Divenire nulla

Una spina nella letteratura occidentale

parte prima

 Fabio Brotto  

brottof@libero.it

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... nessuno può pensare l'Essere senza pensare nello stesso tempo il nulla, né può pensare il Significato senza pensare la futilità, la vanità, l'insensatezza

H.Arendt

 

Ew'ge Vernichtung, nimm mich auf!

l'Olandese

 

…ils reconnaisent le vide et l’impuissance des créatures

Malebranche

 

 

 


 

Avvertenza: il mondo del nichilismo, il nostro, è il mondo dell’infondatezza. In esso le scelte si presentano tutte come arbitrarie. Può l’intelligenza critica penetrare questo mondo senza assumerne la caratteristica più intrinseca? Non credo. Io so di disegnare in questo scritto un piccolo percorso arbitrario, sono cosciente di tracciare un sentierucolo fra i milioni possibili. Nondimeno spero che questa serie di quarantuno passaggi di traccia in traccia, tra scrittori e poeti, appaia non del tutto priva di senso, manifestando così qualche baluginio di ciò che spetta al pensiero e alla scrittura, anche nell’epoca presente, anche nella sua scuola sofferente.

Seconda avvertenza: il mondo del nichilismo, il nostro postmoderno mondo, è il mondo delle parole, è la casa delle parole. Meglio: esso è a casa tra le parole, nella loro giungla, nella loro straripante sovrabbondanza, nel loro caos. Ma caos significa guerra, e il nostro è il mondo della guerra dei segni. Può uno scritto, anche brevissimo come questo, penetrarlo senza subirne il contagio? Non credo. Io so di disegnare in queste note una stradina pericolosa e pericolante. Ma il pericolo sarà minore quanto più il discorso sarà parsimonioso.

 

 


 

 VOCI DEL NULLA

 

 

 

Il convoglio rimase per tutto il giorno vicino al fiume e si mise in marcia al calar del sole.

Egòruška si mise di nuovo a giacere sul sacco. Il carro carico cigolava sordamente e traballava. Pantelèj camminava da un lato pestando i piedi, battendosi i fianchi, borbottando; come il giorno innanzi, nell’aria sussurrava la musica della steppa.

Egòruška giaceva supino con le braccia sotto la testa, guardando il cielo. Vide il tramonto accendersi e poi spegnersi; gli angeli custodi, ricoprendo l’orizzonte con le loro ali dorate, si preparavano al riposo: la giornata era trascorsa felicemente, una calma e benefica notte scendeva, ed essi potevano rimanere tranquilli nella propria dimora, in cielo… Egòruška vide la luce oscurarsi, a poco a poco, calare sulla terra la caligine notturna, accendersi una dopo l’altra le stelle. [1]

In poche pagine della grande letteratura si dipinge con la stessa asciutta poesia il mondo ancora sottomesso all’incanto, come in queste righe del grande racconto La steppa di Anton Cechov . Il lungo viaggio, il lento viaggio nella grande steppa ucraina del fanciullo Egòruška, mandato a studiare in una città, viaggio di iniziazione, dai molteplici significati, conosce questo intensissimo momento. Cullato dal movimento del carro, il fanciullo guarda il cielo: contempla, prima di assopirsi, le regolari mutazioni del cielo. Egli non è però ancora filosofo, e ai sogni della metafisica non è ancora giunto. Egli vede nei bagliori della volta eterea le ali degli angeli custodi. Non è scienziato. Egli non appartiene ancora al mondo moderno. Ma lo scrittore sì. Cento anni sono passati da quando Kant ha scritto le celeberrime prime righe della conclusione della Critica della ragion pratica, e il cielo stellato sopra di me non riempie più l’animo dell’uomo occidentale di ammirazione e venerazione, bensì:

Quando a lungo si guarda il cielo profondo, senza staccare gli occhi, non si sa perché i pensieri e l’anima si fondono nella coscienza della nostra solitudine. Ci si sente irrimediabilmente soli, e quanto si era prima considerato vicino, come se fosse cosa propria, diviene infinitamente lontano e senza più valore. Le stelle che guardano dal cielo già da migliaia di anni, lo stesso incomprensibile cielo e la caligine, indifferenti alla breve vita dell’uomo, quando si stia a faccia a faccia con essi e si cerchi di indagarne il senso, opprimono inesplicabilmente l’anima col loro silenzio; e viene in mente la solitudine che attende ciascuno di noi nella tomba, e l’essenza stessa della vita si presenta terribile, disperata.

Solitudine radicale, estraniazione dal cosmo, insensatezza, disperazione: quattro caratteri del modo di esistere nichilista. E’ ciò senza legami col disincanto operato dalla scienza moderna e con la rottura dello specchio tolemaico?

 

 


 

Due frasi di Hans Blumenberg mi si sono scolpite nella mente, durante la lettura del suo L’ansia si specchia sul fondo (Die Sorge geht über den Fluss) [2]: "La verità come suprema aspirazione, come bene sommo che nella nostra tradizione si identifica in un’ultima istanza con la divinità, è, come argomento, morta" ; e " Guardata dallo spazio la terra si mostra, se così si può dire, in un oceano di negatività: un’isola in mezzo al nulla. Ciò la rende visibile in un senso eminente: dolorosamente chiara" [3] . Spesso in studiosi di filosofia orientati all’idea del fallimento di ogni ricerca della certezza, nei negatori del senso del tutto, nei sottili indagatori della storia delle metafore, fiorisce un linguaggio deciso, apodittico, nato da scelte intellettuali le cui radici il lettore fatica a cogliere. Ma quelle due frasi dicono molto di ciò che è avvenuto nella nostra epoca, in cui il nichilismo ha trionfato.

 


 

Quante opere della grande letteratura degli ultimi due secoli possono essere elencati sotto questa rubrica: "eloquenti prese di coscienza dell’irrilevanza dell’uomo in un cosmo cieco e indifferente", che traggo da un passo di Una roccia per tuffarsi nell’Hudson di Henry Roth? [4] L’eroe autobiografico della seconda parte del ciclo Alla mercé di una brutale corrente, Ira Stigman, pronuncia tali parole riferendosi all’emozione (positiva per lui) suscitatagli nell’animo dall’incontro con il coraggioso ateismo di Bertrand Russell, ma esse ci appaiono come un’epigrafe conveniente a molta produzione letteraria moderna e contemporanea. Il rude stream del titolo mi sembra potentemente evocatore della più formidabile corrente che ha percorso - e tuttora percorre - la filosofia, la narrativa e la poesia, e più in generale la cultura dell’Occidente: la percezione, l’idea, talora l’incubo, della perdita inevitabile e totale di ogni cosa bella e dotata di valore; il vedere come tutto sfiorisca e cada infine nell’oblio e nel nulla, non compensato dai nuovi nascimenti; l’irrevocabilità che è nello svanire, nel passare di tutto. Percezione tragica del divenire: l’inesorato, l’inesorcizzabile. Rubando una parola a Elias Canetti, ho chiamato questo eminente fenomeno la spina del divenire, conficcata a grandi profondità nelle carni dell’Occidente.

 

 


 

 Sono Philip Marlowe e Marlow simili solo nel nome? Osservando i due personaggi in un primo momento si sarebbe portati a rispondere di sì. L’uno, l’eroe chandleriano, il prototipo dell’investigatore privato hard boiled, agisce molto, è agonista, e si muove tra individui tutti più o meno meschini e spregevoli, in una società corrotta dal denaro, che egli evidentemente giudica piuttosto schifosa. Moralismo di Marlowe, che consiste in un disgusto globale, che non sempre le generose dosi di whisky riescono a sopire. [5] L’altro, voce narrante e prima attento registratore di storie, non è attore, ma, potremmo dire, in qualche modo coscienza vuota di Conrad, utilizzato come espediente filtro. Alla domanda se non vi sia nulla in comune occorre rispondere che in realtà qualcosa c’è. Guardati da una distanza maggiore i due, al di là delle enormi differenze da tutti facilmente coglibili, appaiono legati da qualcosa di essenziale: non dispongono di fondamenti. Non può essere diversamente, in quanto né Chandler né Conrad possiedono certezze ancorate ad una visione metafisica della realtà. Infiniti altri personaggi di infiniti autori degli ultimi due secoli condividono questa incertezza, o forse meglio questa indeterminazione metafisica. Sono tutti assimilabili ad Axel Heyst, il protagonista di Vittoria , forse il più profondo dei romanzi di Conrad, il quale nella sua sostanza umbratile, nella sua raffinata inconsistenza, nella sua incapacità di fronteggiare adeguatamente quei demoni flaccidi che vengono a rovinargli l’esistenza, è determinato dall’autore a significare l’essersi aperto del mondo all’insensatezza, al vuoto, al nulla.

 


 

 Gli scrittori appaiono quasi tutti profondamente convinti (ma su che piano? certo su quello psicologico, soggettivo, sul piano di una intuizione che salta a piè pari il confronto con qualsiasi tipo di pensiero forte, che elude la fatica del concetto) dei seguenti principî: 1. della relatività assoluta, che significa l’essere relativo di qualsiasi fenomeno o cosa o esperienza o giudizio ecc., non potendosi trovare alcunché di universalmente valido, stabile, vero, ecc. (il principio è chiaramente formulato nello Zibaldone leopardiano, che peraltro non eludeva la fatica di cui sopra); 2. dell’idea che tutto finisce nel nulla; e quindi che 3. nulla è realmente dotato di senso di per sé, in quanto il senso è attribuito dall’uomo, che nel suo essere a propria volta relativo non può conferire assolutezza e indefettibilità ad altro da sé. L’unica affermazione a suo modo assoluta che si possa dare è dunque quella della relatività di ogni cosa. Conseguenza importante sul piano della letteratura è quella della universale disponibilità del personaggio-uomo, già posta in luce da Giacomo Debenedetti a proposito di Mattia Pascal: privo di una sua solida essenza, e di una forma corrispondente, cioè in-essenziale, il personaggio è pronto a ricevere qualsiasi contenuto socialmente prodotto, e a con-formarsi ad esso, la sua individualità essendo priva di fondamento, senza radici metafisiche. Mattia Pascal, Axel Heyst, l’Ulrich di Musil (inutile citarne altri, si riempirebbero alcune pagine solo coi loro nomi) condividono un carattere di fondo: quello del riconoscimento, della presa d’atto talora inconscia, del proprio vuoto, della propria impotenza. Si potrà forse obiettare che l’eroe di Chandler risolve i suoi casi, che in fine è vittorioso, che non è affatto un impotente. Ma in realtà egli è del tutto impotente sul piano della propria realizzazione esistentiva, e su quello del cambiamento di una struttura sociale che il suo agire non intacca per nulla. E’ anche lui, nella sua sostanza umana, un fallito, come quasi tutti i grandi personaggi della grande letteratura.

 


 

Le antimetafisiche materialiste hanno storicamente dimostrato l’incapacità di dare fondamento all’identità dell’umano. Il Dio è morto nietzscheano, cioè l’affermazione dell’illusorietà di ogni universo di valori trascendente, apre la strada al definitivo crollo di ogni residuo delle metafisiche tradizionali, per cui si può provare solo una adorniana solidarietà, ma anche alla dissoluzione, in realtà, di quelle anti-metafisiche che sono propriamente, come è noto, delle metafisiche capovolte.

Il nichilismo della nostra epoca è una galassia di ideologismi, visioni del mondo, posizioni esistentive scarsamente riflesse, ecc., che hanno in comune l’assenza di un fondamento metafisico riconosciuto, l’arbitrarietà del senso individualmente scelto per la propria vita, la fungibilità dei valori, l’ipertrofia dell’io congiunta alla sua radicale debolezza. Nel suo insieme, anche la narrativa italiana degli ultimi vent’anni del Novecento può senza dubbio essere detta nichilista. Mi pare che la nebbia che ingoia ogni cosa nella Chimera di Sebastiano Vassalli (che comincia, mirabilmente, così: Dalle finestre di questa casa si vede il nulla) sia una delle più chiare cifre dell’ottundimento dell’intellectus di fronte alla alienazione universale indotta dal principale agente del nichilismo contemporaneo, cioè dall’universalmente glorificato Dio del presente: il Mercato. Cui Vassalli peraltro, come tutti i romanzieri che scrivono un libro all’anno, si dimostra, forse proprio in forza dell’unione tra il suo nichilismo e le sue indubbie capacità stilistiche e inventive, assai sensibile. Il Mercato ha la pretesa di riempire tutti i vuoti, di dar forza a tutte le impotenze, e soprattutto di togliere ciò che invece non fa, suo malgrado, che rafforzare: l’angoscia del divenire.[6] Del resto, se non sanno, gli umani hanno bisogno di credere. Di loro si può dire ciò che Cechov fa dire ad un suo personaggio dei Russi: "se l’uomo non crede in Dio, vuol dire che crede in qualche altra cosa". [7] Pure, il laico mercato, che convive con quello sacralizzato e reso assoluto, è una condizione ineludibile della vita attuale. Le forze che si sono radicalmente opposte al libero dispiegarsi del marketplace in questo secolo hanno dato luogo ai due mostruosi totalitarismi, il comunista e il nazionalsocialista, e alla loro folle logica del capro espiatorio. Il mercato è invece la libera circolazione del desiderio, che differisce continuamente la violenza scaturente dal risentimento, e non può esistere democrazia senza di esso.

 


 

Gli uomini vuoti (1925) di T.S. Eliot (la cui Waste land termina, come tutti sanno, con Datta. Dayadhvam. Damyata.\ Shantih shantih shantih [8] - aveva studiato sanscrito ad Harvard nel 1911-13) portano come epigrafe la breve frase che segna la fine del protagonista di Cuore di tenebra di J. Conrad: "Mistah Kurtz - he dead" . Chi conosca il significato di parabola del breve e densissimo romanzo dello scrittore polacco-inglese non faticherà a cogliere il senso di tale epigrafe, leggendo i seguenti versi di The hollow men. [9]

 

Between the idea

And the reality

Between the motion

And the act

Falls the Shadow

Between the conception

And the creation

Between the emotion

And the response

Falls the Shadow

Between the desire

And the spasm

Between the potency

And the existence

Between the essence

And the descent

Falls the Shadow

 

L'Ombra, infatti, che si inserisce tra l'idea e la realtà, tra la potenza e l'esistenza ecc., è un evento di radicale interruzione, di cancellazione definitiva dei significati su cui l'Occidente si è costruito, e in cui l'uomo occidentale trovava la ragione del proprio modo di essere, il senso della sua vita. Non a caso, nella conclusione di questa poesia, ma a ragion veduta e perfettamente spiegata, Eliot proclama tre volte : "This is the way the world ends", aggiungendo, all'ultimo verso: "Not with a bang but with a whimper", a indicare lo spegnimento nella nullificante insensatezza. 

Ancora Eliot, nei Four quartets (1959), ritorna alla descrizione dell'esperienza moderna del nulla, espressa in termini di tenebra.

O dark dark dark. They all go into the dark

The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant,

The captains, merchant bankers, eminent men of letters,

The generous patrons of art, the statesmen and the rulers

Distinguished civil servants, chairmen of many comittees,

Industrial lords and petty contractors, all go into the dark,

And dark the Sun and Moon, and the Almanach de Gotha,

And the Stock Exchange Gazette, the Directory of Directors,

And cold the sense and lost the motive of action.

An we all go with them, into the silent funeral,

Nobody's funeral, for there is no one to bury.

Quest'ultimo testo è citato in un saggio di teologia di Bernhard Welte del 1979, tradotto in italiano nel 1983 da G. Penzo e V.P. Kirsch, dal bel titolo La luce del nulla (Das Licht des Nichts). Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa. [10] Il teologo tedesco si impegna nel tentativo di tradurre l'esperienza di Dio in un linguaggio non-ontologico, trovando nella costellazione del nulla i termini più appropriati per dire Dio, o meglio per arrivare alle soglie di un discorso su Dio come Nulla: quindi la luce che illuminerebbe la possibilità di una nuova esperienza religiosa. E di un contatto inter-religioso (ad esempio col Buddismo). E' un tentativo che presenta un certo fascino, ma anche, per restare nella metaforica della luce, dei buchi neri teologici non irrilevanti. Il suo merito fondamentale mi pare quello di dare il nichilismo occidentale come una realtà ineludibile, con la quale ogni teologia che voglia essere seria deve fare i conti. E conti molto duri. [11]

La tesi di Welte si riassume in queste poche righe:

"... Dove Dio è stato colto in determinate immagini e in determinati concetti, e dove simili immagini e concetti si consolidano sempre di più per la comunità storica dei credenti, là aumenta il pericolo che essi formino pure delle barriere che dividono gli uomini da coloro che vivono in tradizioni religiose diverse. Dove invece le immagini e i concetti si dissolvono nel silenzio puro del nulla [c. mio], là si manifesta che questo silenzio, questo nulla è perfettamente trasparente, e non mantiene più alcuna barriera tra gli uomini e tra le loro differenti tradizioni". [12] 

 

 


 

Attento alla poesia novecentesca, Welte ne cita una delle cime più abissali, in cui il massimo dell'enigma si dà nella più pura trasparenza, la Mandorla di Paul Celan, che si trova in Die Niemandsrose (1964).

Nella mandorla - che cosa sta nella mandorla?

Il nulla. Il nulla sta nella mandorla.

Esso sta e sta. [13]

 

Qui si accostano due termini che nella tradizione metafisica occidentale appaiono inconciliabili, anzi non rapportabili l'uno all'altro: il nulla e lo stare. Che è ben più del semplice essere del nulla, poiché significa la permanenza, l'indefettibilità, la solidità.

 


 Nel suo saggio La caduta, la noia, che compare in Leopardi e il pensiero moderno, [14] alla nota n.8, Cesare Galimberti definisce la Ginestra "disperata ed estatica, materialistica e metafisica, avversa agli scialbi lumi delle fedi e delle scienze umane ma incantata dalla luce del nulla" [c.mio]. Il critico precisa di aver ricavato l'espressione dal testo di Welte. Nella raccolta citata si legge anche un penetrante saggio di G. Scalia dal titolo Leopardi e la "cognizione del nulla", che porta in epigrafe i versi di Celan che conosciamo, e subito dopo la nota leopardiana dallo Zibaldone (4526): "Due verità gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte". Leopardi, afferma Scalia, "ha pensato e portato al linguaggio, già dall'inizio, la cognizione del nulla come il nucleo generatore e permanente a cui ha dato i nomi equipollenti di natura, fato, (o fati), dèi, numi, necessità, Arimane, ecc." [15] E, sotto: "Il principio del nulla, come identità originaria di essere e non essere, è ciò che toglie l'illusione di positività, stabilità [c. mio], permanenza, persistenza all’‘essere’ della tradizione filosofica occidentale". [16] E poiché "nel pensiero poetico, in cui è da riconoscere un pensiero ‘altro’ dalla ragione, l'unità originaria di essere e nulla è detta nella figura del passare, Scalia attribuisce a Leopardi un conoscere che ha il carattere della sapienza tragica. "Pathei mathos, come in Eschilo".

 


 

Eschilo è associato a Leopardi in una scienza del tragico [17] disperatamente metafisica, quella di Carlo Michelstaedter, [18] che ai due (e ad altri) fa dire la stessa cosa, nella prefazione a La persuasione e la rettorica: "... lo dissero Eschilo e Sofocle e Simonide, e agli Italiani lo proclamò Petrarca trionfalmente, lo ripeté con dolore Leopardi..." [19] Nel Dialogo della salute si leggono questi versi:

Niente da aspettare

niente da temere

niente da chiedere - e tutto dare

non andare

ma permanere.-

Non c'è premio - non c'è posa.

La vita è tutta una dura cosa.

 

Michelstaedter li glossa: "Lo intendi? La via non è più via poiché le vie e i modi sono l'eterno fluire delle cose che sono e non sono"[c. mio]. [20]

 

 


  

Emanuele Severino, nel suo Il nulla e la poesia, associa strettamente, contrapponendoli, Eschilo e Leopardi. Il primo, sul quale l’autore ha scritto una sua precedente opera, Il giogo, "... per la prima volta nella storia dell'Occidente, pensa in modo esplicito che la verità è il rimedio del dolore". Leopardi, di contro, "è il primo pensatore dell'età della tecnica e insieme il pensatore del compimento di questa età. Non solo pensa per la prima volta in modo esplicito ... che la ‘verità’ non può essere il rimedio del ‘dolore’, ma pensa la condizione dell'uomo quale dovrà apparire al compimento del tentativo di porre la scienza e la tecnica come rimedio del ‘dolore’,". [21] Il fuoco, immagine dell’annientante divenire, unisce la scena iniziale dell'Agamennone a quella della Ginestra, dove il magma incandescente e l'indurata lava sono, secondo Severino, figure del nulla. Ma le costellazioni divine del kosmos di Eschilo, la cui contemplazione trasferisce nell'uomo l'ordine della pace, sono nel moderno Leopardi gli ammassi globulari di un universo insensato e dannato all'annientamento, e non però da una potenza trascendente cui l'uomo possa attribuire un nome. E mentre "per l'intera tradizione filosofica il rimedio contro l'angoscia dell'annientamento degli essenti è la conoscenza vera (immutabile) dell'Essere immutabile ed eterno", Severino sostiene che "per la prima volta nella cultura occidentale, il pensiero di Leopardi afferma consapevolmente, da un lato, che il divenire degli essenti (il loro uscire dal nulla e ritornarvi) implica necessariamente l'inesistenza di ogni Essere immutabile ed eterno; e, dall'altro, che il rimedio contro l'angoscia provocata dalla visione del nulla è l'intensità di questa visione". [22]

 


 

La relatività di ogni fenomeno, la mancanza di un fondamento assoluto del senso e del valore, genera dunque un'angoscia diffusa, che avvince e vince tutti coloro che non possiedono il genio dell'intensità.

Scrive Sergio Quinzio ne La croce e il nulla: [23] "La notte del nichilismo, in realtà, è una notte tragica, e viene falsificata, scambiandola per un giorno luminoso, quando ne viene, in un modo o nell'altro, elusa la tragicità. La tragedia sta nel fatto che, per l'uomo contemporaneo, l'assoluto è inattingibile e, insieme, il relativo è invivibile. Due pazzie sono veramente profetiche: quella di Hölderlin, che non poté attingere l'assoluto, o che solo così poté attingerlo, e quella di Nietzsche, che non poté vivere, o solo così poté vivere il relativo". Ma la relatività trionfa oggi in tutta la letteratura. Dice lo stesso Quinzio: "I libri più intelligenti oggi sono mosaici o puzzle costruiti con citazioni di citazioni e interpretazioni di interpretazioni; i verbi non hanno per soggetto un uomo, un animale, una cosa, ma una complicata frase irta di termini astratti, ciascuno dei quali può essere assunto secondo infinite accezioni e avrebbe bisogno di interminabili precisazioni, qualora esistesse ancora la speranza di un linguaggio capace di pervenire al significato. Non si pensano cose ma pensieri di pensieri, il discorso si svolge attraverso la mediazione inconcludibile di schemi e controfigure, in un cerchio dal raggio infinito. Le prospettive più stimolanti, ma stimolanti al nulla, sono i fascinosi ponti che si tenta di gettare tra un linguaggio e l'altro". [24]

 


 Poteva la letteratura occidentale giungere ad altro approdo? Il razionalismo scatenato può infatti portare con sé soltanto un relativismo assoluto, perché in verità in esso si identifica. Come scrive Miguel de Unamuno in Del sentimento tragico della vita: "il razionale, in effetti, non è altro che il relazionale; la ragione si limita a porre in relazione elementi irrazionali. La matematica è l'unica scienza perfetta in quanto somma, sottrae, moltiplica e divide numeri, che però non sono cose reali e concrete; e proprio in quanto è la più formale delle scienze, è l'unica perfetta. Chi è in grado di estrarre la radice cubica di questo frassino?" [25] L'influsso di Leopardi è evidente in alcune affermazioni del tumultuoso filosofo spagnolo: "Da qualunque aspetto si consideri la cosa, risulta sempre che la ragione si pone di fronte al nostro anelito di immortalità personale, e lo contraddice. Perché in realtà la ragione è nemica della vita (...) Tende alla morte come la memoria alla stabilità (...) L'identità, che è la morte, è l'aspirazione dell'intelletto". [26]


Karl Jaspers, riflettendo sulla figura di Amleto, il grande eroe della rinuncia all'azione, che apre la Modernità, alla domanda se si possa vivere nella verità risponde: "L'energia vitale nasce dalla cecità, dalla fede nel mito e nei suoi surrogati, dall'illusione di sapere, dalla mancanza di curiosità filosofica, dal fecondo terreno delle falsità ben circoscritte. (...) La verità, quando la si vede nuda, paralizza". [27] Verità come Gorgone. E cita anch'egli Nietzsche e Hölderlin. Il primo perché "capisce che la verità non è incorporabile, che anzi l'errore è necessario (vale a dire in rapporto alle verità fondamentali, che sono, a volte, i presupposti della nostra esistenza)". Il secondo perché "vuole che Empedocle si macchi di una gravissima colpa per aver voluto diffondere tra il popolo la verità totale. E' l'eterna domanda: è inevitabile che la verità porti l'uomo alla morte? La verità è forse la morte?" [28] 

 


L'esito relativistico del razionalismo ha tuttavia radici ben salde nell'antico. Scrive Theodor W. Adorno: "Ogni psicologia, a cominciare da quella di Protagora, esaltando l'uomo con l'affermazione che egli è misura di tutte le cose, ha fatto di lui, nello stesso tempo, l'oggetto, il materiale dell'analisi, e, una volta collocatolo tra le cose, lo ha assegnato alla loro nullità [c. mio]. La negazione della verità oggettiva attraverso il ricorso al soggetto include la negazione di quest'ultimo: non resta più nessuna misura per la misura di tutte le cose, che cade in balia della contingenza e si trasforma in falsità". [29]  

Il frequente ricorso, da parte di molti letterati novecenteschi, alla psicoanalisi segna l'eclissi di ogni capacità di afferrare la verità sostanziale. Quella scienza infatti "revoca la personalità come menzogna vitale, come la razionalizzazione suprema, che tiene insieme le innumerevoli razionalizzazioni mercé le quali l'individuo opera la rinuncia ai propri impulsi e si adatta al principio di realtà. Ma nello stesso tempo, in questa stessa dimostrazione, essa conferma all'uomo il suo non essere". [30]

 


Come meravigliarsi se il nichilismo relativistico attacca la sostanza stessa del tempo? "La vita umana si riduce a un istante non già perché sopprima e conservi in sé la durata, ma perché cade in balìa del nulla, e si ridesta alla coscienza della sua vanità di fronte alla cattiva infinità del tempo stesso". [31] Grazie alla scienza moderna e alla tecnica, "nel ticchettìo fragoroso dell'orologio si percepisce, per così dire, lo scherno degli anni luce per la breve durata della nostra esistenza".[32] Dunque il trionfo del divenire, che in Occidente si costituisce come l'unica verità, porta all'annientamento del tempo: il triumphus temporis non può che essere già in se stesso la negazione della sostanzialità del tempo, e con essa la fine della parola.

 

Il fut un temps où les ombres

à leur place véritable

n' obscurcissaient pas mes fables.

Mon coeur donnait sa lumière.

. . .

Mais maintenant le temps se désagrège

comme sous mille neiges;

plus je vais et je viens,

moins je suis sur de rien. [33]

 

Le temps se désagrège, scrive Supervielle. Il tempo della tradizione è ormai radicalmente pervertito, oggi, in cui nelle società amministrate si forniscono solo verità amministrate. Questo, se ha ragione Luciano Baioni, è il significato del famoso racconto di Kafka Il messaggio dell’imperatore. [34] E forse il Prometheus è in tutta la narrativa del Novecento il luogo in cui la problematica tensione tra poesia e verità raggiunge un climax di enigmaticità. Gli enigmi amano la pietra. E Prometeo che si fonde con la roccia, e sparisce, per rimanere solo nella leggenda dice forse "che la verità, anche se è irraggiungibile, è sicuramente presente in qualche luogo del mondo". [35]

 


Scrive Max Horkheimer: "Gli uomini sono muti, anche se apparentemente parlano e parlano. Ma si dimentica troppo facilmente che il linguaggio è morto perché l'individuo che parla all'altro non ha più nulla da dire come singolo individuo ... ossia è impotente, non può far nulla, non fa nulla, non conta nulla". [36] E che ne è di chi - comunque - parla? Anche il parlare del filosofo è sospetto. "Che il filosofare parlato e persino scritto - per quanto profondo o acuto possa essere - suoni sempre un poco sciocco, è cosa evidente (...). Quando si tratta della verità, solo il silenzio salvaguarda l'autocontrollo, ogni parola è lamento prolisso, sempre inopportuno". [37] Questa crisi della parola è presente in qualche modo anche a Leszek Kolakowski, che inizia così la sua opera Orrore metafisico: "Un filosofo moderno che non abbia mai provato l'esperienza di sentirsi un ciarlatano è uno spirito così misero che sicuramente il suo lavoro non varrà la pena di essere letto". [38]

 


Sapienza di Sileno.

Josy Eisemberg ed Elie Wiesel, nel loro teso dialogo-commento sul libro di Giobbe, dopo aver citato il celebre versetto di Qoelet (4, 2) "E più felici ancora di quelli che sono morti sono coloro che non sono mai nati", affrontano il passo in cui Giobbe invoca per sé il non-essere (Giobbe, 3, 13-26). Ove si legge, tra l'altro: "Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più d'un tesoro, che godono alla vista d'un tumulo, gioiscono se possono trovare una tomba...?". Per i due rabbini la morte non è oggetto di romantica fascinazione, ma l'ultima prova. Dice Wiesel: "Come un'ultima prova, sì... e questo ci allontana dal lirismo. Ma io capisco molto bene che possa esservi una specie di bellezza nel cantare la morte. Il romanticismo che altro è se non il fascino della morte?" [39]

Il grande scrittore ebreo chiama in causa Unamuno, che durante la guerra di Spagna, ricevendo all'Università di Salamanca il generale falangista autore della celebre espressione viva la morte!, gli disse: "Lei è un imbecille! (...) Sappia che nel luogo in cui si trova simili discorsi non hanno valore: qui osserviamo solo il culto della conoscenza, il che significa solo il culto della vita". Non si tratta, ovviamente, per Unamuno, di una conoscenza di tipo razionalistico. E tuttavia la sua nobile proclamazione non sembra appartenere pienamente alla Modernità.

 

Note

  1.  In Racconti, Garzanti 1966, trad. E. Lo Gatto, pp.307-8.
  2. Il Mulino, Bologna 1989, p.63.
  3. Ivi, p.114.
  4. Trad. M. Papi, Garzanti 1999, p.292.
  5. Si può certo allargare alla condizione esistenziale di Marlowe ciò che egli dice dei poliziotti: "What would you expect them to be? Civilization had no meaning for them. All they saw of it was the failures, the dirt, the dregs, the aberrations and the disgust". The little sister, Penguin, Londra 1997, p.176. Forse queste stesse parole si potrebbero dire di molti artisti del Novecento.
  6. Einaudi, Torino 1993.
  7. Einaudi, Torino 1992, p.3.
  8. E questo per una ragione che sta nella realtà più tangibile dei processi socio-economici, nella contraddizione che essi vanamente cercano di nascondere: "Nelle condizioni moderne, non la distruzione, ma la conservazione appare come una rovina, perché la durata degli oggetti conservati è il maggiore impedimento al processo di ricambio, la cui costante accelerazione è la sola costante che rimanga valida quando tale processo abbia luogo". H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1997, p.187. La radice di questa contraddizione sta nella natura stessa del razionalismo moderno, che concependo la ragione umana come l’assoluto, la sostituisce all’assoluto trascendente. Ne deriva una semiscienza incapace di distinguere il bene dal male. L’assunto volontaristico della ragione occidentale di perfezionare la realtà del mondo pone in oblio i dati costitutivi della finitudine dell’umano, nel suo originario legame alla trascendenza, e lo pone, paradossalmente, come auto-trascendentesi: da ciò la necessaria anarchia, ad esempio, della ricerca scientifica e delle sue applicazioni.
  9. Sosta durante un viaggio, op.cit, p. 137.
  10. La terra desolata, trad. A. Serpieri, Rizzoli 1982, p.126.
  11. T.S. Eliot, Poesie, con trad. di L. Berti, Guanda, Milano 1955, p. 105.
  12. Queriniana, Brescia, p. 35
  13. Più seriamente li fa, a mio avviso, L. Kolakowski nel suo saggio Orrore metafisico (Il Mulino, Bologna 1990). "L'orrore consiste in questo: se nulla esiste veramente tranne l'Assoluto, l'Assoluto è nulla; se nulla esiste veramente tranne me stesso, io sono nulla" (p. 26). Il libro di Kolakowski, tuttavia, non diversamente da quello di Welte, finisce in modo aperto: "E non è un sospetto plausibile che se ‘essere’ fosse senza scopo e l'universo privo di significato, noi non avremmo non solo mai raggiunto la capacità di immaginare in altro modo ma neanche la capacità di pensare precisamente questo: che ‘essere’ è senza scopo e l' universo privo di significato?" (p. 120). A Welte e Kolakowski si potrebbe affiancare, per un confronto, la prima tesi sul Dio non pensato esposta da A. Jäger in Dio. Dieci tesi, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 34 - 45.
  14. Jäger, op. cit., p. 54. Per un confronto con una prospettiva cristiano-buddista sui temi del nulla e del vuoto divini, si può vedere Donald Mitchell, Kenosi e nulla assoluto, Città Nuova, Roma 1993.
  15. Op.cit., p. 36.
  16. Feltrinelli, Milano 1989, p. 116.
  17. Op.cit., p. 223.
  18. Ivi, p. 224.
  19. Ha questo titolo l'importante saggio di P.Pieri (Cappelli, Bologna 1989) su C. Michelstaedter.
  20. La sola poesia di Michelstaedter che rechi un'epigrafe è Aprile (in Poesie, Adelphi, Milano 1987, p. 64), il cui tema è il divenire universale che comprende quello del soggetto poetante: "Ed ancor io così perennemente / e vivo e mi tramuto e mi dissolvo / e mentre assisto al mio dissolvimento / ad ogni istante soffro la mia morte". L'epigrafe è tolta dal Triumphus temporis di Petrarca, il primo poeta italiano del divenire: " Che più d'un giorno è la vita mortale? / Nubil' e brev' e freddo e pien di noia, / che po bella parer ma nulla vale" [c. mio].
  21. Adelphi, Milano 1982, p. 35.
  22. Adelphi, Milano 1988, p. 85.
  23. Rizzoli, Milano 1990, p. 28.
  24. Ivi, p. 148.
  25. Adelphi, Milano 1984, p. 148.
  26. Ivi, p. 198.
  27. SE, Milano 1989, p. 89.
  28. Ivi, p. 88.
  29. K. Jaspers, Del tragico, SE, Milano 1987, p. 52.
  30. Ibidem.
  31. T.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1979, pp. 64-65.
  32. Ibidem.
  33. Op. cit., p. 195.
  34. Ibidem.
  35. Ne Le nuage di J. Supervielle, in La favola del mondo, Guanda, Parma 1964, con la trad. di G. Jannini.
  36. Kafka: letteratura ed ebraismo. Einaudi, Torino 1984, p.170.
  37. Ivi, p. 226.
  38. M. Horkheimer, Taccuini, Marietti, Genova 1988, p. 23.
  39. Ivi, p. 9.