l'Origine è del tutto inattingibile. E anche la relazione tra aggressività e violenza conferma la mia posizione. Lo feci anche notare a Gans, anni fa, sostenendo che se è il terrore della violenza a determinare l'emissione del segno, occorre ben definire che cosa si intenda per violenza, visto che non usiamo questo termine per parlare del leone maschio che uccide una preda né dello stesso leone maschio che uccide un altro della sua specie o addirittura i cuccioli di un altro leone. È sempre la questione della retroproiezione all'origine di ciò che è ora significato nel discorso umano. Se la scena originaria è il little bang da cui tutto l'umano origina, al materiale preumano non si può applicare alcuna categoria umana.

 

Girard sembra professare un pessimismo antropologico radicale. L’umano è per natura violento e sacrificale, e solo il totalmente altro della rivelazione biblico-evangelica può aprire una dimensione differente e pacifica. Il pienamente cattolico (nelle intenzioni almeno) Fornari vuole invece trovare nella religione in sé, e cioè nel sacrificio, uno stadio intermedio, un gradino evolutivo che innalza l’umanità verso quella pienezza che solo Cristo può conferire (mediante il suo sacrificio, che è il definitivo).

 

Lo scoglio teorico che Girard non è in grado di superare sta per l’appunto nelle sue premesse. La rivelazione della quale egli parla somiglia troppo all’insufflazione della vita su un corpo morto per risultare pienamente credibile, e se la somiglianza col secondo racconto della creazione dell’uomo nella Genesi ci garantisce che in essa rimane un elemento di verità, la natura simbolica dell’immagine ci rammenta la sua parziale derivazione dal mito da cui così orgogliosamente Girard pretende di distaccarsi. La storia è ben altrimenti complessa, e ci mostra un cammino graduale in cui la rivelazione da ultimo irrompe, sfruttando capacità in sé insufficienti ma necessarie per intendere un Dio non dipendente dalla violenza dell’uomo. Affinché la vera trascendenza si rendesse accessibile occorreva che l’umanità disponesse prima di uno stadio intermedio fra la trascendenza autentica e l’animalità, e questo stadio intermedio è rappresentato dal sacrificio. (p. 111)

 

Dunque per Fornari, cominciando l’umano col sacrificio, ovvero con la trascendenza inautentica (ma non del tutto), l’umano inizia pienamente, dal punto di vista teologico, con l’affermarsi del male. Possiamo dire che per lui, esattamente come per Girard, la Caduta e l’Origine siano la stessa cosa, e che la vera nascita dell’umano non si abbia con Adamo ma con Caino. Quanto questo possa essere perfettamente ortodosso lo vedranno altri, ma è chiaro che non si può fondare la capacità umana di intenzione su un mero meccanismo. In realtà, nella visione fornariana non può trovare fondamento la libertà umana.

 

La mia ferma convinzione è che una critica debba essere energica in proporzione all’entità della posta in palio, e quanto si è detto finora mi pare sufficiente a mostrare come la posta sia ingente. L’improbabilità o impossibilità di una scuola guardiana induce a considerazioni ulteriori sullo statuto sfuggente della stessa teoria, costretta dal suo scopritore a rimanere sostanzialmente sospesa tra scienza e rivelazione. La rivelazione in Girard tende ad essere sempre troppa o troppo poca, col risultato che non pochi suoi seguaci, in assenza di un criterio discriminante e di una vera bussola in base alla quale orientarsi, finiscono per riprodurne e amplificarne le oscillazioni, passando dalle generalizzazioni scientistiche agli entusiasmi religiosi, che in più casi si fondono in un’unica, e scarsamente digeribile, “rivelazione mimetica”. È una tentazione e una trappola che il fondatore a parole rifiuta, ma a cui si espone costantemente. (p. 113)

 

A me pare che anche in Fornari, nonostante l’apprezzabile sforzo profuso, scienza e rivelazione siano in un rapporto ambiguo, che da un lato impedisce l’adesione alla teoria mimetica da parte dei laici, dall’altro ostacola la connessione ad un discorso teologico consapevole dei propri fondamenti dogmatici.

Poiché Fornari è filosofo, e l'operazione condotta in Filosofia di passione è apertamente filosofica, come il titolo proclama, gli dobbiamo chiedere una coerenza totale ed un rigore appunto filosofico nell'uso dei termini e dei concetti. Allora, quando si parla di una conoscenza assoluta, cioè soluta ab, ovvero sciolta da, dobbiamo chiedere da cosa, da quali limiti questa conoscenza sia sciolta. Uguale rigore è da invocare quando si parla di conoscenza reale. Ora, per Fornari la conoscenza della vittima è una conoscenza non ipotetica né discutibile, una conoscenza dunque non relativa, ma reale ed assoluta. Tuttavia, questa conoscenza mi sembra non trascendere, anche nel discorso fornariano, i limiti del soggetto conoscente. L'assolutezza che io sento di attingere, ad esempio nella fede, è un'esperienza soggettiva, esattamente come quella del mistico, il cui superamento del soggetto e dell'io riguarda pur sempre lui, e non me. In effetti, dobbiamo anche aggiungere, l'esperienza storica mostra che l'attribuzione dello status di vittima è sempre problematico, ed oggetto di negoziazione e di conflitto. I Palestinesi come popolo sono vittime? Saddam Hussein è stato vittima? Eichmann è stato vittima? L'attribuzione della condizione vittimaria mi sembra un atto condizionato dall'esperienza storica e dalla sua lettura, che dipende a sua volta da una serie di precondizioni: si tratta dunque di una operazione sempre relativa a, e mai assoluta.

 

Al di là degli aspetti più propriamente scientifici delle idee di Girard, che come abbiamo visto presentano molti lati imperfetti e discutibili, e per mezzo di queste medesime imperfezioni, si affaccia una verità che non è in alcuna maniera opinabile, e cioè che esistono vittime. Mentre il relativismo culturale non può e non vuole spezzare il circolo chiuso del linguaggio e dell'interpretazione, la consapevolezza che esiste una vittima trascende di colpo la circolarità delle ipotesi e delle interpretazioni equivalenti fra loro. Se io mi accorgo che all'interno di un gruppo la violenza di tutti si scarica su un capro espiatorio, in forma fisica o ipocritamente trasformata, io sono investito da una conoscenza che non è discutibile, non è in alcun modo ipotetica. Non si tratta più di una conoscenza teorica, ma di una conoscenza reale e assoluta, che viene a coincidere con la mia esistenza come essere morale, cioè dotato di libertà. Grazie alla demistificazione evangelica possiamo passare dalla rappresentazione ingannevole dei persecutori, riflessa nei miti e nei testi di persecuzione, a una rappresentazione completamente degna di fede, una rappresentazione che coincide con la rivelazione, convergenza che ha nella resurrezione la sua pietra angolare. Lo skandalon della vittima diventa skandalon conoscitivo. (p.119)

 

Che la verità della vittima appartenga alla sfera della fede, e non a quella della filosofia, confermando quanto detto circa gli incerti confini tra ambito teologico e ambito filosofico nel discorso fornariano, è evidente in queste righe:

 

La verità della vittima è un assoluto che non rimane irrelato col resto dell'esperienza dal momento che la fonda e la rende possibile, ivi inclusi i medesimi strumenti conoscitivi che noi adoperiamo nel prenderne atto. (p. 126)

La vittima come fondamento è (...) perfettamente reale e rappresentabile. La vittima è vera non in quanto principio metafisico, ma in quanto persona reale che io vedo e che devo difendere. In questa concretezza che è universale proprio perché totalmente incarnata si può verificare la superiorità della legge dell'amore cristiano rispetto alle assolutizzazioni della filosofia e della metafisica. Proprio perché viva e concreta questa legge non ammette eccezioni di sorta. (p. 141)

 

Se la vittima non è un principio metafisico (ma se non lo è come può essere il fondamento dell'esperienza umana?), ma una persona reale, che io vedo come vittima e che quindi, essendo vittima, cioè perseguitata ingiustamente, io devo difendere, da dove mi viene quell'obbligo etico, se non da un messaggio religioso mediato storicamente, e quindi condizionato dalla storia stessa? Poiché se fossi un azteco non muoverei un dito in favore dei prigionieri scannati sui gradini dei templi.

Fornari è polemico contro i girardiani antisacrificali, chiamiamoli così, ovvero contro coloro che vedono nella morte di Gesù un'uccisione ma non un sacrificio in senso proprio. Per Fornari, anche il dono ha, come tutto, origine sacrificale. La tendenza di molti seguaci di Girard secondo lui è "(...) estremamente pericolosa, perché (...)  accentuando i difetti presenti nelle idee di Girard, le deforma portandole a dire ciò che non dicono, e allontanandole da quel realismo che rimane il sigillo di garanzia di questo pensatore."

Per contrastare questa tendenza che giudica erronea e fuorviante, e per recuperare pienamente la sacrificalità della Passione, Fornari ritorna necessariamente all'Origine, dove pone un'esperienza estatico-sacrificale che, per quanto impersonale e collettiva, implica sempre la percezione di un altro-divino, la cui divinità rimane a nostro giudizio del tutto infondata e infondabile. Lo si vede perfettamente in questo passo, che dalla natura dell'offerta di sé del Cristo, cioè dell'Eucarestia, deduce l'elemento del cannibalismo, che nell'espulsione-uccisione girardiana non è un principio generalizzato.

 

Mi sono già occupato più volte di questa retorica alquanto sentimentale, che prescinde gravemente da un'autentica considerazione storica dell'origine dei doni umani dal sacrificio: il dono non è infatti altro che l'imitazione da parte dell'uomo di quella traslazione di senso e di vita che i fedeli sentono di ricevere dal loro dio, è l'interpretazione ulteriore del transfert sacrificale una volta che esso consente culturalmente l'elaborazione di un'idea di proprietà, di un bene che si è ricevuto o si spera di ricevere, e di cui privarsi per farne dono alla divinità e ringraziarla. Il sacrificio più arcaico non ha quindi alcun rapporto diretto col dono, dato che si basa su uno stato di estasi collettiva nel quale originariamente non c'era alcunché di personale, né da parte dei fedeli né da parte della forza divina da cui il gruppo si avvertiva dominato, e nel quale pertanto, non essendovi attori personali nel senso nostro, non vi potevano essere né autori né beneficiari di ipotetici doni. Prima del possesso che si riceve o si dà esiste la possessione di gruppo, che non è un processo di scambio, o una sorta di contratto sociale, ma un'esperienza radicale che fonda l'essere stesso di tutti a partire dall'essere fisico della vittima, dal suo corpo e dal suo sangue di cui tutti si cibano. Se dunque si vuole interpretare la morte di Cristo come dono "antisacrificale", cioè contrario al sacrificio ed esente dal sacrificio, si viene ad escludere che tale morte abbia efficacia redentrice nei confronti dell'autentico sacrificio arcaico, che non sa nulla di doni e di scambi perché istituisce lo spazio simbolico stesso su cui, molto più avanti, gli uomini ragioneranno in termini simili. (p. 123 -124)

 

Anche su questo punto la primatologia può esserci d'aiuto. Infatti l'offerta di cibo ad un membro del gruppo è stata osservata tra gli scimpanzé: i maschi vanno a caccia di altre scimmie, e poi offrono pezzi di carne alle compagne, avendone in cambio prestazioni sessuali. Dico questo non per banalizzare il discorso o per ricondurlo nei binari di una scienza sperimentale basata su osservazioni controllabili, ma perché ritengo che un discorso sulle origini dell'umano vada svolto senza trascurare la massa dei dati offerti da primatologia e paleoantropologia, cercando di non trascurare le poche evidenze, ma anche la massa delle non-evidenze.

 

Nel centro della sua opera, Fornari si misura con autori con i quali Girard ha incrociato le armi senza oltrepassare una schermaglia superficiale, e con pensatori italiani come Severino, Calasso e Colli che hanno un rapporto vitale con Nietzsche e Heidegger. Fornari, poi, valorizza in modo particolare il pensiero di Luigi Pareyson.

 

Mi sembra imporsi da sé la considerazione che l'idea pareysoniana di libertà sia collegabile, senza esservi affatto riducibile, alla nozione di desiderio, e corrisponda, nella sua ultima istanza e in termini filosoficamente più argomentati e certo anche più astratti, all'idea girardiana di vittima intesa come verità assoluta, una verità quest'ultima non oggettivabile in termini astratti e speculativi perché esperibile solo in concreto, una realtà fondante che mi pone davanti alla necessità di una scelta, e che attesta se stessa qualunque decisione io prenda, di salvarla o di ucciderla. In Girard abbiamo una determinatezza esistenziale ed esperienziale assoluta, che resta però prigioniera dei suoi schemi riduzionistici e anticoncettuali; in Pareyson abbiamo una concettualizzazione sofisticata, che affronta con grande energia la questione dei limiti esistenziali della filosofia, dal riconoscimento dei quali la filosofia trae nuova forza, non la delegittimazione che teme. È vero che l'idea pareysoniana di libertà resta ancora indeterminata, non attingendo a quel contenuto assolutamente specifico che la vittima fornisce, ma tale contenuto storico e creaturale si rivela presente nella centralità che il suo pensiero assegna alla figura e all'evento di Gesù crocifisso. Questo indubbio cristocentrismo porta anche a un altro aspetto di capitale interesse.

Nella sua acutezza di percezione concettuale ed esistenziale, Pareyson recupera anche la grande idea cristiana di accettazione redentiva dell'espiazione. Egli non ne ravvisa il legame strutturale e storico col sacrificio, ma riconosce in essa la grande forza che trasforma il dolore in riscatto dal male, in strumento di comprensione e riscatto (..) (p. 179)

 

Torna quindi a riproporsi, ed è del tutto inevitabile, l' hic Rhodus hic saltus cui inesorabilmente ci conduce lo sviluppo del pensiero fornariano. Ovvero il paradosso di una vittima intesa come verità assoluta e però non oggettivabile in termini astratti, perché la si può sperimentare solo in concreto. Come abbiamo già rilevato, questa assolutezza è il principio su cui sta o cade l'insieme della teoria di Fornari. D'altro canto, il Pareyson cui egli si mostra più vicino è quello che sostiene che il dolore è l'unica cura del male, e vede nel mondo un di più di male rispetto al dolore. A me pare più sensata, su questo punto specifico, la posizione di Sergio Quinzio, che vede invece nell'universo un di più di dolore, anzi una marea di dolore che supera di gran lunga il peso delle colpe umane. Un dolore che è già nella natura moralmente innocente. E qui torniamo sull'insufficienza del pensiero girardiano, che limita il male alla violenza, e non lo vede mai nel mondo in quanto tale – non però nel senso di una coincidenza tra mondo e male, ovvero di una negatività gnostica del mondo, ma di un originale intreccio di bene e mancanza di bene, legata alla essenziale contingenza degli enti – (in questo senso, ad esempio, la sua lettura di Giobbe mi sembra esemplare). Insomma, manca del tutto, e mi pare anche in Fornari, il grande tema della sventura, che si abbatte sugli umani a prescindere dalle loro colpe. La sventura è resa possibile, esattamente come la ventura, ossia la buona sorte, dalla contingenza di tutti gli enti, e assume il suo significato dal fatto che tra gli enti sussiste una particolare classe che pensa tutti gli altri e il mondo, e vi attribuisce un significato. Solo per questa classe di enti, gli umani, ha senso parlare di sventura, anche perché essi soli parlano.

Naturalmente il termine sventura, che indica una realtà innegabile, che sta nell'orizzonte dell'esperienza di tutti, una realtà corposissima, che spesso ci si presenta come un muro contro il quale andiamo a sfracellarci, non ha alcun senso entro un discorso meramente e rigorosamente scientifico. La scienza è parziale, non può dar conto della totalità dell'esperienza umana. Quando cerca di farlo si muta in scientismo, cioè in una visione del mondo che solitamente conduce a risultati miserevoli sotto tutti i punti di vista. La sua cifra è una chiusura della mente che si gabella per apertura. In quest'ottica, come si pone la teoria girardiana? Secondo Fornari Girard finisce in una impasse, da cui lo può sollevare solo Fornari stesso.

 

Troppo filosofico, o religioso, per essere scienza, il pensiero di Girard è troppo scientifico, anzi scientista, per essere filosofia e religione: impasse da cui non si esce, a meno che non si imprima lo sviluppo della teoria che io sostengo e argomento da anni, non venendo naturalmente ascoltato né dai filosofi né dagli scienziati, e restando puntualmente incomprensibile per i girardisti entusiasti, troppo occupati a stendere bollettini di vittoria per rendersi conto che la battaglia è appena iniziata. (p. 197)

 

Al di là di insufficienze particolari, e dei punti di dissenso anche grave, quello che mi pare decisivo nella prospettiva aperta da René Girard e continuata da altri pensatori, tra cui spiccano Giuseppe Fornari ed Eric Gans, è la centralità della questione della natura, ovvero del rapporto tra il naturale e l'umano-culturale. In altri termini, il pensiero veramente antropologico è quello che pensa l'umano nella sua differenza, nella sua irriducibilità. Per far questo fino in fondo, tuttavia, il pensiero non può essere meramente antropologico, e deve farsi antropologico-filosofico. Qui Fornari ha perfettamente ragione. Poiché il pensiero che pensa l'origine dell'umano, anche quando vuole configurarsi nei termini di un'ipotesi minimale, secondo la linea di Gans, è convocato alle questioni supreme, e anzitutto a pensare se stesso. Facendo questo, esso si rende conto che non può rimanere entro le barriere di una scienza settoriale, secondo il modello di tutte le scienze contemporanee, ma diviene necessariamente, in un certo senso, metafisico. Se si porta la teoria di Girard alle sue logiche conseguenze, non si può non vedere ciò che Fornari vede in Nietzsche, ovvero il problema antico come la filosofia: "il paradosso della natura dell'uomo all'interno della più vasta natura dalla quale proviene" (p. 206).

 

Un nodo gordiano è quello che unisce violenza e rappresentazione. Ho sempre sostenuto che non si dà violenza se il dato puramente mondano dell'azione distruttiva non viene rappresentato. Ed è ciò che viene fatto dal segno umano. Ne consegue, ancora una volta, che non si può parlare di una situazione preumana connotata dalla violenza precedente l'emergere del segno, perché una violenza onnidistruttiva tale da minacciare il totale annichilimento del gruppo, quale è presupposta da Girard, Fornari, e dallo stesso Gans, può essere temuta solo a partire da una sua rappresentazione.

 

 Il punto essenziale, a cui Nietzsche si avvicina cercando di pilotarne la contraddizione e su cui invece Colli sorvola, è che in nessuna specie animale la violenza si manifesta con la pericolosità e il carattere di massa che assume nell'uomo: per motivi anche del tutto irreali, gli uomini possono distruggere non solo se medesimi ma intere collettività, la stessa società che rende possibile la loro esistenza. In nessun altro animale avviene una violenza intraspecifica così frequente, contagiosa e inaudita, una violenza che solamente la cultura, o per meglio dire la religione, ha cercato di canalizzare e tenere a bada sin dalle epoche più remote. È proprio un esame scientifico, "naturalistico", dell'uomo a dimostrare che esso ha qualcosa di diverso da qualunque altro animale, e proprio in ciò che secondo il più ignaro Colli e il più sfegatato Nietzsche lo dovrebbe accomunare all'intera natura. (pp. 215 – 216)

 

Io penso, di contro, che il segno originario, e la cultura umana che esso inaugura, sia sorto da un contesto di aggressività mimetica molto forte, ma abbia esso stesso generato la violenza. Ovvero: la specie umana sorge insieme alla rappresentazione, ed è esattamente il fatto che la rappresentazione può moltiplicare all'infinito gli oggetti mondani di appetizione, e intensificare e accrescere le loro qualità intrinseche, e addirittura falsificarle, che trasforma l'aggressività limitata e autoregolata dell'animale nella violenza in-finita della specie umana. Il segno ha in sé dall'inizio una fondamentale ambiguità, legata alla sua natura intenzionale: esso può essere compreso o frainteso da tutta la comunità entro cui viene emesso, o da parte di essa. E può essere emesso con la finalità che esso venga frainteso. Esso si collega al falso segnale che caratterizza alcune specie animali, ma con la rottura essenziale rappresentata dalla sua intenzionalità.

 

La verità di questa "naturalità" del sacrificio sta nel fatto che il rito sacrificale, con la sua risoluzione in un "ultimo" doppio, è l'unico modo in cui l'uomo, come tale, si può salvare dai doppi della violenza. Nessuna "natura" umana potrebbe esistere se il sacrificio non apparisse naturale in tal senso, e nessuna differenziazione della cultura se la discontinuità del sacrificio non creasse una nuova armonia travestita da continuità. Ma, nel contempo, questa è la più grande menzogna, poiché la violenza sacrificale può funzionare solamente se sdoppia e nasconde se stessa, è la menzogna originaria perché è la menzogna da cui abbiamo origine, la nostra originaria doppiezza. (p. 224)

 

Se la natura umana è caratterizzata appunto dalla fuoriuscita dallo stretto ordine naturale, ed è appunto cultura, occorre pensare il rapporto tra verità e menzogna in termini filosofici e, per restare sul piano in cui Fornari incanala il suo discorso, anche teologici. Poiché Girard vede nella violenza mimetica e nella sua regolazione sacrificale-vittimaria Satana stesso, il principio-menzogna, sostenere che noi come specie umana abbiamo origine da una menzogna significa attribuire a Satana un ruolo decisivo nell'umanizzazione. Significa anche, a mio parere, professare un pessimismo antropologico radicale, un agostinismo nero. Mi piacerebbe sapere cosa Girard pensa di Giansenio.

 

Anche nell'ultima parte di Filosofia di passione, in cui Fornari dispiega la sua grande forza di pensatore, tutto l'edificio della sua teoria unificata del mito e del rito (ovvero della cultura umana) posa con tutta evidenza sul concetto di vittima originaria, che è insieme il concetto dell'origine della vittima. È evidente che è l'individuo massacrato unanimemente dal suo stesso gruppo la vittima che Fornari ha in mente. Questo individuo, o meglio questo membro del gruppo, diviene il primo segno o simbolo perché introduce una differenza assoluta, che sarebbe quella tra il gruppo e la vittima stessa. Ora, a me pare che qui il ragionamento non sia pienamente razionale, ma appartenga in qualche modo al mito, si costituisca platonicamente come mythos per dire ciò che è in realtà indicibile, l'assolutamente inattingibile. L'azione del gruppo produce insieme la morte violenta di uno e la sua trasfigurazione in vittima (e poi della vittima in altro da sé). Il tutto può darsi solo a condizione che venga attribuito ad un membro del gruppo un "potere immenso", prima negativo per il gruppo stesso, che se ne sente radicalmente minacciato nella sua stessa sopravvivenza, quindi benefico perché proprio mediante l'uccisione dell'elemento dotato di potere negativo immenso il gruppo si ritrova armonizzato e pacificato. Ma questa retroproiezione in ere perdute di una disposizione che è già in qualche modo spirituale (poiché un "potere immenso" non appartiene alla pura animalità) non può trovare sostegno scientifico, né teologico, né filosofico.

 

La vittima, uccisa dall'intero gruppo coalizzato contro di lei, è il primo "segno", il primo "simbolo", che ha rotto l'universo chiuso delle relazioni animali, introducendo una differenza assoluta, quella fra il gruppo e la vittima, una soluzione di continuità percettiva e mentale foriera in se stessa di esponenziali sviluppi. Abbiamo visto che, secondo Girard, questa differenza assoluta, identificata nella vittima, dipende dal fatto che la comunità attribuisce al suo capro espiatorio un potere immenso, dapprima distruttivo finché la vittima è viva, e subito dopo benefico non appena essa è uccisa e scende improvvisa la pace. Si tratta di una doppia scarica rapidissima e traumatica, di una specie di elettroshock collettivo, concettualizzabile nei due momenti del doppio transfert. È una situazione eccezionale e traumatica di cui Girard ha sottovalutato la forza e la capacità creativa, ignorandone sostanzialmente la struttura interna, come risulta anche dalla sorprendente mancanza di un qualsiasi approfondimento del concetto di transfert. (347)

 

Il problema è che l'unanimità osservata, e quella anche di cui parlano i miti analizzati da Girard e Fornari, è una unanimità già mediata dalla rappresentazione, come si vede, per prendere l'esempio più elevato, nel racconto evangelico della Passione. Personalmente, non riesco a figurarmi un gruppo di ominidi che ammazzano uno del loro gruppo perché gli attribuiscono un potere devastante, e poi illudendosi lo divinizzano. Tanto più che Fornari tende ad arretrare cronologicamente l'Origine a tempi lontanissimi. Nelle pagine sulla natura trascendente del punto i cerchi di pietre attribuiti ad homo habilis  (pag.  367 e sgg.) vengono utilizzati da Fornari a sostegno dell'idea che la vittimizzazione omofagica risalirebbe addirittura a milioni di anni fa

 

La cosa straordinaria del secondo transfert, della traslazione estatica o divinizzante, è che la differenza assoluta attribuita alla vittima è di per sé illusoria, ma è ciecamente creduta da tutti, trasformando con ciò stesso quello che ai nostri occhi appare un inganno in uno strumento di scoperta e di conoscenza. Nei termini nietzschiani, che Calasso ancora segue, questa trascendenza sembra confermare l'illusorietà di ogni culto, da superare nella oltreumanità dei sacrificatori coscienti (Nietzsche), o nel recupero cosmico del sacrificio come legge necessaria dell'esistente (Calasso). La visione nietzschiana resta prigioniera del presupposto che condiziona anche Girard, ossia che le apparenze fenomeniche dell'origine debbano venire in sostanza scartate come illusorie, il che significa presupporre, a ruoli invertiti, l'idea di verità asseverata dai miti e dai riti. Che Nietzsche avverta come nessun altro nella sua epoca l'intensità delle divinizzazioni primordiali e cerchi di far sua la "transverità" dei miti in prima battuta, e poi in senso autoimmolatorio dei riti, non è che la conseguenza dell'irreversibilità del disincanto moderno, solo fattore a rendere possibile questa manipolazione del sacro che non ha precedenti. Ciò equivale a affermare che le divinizzazioni moderne dovrebbero collocarsi in una dimensione che è oltre la verità o non verità, appunto nella transverità della trasvalutazione, che si risolve in un'autoconferma performativa dal significato infausto. È una stretta da cui non si viene fuori così a buon mercato. Se il sacrificio è un'illusione che si presenta come verità, questo non significa che esista una verità non illusoria che sarebbe quella della scienza come pensa Girard, o quella della metafisica indiana come pensa Calasso (p. 350)

 

Fornari pensa di superare il problema ponendo "una verità che poteva presentarsi agli animali in via di ominizzazione solamente come illusione". Questo mi pare modellarsi sul concetto di una pedagogia divina, confermando l'intrico di paleoantropologia, filosofia e teologia che è il pensiero di Fornari. Molte sono le zone oscure che mi sembrano porre interrogativi piuttosto stringenti. Anzitutto l'origine di quella smisurata tensione entro il gruppo preumano che può essere risolta ogni volta solo con il linciaggio del membro pericoloso del gruppo stesso, tensione che mi sembra debba essere spiegata e non solo presupposta (per quale causa i normali meccanismi del pecking order crollano?). Poi la scelta del membro da eliminare. Non il più forte, allora il più debole. Ma se è il più debole perché malato o storpio, che pericolo può rappresentare per il gruppo? In tal caso, invece che massacrato, dovrebbe essere espulso, allontanato, mandato in bocca ai predatori (un punto su cui Burkert ha fatto annotazioni interessanti). Credo che sulla differenza tra linciaggio ed espulsione, e sui loro moventi, Girard e Fornari non abbiano ragionato a sufficienza.

 

Ma in principio il symbolon con cui tutti i membri del gruppo si identificavano, dopo aver colpito il sym-bolon (da sym-ballein) del malcapitato prescelto, era un pezzo sanguinante del suo corpo, un pezzo ancora palpitante di carne cruda che veniva immediatamente divorato. Sulla scorta di quanto scoperto da Robertson Smith e da Freud, ritengo possa essere stata questa, per i suoi caratteri di primordialità e di efficacia, la forma più antica di uccisione della vittima, talmente potente da sopravvivere in innumerevoli riti sacrificali ancora in epoca storica, e da essere riprodotta nel simbolismo universalmente diffuso delle diverse parti del mondo nate dallo smembramento di qualche personaggio mitico, come ad esempio Purusha, l'uomo primordiale della mitologia indiana che fa un tutt'uno con Prajapati, un «tutt'uno» da cui nascono i "molti" di tutti gli esseri differenziati. Naturalmente abbiamo ancora troppo pochi elementi per dire qualcosa di più, perché ci dev'essere stata una lunga fase di intensificazione del meccanismo vittimario che ha condotto, partendo dai metodi ancora rudimentali della fase infraculturale (cioè immediatamente precedente alla cultura vera e propria), a una sorta di "precipitato" al momento della nascita della cultura umana. Quello che con sicurezza emerge è che si è trattato di un momento assolutamente saliente, e condiviso dall'intera specie, perché i suoi residui simbolici sono osservabili nelle culture dell'intero pianeta, e l'ulteriore dettaglio che nel sacrificio omofagico assistiamo a un convergere tra violenza collettiva spontanea e ripetizione rituale mi autorizza a pensare che sia stato questo il primo sacrificio conosciuto dall'umanità. Un altro indizio importante da non tralasciare è che questa forma di sacrificio mostra di essere più antica di qualsivoglia invenzione di armi vere e proprie usate per uccidere: siamo cioè in una fase in cui i membri di una comunità non impiegano mezzi offensivi esosomatici se non occasionali o comunque tecnologicamente non sviluppati, né tanto meno il fuoco.  (p. 353)

 

Dunque per Fornari il sacrificio di un membro del gruppo e il suo consumo nel banchetto omofagico sono il marchio originario della specie. La sua convinzione è così assoluta che egli ostinatamente attribuisce a Eric Gans ciò che non gli appartiene, rasentando lo straw man argument per demolire la teoria del suo rivale. Infatti Fornari colloca nella scena originaria gansiana un "corpo della vittima" che in Gans non vi è affatto. Nella scena gansiana, infatti, l'oggetto centrale intorno al quale i preumani stanno per essere indotti dal loro appetito a scatenare una furia distruttiva del loro stesso gruppo, che viene differita dall'emissione del primo segno, non è affatto una vittima, ma una preda, ovvero un animale di un'altra specie. In Gans il primo segno non è infatti un corpo, ma un gesto. E la liquidazione della prospettiva gansiana da parte di Fornari mi appare davvero frettolosa e scorretta.

 

L'evento fondatore descritto in quest'opera risulta parzialmente inficiato da elementi anacronisticamente oggettuali come l'attenzione verso il corpo della vittima, anche perché vi è la tendenza a mescolare o a non distinguere tra loro aspetti riconducibili a fasi evolutive diverse, aspetti che restano empiricamente mescolati nelle culture umane, ma naturalmente solo una volta che uno stadio più avanzato si è affermato (l'empirismo culturale umano non autorizza quindi la confusione, ma può essere compreso soltanto facendo chiarezza).` Tale difetto di formulazione si è amplificato nella teoria di Eric Gans, secondo la quale la cultura nascerebbe dall'impedimento a impossessarsi del corpo della vittima che il gruppo esercita su ogni suo membro subito dopo la sua uccisione, aborted gesture che assegnerebbe alla vittima il suo valore divino: riformulazione non priva di valore, in quanto esplora una piccola parte della traslazione originaria, e che aggrava tuttavia i limiti della versione girardiana, ponendo al centro dell'intera scena non solo quella che in definitiva è già una rappresentazione della vittima, ma anche una sorveglianza reciproca che implica una prima rudimentale forma di contratto sociale, laddove invece è coerente ipotizzare un evento unico e grandioso, a cui tutti gli animali in via di ominizzazione obbediscono in preda a un impulso collettivo. (p. 354)

 

Ipotizzare. Questo è il punto. Qualsiasi scena originaria è ipotetica. Il problema è se su una ipotesi cosciente della propria fallibilità si possa costruire una visione del mondo della dimensione e delle pretese di quella di Fornari.

 

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