Capri espiatori umani nell'antichità classica 

Da Il ramo d'oro di J. Frazer [ed. 1922],tr. L.De Bosis, Boringhieri, Torino1973. 

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1. Il capro espiatorio umano nell'antica Roma

Siamo ora in grado di rintracciare l'uso del capro espiatorio umano nell'antichità classica. Ogni anno, il 14 di marzo, si portava in processione per le vie di Roma un uomo vestito di pelli, il quale, dopo esser stato battuto con lunghi bastoni, si cacciava via dalla città. Quest'uomo si chiamava Mamurio Veturio, ossia "il vecchio Marte", e poiché la cerimonia aveva luogo il giorno avanti il primo plenilunio di marzo dell'antico anno romano (che cominciava il l° marzo) l'uomo vestito di pelli doveva rappresentare il marzo dell'anno vecchio che veniva cacciato via al principio dell'anno nuovo. Ora, Marte non era in origine il dio della guerra ma un dio della vegetazione. Era infatti a Marte che gli agricoltori romani si rivolgevano per la prosperità del grano, delle vigne, degli alberi da frutto e dei boschi; era a Marte che il sacro collegio dei Fratelli Arvali, il cui compito era di sacrificare per la crescita del raccolto, indirizzava le sue preghiere ad esclusione degli altri dèi; ed era a Marte, come abbiamo visto, che si sacrificava in ottobre un cavallo per assicurarsi buoni raccolti. Per di più era a Marte, sotto il suo titolo di "Marte silvano", che i contadini offrivano sacrifici per la salute del loro bestiame. Abbiamo già visto che il bestiame era comunemente messo sotto il patronato speciale degli dèi degli alberi. E ancora, la consacrazione a Marte del mese primaverile di marzo sembra designarlo come la divinità della vegetazione che comincia a spuntare. Cosi il costume romano di espellere il vecchio Marte al principio dell'anno nuovo in primavera è identico al costume slavo dell'"espulsione della Morte", se la concezione da noi adottata di quel costume è corretta. La somiglianza tra i costumi romani e quelli slavi è già stata messa in rilievo dagli studiosi che sembrano, tuttavia, aver ritenuto che Mamurio Veturio e i corrispondenti personaggi delle cerimonie slave fossero rappresentanti dell'anno vecchio più che rappresentanti del vecchio dio della vegetazione. E' possibile che, in tempi posteriori, queste cerimonie siano state interpretate in questa maniera anche da coloro che le praticavano. Ma la personificazione di un periodo di tempo è un'idea troppo astratta per essere primitiva. Tuttavia, tanto nella cerimonia romana che in quella slava, sembra che il rappresentante del dio sia stato trattato non soltanto come una divinità della vegetazione ma anche come un capro espiatorio. Ciò viene indicato dalla sua espulsione; non vi è infatti alcuna ragione perché il dio della vegetazione sia, come tale, espulso dalla città. Ben altrimenti è la cosa se egli invece è anche un capro espiatorio. Diviene allora necessario cacciarlo fuor dei confini perché porti via ad altre terre il suo fardello di sofferenze. Sembra infatti che Mamurio Veturio fosse cacciato nel paese degli Osci, i nemici di Roma. 

  1. Il capro espiatorio umano nell'antica Grecia

Anche gli antichi Greci avevano familiare l'usanza del capro espiatorio. Nella città di Cheronea, dove nacque Plutarco, l'arconte eseguiva una cerimonia di questa specie nel Pritaneo e ogni padre di famiglia faceva altrettanto a casa sua. Si chiamava "l'espulsione della fame". Si bastonava uno schiavo con delle bacchette di agnocasto e lo si cacciava di casa dicendo: "Fuori la fame e vengano la ricchezza e la salute!" Quando Plutarco tenne la carica di arconte nella sua città natale, eseguì questa cerimonia nel Pritaneo ed egli ci riferisce la discussione a cui il costume diede poi luogo.

Ma nella civile Grecia l'usanza del capro espiatorio prese forme più tenebrose di quelle dell'innocente rito cui presiedette il mite e pio Plutarco. Ogni volta che Marsiglia, una tra le più attive e splendide colonie greche, era infestata da una pestilenza, un uomo delle classi povere si offriva come capro espiatorio. Per tutto un anno veniva mantenuto a spese pubbliche e gli si servivano le più squisite vivande a suo piacere. Allo spirare dell'anno, veniva vestito con abiti sacri, ornato di sacri rami e condotto per tutta la città, mentre s'innalzavano preghiere perché tutti i mali del popolo ricadessero sulla sua testa. Alla fine lo cacciavano dalla città oppure il popolo fuori delle mura lo lapidava a morte. Gli Ateniesi mantenevano regolarmente un certo numero di creature degradate e inutili a spese dello Stato, e quando cadeva sulla città qualche calamità, come pestilenze, siccità o carestie, sacrificavano come capri espiatori due di questi infelici. Una delle vittime veniva sacrificata per gli uomini e l'altra per le donne. La prima portava intorno al collo una collana di fichi neri, la seconda una collana di fichi bianchi. Qualche volta pare che la vittima uccisa per conto delle donne fosse essa stessa una donna. Si portavano in giro per la città e poi si sacrificavano, pare, lapidandole fuori delle mura. Ma tali sacrifici non erano limitati a straordinarie occasioni di pubbliche calamità; sembra che ogni anno alla festa delle Targelie, a maggio, ai portassero fuori di Atene e si uccidessero per lapidazione due vittime, una per gli uomini e una per le donne. La città di Abdera in Tracia veniva ogni anno pubblicamente purificata, e uno dei cittadini, scelto per questo scopo, veniva lapidato come capro espiatorio o come delegato al sacrificio per salvare la vita di tutti gli altri; sei giorni prima dell'esecuzione veniva scomunicato "perché potesse portare esso solo i peccati di tutto il popolo".

Dal "Salto degli amanti", un bianco promontorio alla punta meridionale dell'isola, gli abitanti di Leucade gettavano in mare, ogni anno, come capro espiatorio un criminale. Ma per alleggerire la caduta attaccavano alla sua persona uccelli vivi e penne, e una flottiglia di barche lo aspettava per raccoglierlo e portarlo al di là dei confini. Queste pietose precauzioni erano probabilmente un addolcimento di un costume più antico secondo il quale si gettava in mare un capro espiatorio per affogarlo. La cerimonia di Leucade avveniva all'epoca di un sacrificio ad Apollo, che aveva in quel luogo un tempio o un santuario. Altrove era uso di gettare ogni anno un giovane nel mare con la preghiera: "Sii tu il nostro rifiuto", e si credeva che questa cerimonia liberasse il popolo da tutti i mali che lo minacciavano o, secondo una spiegazione un poco diversa, lo redimesse pagando un debito che esso doveva al dio del mare. Il costume del capro espiatorio, quale lo praticavano i Greci dell'Asia minore al secolo VI a. C., era il seguente. Quando una città soffriva di pestilenza, di carestia o di qualche altra pubblica calamità si sceglieva una persona brutta o deforme che prendesse su di sé tutti i mali che affliggevano la comunità. Lo portavano in un luogo appropriato dove gli mettevano in mano dei fichi secchi, una pagnotta d'orzo e del formaggio. Egli mangiava questi cibi e allora lo bastonavano sette volte sugli organi genitali con scille, rami di fico selvatico e di altri alberi selvatici, mentre altri suonavano sui flauti un'aria speciale. Poi lo si bruciava sopra un rogo fatto col legno degli alberi della foresta e se ne gettavano le ceneri nel mare. Sembra che i Greci dell'Asia celebrassero ogni anno un costume simile durante la festa della mietitura, le Targelie.

Nel rituale ora descritto non è certo soltanto per aggravare le sue sofferenze che si batteva la vittima con scille e rami di fico selvatico, ecc.; altrimenti qualunque bastone sarebbe stato buono per questo. Il vero significato di questa parte della cerimonia è stato spiegato da W. Mannhardt. Egli ha messo in rilievo che gli antichi attribuivano alle scille il potere magico di stornare le influenze malefiche e che per questo le attaccavano alle porte delle loro case e ne facevano uso nei riti di purificazione. Così il costume arcade di battere l'immagine di Pan con scille, in una festa o in ogni occasione in cui i cacciatori tornassero a mani vuote, non era inteso a punire il dio, ma a purificarlo dalle influenze malefiche che lo minacciavano nell'esercizio delle sue funzioni divine, in qualità di dio che avrebbe dovuto fornire la cacciagione ai cacciatori. Similmente la ragione di battere il capro espiatorio umano sugli organi genitali con scille ecc. deve essere quella di liberare la sua energia procreativa da ogni incantesimo o maleficio che un qualche demoniaco o maligno essere gli avesse potuto gettare addosso: e poiché le Targelie, in cui veniva ogni anno sacrificato, erano una precoce festa delle messi, celebrata a maggio, dobbiamo riconoscere in esso il rappresentante del dio creatore e fertilizzatore della vegetazione. Il rappresentante del dio veniva ucciso per lo scopo, da me indicato, di mantenere in perpetuo vigore la vita divina al sicuro dall'indebolimento della vecchiaia; e prima che fosse messo a morte non era irragionevole stimolare i suoi poteri riproduttori affinché potesse trasmetterli in piena attività al suo successore, il nuovo dio o la nuova incarnazione del vecchio dio che, senza dubbio, si credeva prendesse immediatamente il posto di quello ucciso. Un ragionamento analogo conduceva a un analogo trattamento del capro espiatorio in occasioni speciali, come siccità o carestia. Se i raccolti non rispondevano alle speranze dell'agricoltore, egli l'attribuiva a qualche decadenza nei poteri generativi del dio la cui funzione era appunto quella di produrre i frutti della terra. Si poteva credere che egli fosse sotto qualche incantesimo o che diventasse debole o vecchio. Per questo lo si uccideva nella persona del suo rappresentante, con tutte le cerimonie descritte, affinché, rinato nuovamente giovane, potesse infondere il suo giovanile vigore nelle stagnanti energie della natura. Secondo lo stesso principio possiamo ora comprendere perché Mamurio Veturio fosse battuto con scille, perché lo schiavo della cerimonia di Cheronea fosse battuto con bacchette di agnocasto (un albero a cui si attribuivano proprietà magiche), perché l'effigie della Morte in alcune parti d'Europa viene battuta con verghette e con sassi e perché a Babilonia il criminale che faceva la parte del dio venisse flagellato prima di essere crocifisso. Lo scopo della flagellazione non era quello di intensificare l'agonia del divino sofferente, ma al contrario quello di cacciare tutte le influenze malefiche che potevano minacciarlo al momento supremo.

Abbiamo sin qui supposto che le vittime umane delle Targelie rappresentassero gli spiriti della vegetazione in generale, ma è stato fatto giustamente notare da W. R. Paton che questi disgraziati sembrano aver rappresentato gli spiriti del fico in particolare. Egli mostra che la cosiddetta caprificazione, ossia la fertilizzazione artificiale degli alberi di fico ottenuta attaccando fra i loro rami delle collane di fichi selvatici, si pratica in Grecia e in Asia minore a giugno, un mese circa dopo la data delle Targelie, ed egli suggerisce che l'attaccare i fichi neri e i fichi bianchi al collo delle due vittime umane, una delle quali rappresentava gli uomini e l'altra le donne, possa esser stata un'imitazione diretta del processo della caprificazione, destinata, secondo il principio della magia imitativa, a favorire la fertilità degli alberi di fico. E poiché la caprificazione è effettivamente un matrimonio dell'albero del fico maschio con l'albero del fico femmina, il Paton suppone inoltre che si simulasse l'amore degli alberi secondo il principio della magia imitativa con un finto matrimonio e forse anche con uno vero fra le due vittime umane, una delle quali sembra sia stata qualche volta una donna. Secondo questo modo di vedere, la pratica di battere le vittime umane sui genitali con dei rami di fico selvatico e con scille non era altro che un incantesimo destinato a stimolare il potere generativo dell'uomo e della donna, che in quell'occasione personificavano rispettivamente l'albero di fico maschio e quello femmina, e con la loro unione in matrimonio, sia reale che finta, si supponeva che essi aiutassero gli alberi a portare frutti.

L'interpretazione del costume di battere i capri espiatori umani con certe piante speciali, che io adotto, è confermata da molte analogie. Così tra i Kai della Nuova Guinea quando un uomo vuole che i suoi giovani banani portino rapidamente dei frutti li batte con una verghetta tagliata da un banano che abbia già portato frutti. E' qui evidente che si suppone la fertilità immanente in una verghetta tagliata da un albero fertile e che possa essere impartita per contatto a una giovane pianta di banane. Similmente nella Nuova Caledonia, gli abitanti battono leggermente le loro piante di taro con un ramo, dicendo: "Battiamo questo taro perché cresca", dopo di che piantano il ramo in terra all'estremità del campo. Tra gli indiani del Brasile, alle foci delle Amazzoni, quando un uomo vuole aumentare le dimensioni del suo organo di riproduzione lo colpisce o lo batte col frutto di una pianta acquatica bianca detta aninga che cresce in abbondanza sulle rive del fiume. il frutto, che non è commestibile, rassomiglia a una banana ed è chiaro che viene scelto a quest'uso appunto per la sua forma. Questa cerimonia deve essere eseguita tre giorni prima o tre giorni dopo la luna nuova. Nella contea di Bekes, in Ungheria, le donne sterili vengono fecondate battendole con un bastone che sia stato prima usato per separare dei cani che si accoppiano. Qui si suppone chiaramente che una virtù fertilizzatrice si attacchi al bastone e possa venire trasmessa per contatto alle donne. I Toradja del Celebes centrale credono che la pianta Dracaena terminalis abbia un'anima molto forte perché appena tagliata emette nuovi germogli. Quindi, quando un uomo è malato, i suoi amici lo battono qualche volta all'occipite con delle foglie di Dracaena per rinforzare la sua anima indebolita con quella forte della pianta.

Queste analogie confermano dunque l'interpretazione che, seguendo i miei predecessori W. Marnhardt e W. R. Paton, ho dato delle battiture inflitte alle vittime umane nella festa greca della mietitura, le Targelie. Queste battiture amministrate sugli organi genitali delle vittime con delle piante e con dei rami verdi si spiegano assai naturalmente come un incantesimo per aumentare le energie riproduttive degli uomini e delle donne, sia col comunicare loro la fertilità delle piante e dei rami, sia liberandoli da malefici influssi; questa interpretazione viene confermata dal fatto che le due vittime rappresentavano i due sessi, una per gli uomini in generale e l'altra per le donne. L'epoca dell'anno in cui ricorreva la cerimonia, ossia il tempo della mietitura del grano, si accorda bene con la teoria che il rito avesse un significato agricolo. Per di più il fatto che la cerimonia fosse soprattutto destinata a fertilizzare gli alberi di fico viene fortemente indicato dalle collane di fichi neri e bianchi che si attaccavano al collo delle vittime e anche dai colpi che gli si davano sugli organi genitali con rami di fico selvatico; questo procedimento si avvicina infatti di molto al procedimento cui i contadini antichi e moderni hanno sempre ricorso nei paesi greci per fertilizzare veramente i fichi. Quando ricordiamo quale importante parte abbia avuto la fertilizzazione artificiale delle palme non soltanto nell'agricoltura ma anche nella religione della Mesopotamia non sembra che vi sia alcuna ragione per dubitare che la fertilizzazione artificiale dell'albero di fico abbia similmente rivendicato il suo posto nel solenne rituale della Grecia antica.

Se queste considerazioni sono fondate, dobbiamo a quanto pare concludere che mentre le vittime umane delle Targelie sembrano certamente aver raffigurato nelle posteriori epoche classiche dei pubblici capri espiatori che si portavano via tutti i peccati, le sciagure e le disgrazie dell'intero popolo, in tempi anteriori possono esser state considerate come incarnazioni della vegetazione, forse del grano, ma particolarmente degli alberi di fico; e che le battiture che ricevevano e la morte di cui morivano fossero intese originariamente a rinvigorire e rinnovellare i poteri della vegetazione che cominciavano allora a deperire e a languire sotto il torrido calore dell'estate greca.

La spiegazione qui data del capro espiatorio greco, se è esatta, serve anche a prevenire un'obiezione che si potrebbe altrimenti avanzare contro la teoria principale che è al centro di questo lavoro. Alla teoria che il sacerdote di Aricia fosse ucciso come rappresentante dello spirito del bosco si sarebbe potuto obiettare che un tale costume non trova nessun riscontro in tutta quanta l'antichità classica. Ma abbiamo ora fornite delle ragioni per credere che gli esseri umani periodicamente o di tanto in tanto uccisi dai Greci asiatici erano regolarmente trattati come un'incarnazione della divinità della vegetazione. Probabilmente le persone che gli Ateniesi mantenevano per essere sacrificate erano similmente trattate come divine. Che fossero dei disgraziati reietti dalla società non importa. Secondo le vedute primitive non è a causa delle sue qualità morali o del suo grado sociale che un uomo viene scelto per essere il portavoce o l'incarnazione di un dio. Lo spirito divino scende ugualmente sui buoni e sui cattivi, sui grandi e sugli umili. Se, quindi, gl'inciviliti Greci dell'Asia e di Atene sacrificavano abitualmente degli uomini che essi consideravano come dèi incarnati, non vi è nulla di inverosimile in se stesso nell'ipotesi che all'alba della storia si osservasse un costume simile tra i semibarbari Latini del bosco di Aricia.

Ma perché il nostro argomento sia ancor più approfondito è evidentemente desiderabile poter provare che il costume di mettere a morte il rappresentante umano di un dio era conosciuto e praticato nell'Italia antica in altri luoghi che non nel bosco di Aricia. E' questa la prova che mi propongo ora di addurre.

3. I saturnali a Roma

Abbiamo visto che molti popoli solevano osservare ogni anno un periodo di licenza in cui si mettono da parte tutti i freni della legge e della moralità, in cui tutti si abbandonano alla più stravagante allegria e in cui le più tenebrose passioni trovano uno sfogo che nel corso più regolare e sobrio della vita comune non sarebbe mai concesso loro. Questi sfoghi delle costrette forze della natura umana, che degenerano troppo spesso in orge selvagge di lussuria e di delitti, avvengono più comunemente alla fine dell'anno e sono di frequente associate, come ho già avuto occasione di mostrare, con l'una o con l'altra delle stagioni agricole, specialmente col tempo della semina o della mietitura. Ora, di tutti questi periodi di licenza, il più conosciuto, che nel linguaggio moderno ha dato il suo nome a tutti gli altri, è quello dei saturnali. Questa famosa festa cadeva in dicembre, l'ultimo mese dell'anno romano, e si credeva comunemente che commemorasse l'allegro regno di Saturno, il dio della semina e dell'agricoltura, che visse tanti secoli addietro sulla terra, come giusto e benefico re d'Italia. Egli raccolse i rozzi e sparsi abitatori delle montagne, insegnò loro a lavorare la terra, stabilì le prime leggi e governò sempre in pace. Il suo regno era la favolosa età dell'oro: la terra produceva abbondantemente i suoi frutti: nessun suono di guerra o di discordia turbava la felice serenità del mondo; nessun funesto amore di lucro travagliava come un veleno il sangue degli industriosi e felici contadini. Schiavitù e proprietà privata erano del pari ignote. Gli uomini avevano tutto in comune. Alla fine il buon dio, il buon re sparì a un tratto, ma la sua memoria rimase nel cuore degli uomini fino a lontane età, santuari sorsero in onore suo, e molte colline e alture portavano in Italia il suo nome. Eppure la luminosa tradizione del suo regno era offuscata da un'ombra oscura: si diceva che i suoi altari fossero bagnati dal sangue delle vittime umane alle quali un'epoca più pietosa sostituì poi delle immagini. Di questo oscuro lato della religione del dio poca o nessuna traccia rimane nelle descrizioni che gli scrittori antichi ci hanno lasciato dei saturnali. Banchetti, orge, e ogni folle ricerca del piacere sono i caratteri che sembrano aver specialmente distinto questo carnevale dell'antichità nei sette giorni che durava nelle pubbliche strade, nelle piazze e nelle case dell'antica Roma, dal 17 al 23 dicembre. Ma nessun carattere di questa festa è più notevole, nulla sembra in essa aver più colpito gli antichi stessi, della licenza accordata in questo periodo agli schiavi. La distinzione fra la classe libera e quella dei servi era per tutto quel tempo abolita. Lo schiavo poteva burlarsi del suo padrone, ubriacarsi come i suoi superiori, sedersi a tavola con loro e non gli si poteva dire neppure una parola di biasimo per una condotta che in qualunque altro tempo sarebbe stata punita con la sferza, coi ceppi o con la morte. Non solo, ma i padroni arrivavano fino a cambiare posto coi loro schiavi, e li servivano a tavola, e non si preparava il pranzo per il padrone finché gli schiavi non avessero mangiato e bevuto a loro piacere. Questa inversione dei gradi veniva portata a tal punto che ogni casa si trasformava per qualche tempo in una piccola repubblica in cui le alte funzioni dello Stato erano tenute dagli schiavi che davano ordini e imponevano leggi come se fossero stati realmente investiti di tutte le dignità di console, pretore e giudice. Il simulacro di regalità, per godere il quale uomini liberi tiravano a sorte nella stessa epoca, rassomigliava a questa pallida immagine di potere accordata agli schiavi nei saturnali. Quello su cui cadeva la sorte aveva il titolo di re e imponeva degli ordini giocosi ai suoi temporanei soggetti. Poteva ordinare a uno di mescere il vino, a un altro di bere, a un terzo di cantare; a chi di ballare, a chi di parlar male di se stesso, a chi di portare sulle spalle una flautista in giro per la casa, e così via.

Ora, ricordandoci che la libertà permessa agli schiavi in questa festa passava per essere un'imitazione dello stato della società nell'epoca di Saturno e che in generale i saturnali passavano per essere né più né meno che una restaurazione provvisoria del regno di quel felice monarca, siamo tentati di congetturare che il finto re che presiedeva ai divertimenti possa in origine aver rappresentato lo stesso Saturno. Questa congettura è fortemente confermata, se non addirittura stabilita, da un curiosissimo e interessante resoconto del modo in cui i saturnali vennero celebrati dai soldati romani accampati sul Danubio durante il regno di Massimiliano e di Diocleziano. Questo resoconto ci è conservato in una storia del martirio di san Dasio scoperta in un manoscritto greco della biblioteca di Parigi e pubblicata da Franz Cumont. Due più brevi descrizioni dello stesso avvenimento e della relativa usanza sono contenute in due manoscritti di Milano e di Berlino; una di esse ha già visto la luce in un oscuro volume stampato a Urbino nel 1727, ma sembra che la sua importanza per la storia della religione romana, tanto antica che moderna, sia stata sempre trascurata, finché il Cumont attirò l'attenzione degli studiosi su tutti e tre questi documenti, pubblicandoli insieme qualche anno fa. Secondo questi racconti, che hanno tutta l'aria di essere autentici e dei quali il più lungo è probabilmente basato su documenti ufficiali, i soldati romani a Durostorum nella bassa Mesia celebravano ogni anno i saturnali nella seguente maniera. Tre giorni prima della festa tiravano a sorte tra di loro per scegliere un uomo giovane e bello che veniva vestito con abiti regali per assomigliare a Saturno. Così ornato e seguito da una moltitudine di soldati andava attorno in pubblico con piena libertà di dar libero sfogo a tutte le sue passioni e di prendersi tutti i piaceri, fossero anche i più bassi e i più vergognosi. Ma se il suo regno era gioioso era anche breve e finiva tragicamente; spirati i trenta giorni, giunti alla festa di Saturno stesso, si tagliava la gola con le proprie mani sull'altare del dio che impersonava. Nell'anno 303 dell'era nostra la sorte cadde sopra il soldato cristiano Dasio ed egli si rifiutò di far la parte del dio pagano e di macchiare i suoi ultimi giorni con un'orgia. Le minacce e i ragionamenti del suo capo, l'ufficiale Basso, non servirono a scuotere la sua fermezza ed egli venne di conseguenza decapitato, come il martirologio cristiano riferisce con ogni dettaglio, a Durostorum dal soldato Giovanni il venerdi 20 novembre, 24° giorno dalla luna, all'ora quarta.

Da quando il Cumont ha pubblicato questo racconto il carattere storico della festa, che era stato messo in dubbio o negato, ha ricevuto una forte conferma da un'altra interessante scoperta. Nella cripta della cattedrale che domina il promontorio di Ancona si conserva tra altre notevoli antichità un sarcofago di marmo bianco con un 'iscrizione in greco in caratteri del tempo di Giustiniano che dice: "Qui giace il santo martire Dasio, portato da Durostorum". Questo sarcofago fu trasportato nella cripta della cattedrale nel 1848 dalla chiesa di S. Pellegrino, o degli Scalzi, sotto il cui altar maggiore, come apprendiamo da un'iscrizione latina inserita nel muro, le ossa del martire riposano ancora insieme a quelle di altri due santi. Quanto tempo sia stato il sarcofago nella chiesa di S. Pellegrino noi non sappiamo; ma è certo che vi stava nel 1650. Possiamo supporre che le reliquie del santo fossero trasportate ad Ancona per metterle al sicuro durante quei secoli turbolenti che seguirono il suo martirio, quando la Mesia venne occupata e devastata da successive orde di invasori barbari. In ogni modo sembra sicuro, in base alle prove indipendenti e scambievolmente confermantisi del martirologio e dei monumenti, che Dasio non fu un santo mitico ma un uomo reale che soffrì la morte per la sua fede a Durostorum in uno dei primi secoli dell'era cristiana. Trovando cosi confermato il racconto dell'anonimo agiografo per quel che riguarda il fatto principale, cioè il martirio di san Dasio, possiamo ragionevolmente accettarne la testimonianza riguardo al modo e alla causa del martirio tanto più che la narrazione è precisa, circostanziata e completamente scevra da ogni elemento miracoloso. Ne concludo di conseguenza che il resoconto che egli ci dà della celebrazione dei saturnali tra i soldati romani sia interamente degno di fede.

Questo resoconto getta una nuova e ben triste luce sopra la carica del re dei saturnali, l'antico signore della follia che presiedeva ai divertimenti invernali della Roma di Orazio e di Tacito. La storia di san Dasio sembra provare che la sua missione non era stata sempre quella di un semplice arlecchino o di un buffone, la cui unica occupazione era di tenere allegra la gente e di mantenere alta e sfrenata la festa, mentre il fuoco scoppiettava gettando i suoi bagliori dal focolare, e le strade formicolavano di gente festante e lungi appariva a settentrione, nella limpida aria invernale, il Soratte con la sua corona di nevi. Quale contrasto fra questo comico monarca della gaia e raffinata metropoli e il suo lugubre fratello nel rude accampamento sul Danubio. Pensando tuttavia al lungo corteo di figure corrispondenti, comiche e in pari tempo tragiche, che portando in fronte finte corone ed avvolte in manti regali, in altre epoche e in altre terre, hanno rappresentato per brevi ore o per pochi giorni la loro commedia di re e son poi cadute anzi tempo per violenta morte, possiamo appena dubitare che nel re dei saturnali a Roma, quale ci viene descritto dagli scrittori classici, sia da riconoscere una copia pallida ed effeminata di quello originale, le cui rudi caratteristiche ci sono state per fortuna conservate dall'oscuro autore del Martirio di san Dasio. In altre parole, il resoconto dell'agiografo sui saturnali concorda cosi strettamente coi resoconti di simili riti, eseguiti altrove e che egli non poteva assolutamente conoscere, che la sostanziale accuratezza della sua descrizione si può considerare fuor d'ogni dubbio. Inoltre, poiché l'usanza di mettere a morte un finto re quale rappresentante di un dio non può essere derivata dalla usanza di metterlo a presiedere un'orgia festiva, mentre può essere benissimo accaduto il contrario, abbiamo ogni ragione per credere che in una più antica e più barbara età fosse uso universale nell'antica Italia, dovunque fiorisse il culto di Saturno, di scegliere un uomo perché facesse la parte e godesse per breve periodo tutti i tradizionali privilegi di Saturno e poi morisse, sia di sua mano che per mano altrui, di un pugnale, nel fuoco o sulla forca, per rappresentare il buon dio che dava la sua vita per il mondo. Nella stessa Roma e in altre grandi città, lo sviluppo della civiltà aveva probabilmente mitigato questo crudele costume molto tempo prima dell'età di Augusto e lo aveva trasformato in quella forma innocente che ci descrivono gli autori classici accennando di passaggio al festivo re dei saturnali. Ma in più remoti distretti l'antica sinistra pratica può aver a lungo sopravvissuto, e, anche se dopo l'unificazione d'Italia questa barbara usanza venne soppressa dal governo romano, la sua memoria dovette essere tramandata dai contadini e come ancora accade presso di noi con le forme più basse di superstizione, dovette tendere a presentare di tanto in tanto una recrudescenza del carattere primitivo, specialmente tra la rude soldatesca ai confini dell'Impero su cui la mano un tempo ferrea di Roma cominciava a rilassare la sua stretta.

E' stata spesso notata la rassomiglianza tra i saturnali antichi e il carnevale dell'Italia moderna; ma alla luce di tutti i fatti che abbiamo davanti possiamo ben domandarci se questa rassomiglianza non sia addirittura una identità. Abbiamo visto che in Italia, in Spagna e in Francia, ossia nei paesi in cui l'influenza di Roma è stata più profonda e duratura, un cospicuo carattere del carnevale è una burlesca figura che rappresenta questo periodo di feste e che, dopo una breve carriera di gloria e di dissipazioni, viene pubblicamente fucilata, bruciata o in altra maniera distrutta tra il simulato dolore del popolino o tra la sua gioia reale. Se la nostra idea del carnevale è corretta, questo grottesco personaggio non è altro che un diretto successore dell'antico re dei saturnali, il signore della festa, l'uomo vero che personificava Saturno e che quando la festa aveva termine era messo a morte in rappresentanza di lui. Il re della fava, all'Epifania, e il medioevale vescovo dei pazzi, l'abate o signore della follia, sono figure dello stesso ordine e possono avere avuto la stessa origine. Possiamo comunque concludere, e con molta probabilità, che se il re del bosco ad Aricia viveva e moriva come un 'incarnazione d'una divinità silvana, egli ebbe in tempi antichi un parallelo a Roma negli uomini che, ogni anno, venivano uccisi come rappresentanti del re Saturno, il dio del grano seminato e risorgente.