Quarto incontro con il diavolo
Fëodor Dostoevskij
Da I fratelli Karamazov, trad. A.Villa, Einaudi, Torino1993
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Io non sono dottore, ma sento ch'è arrivato il momento in cui è assolutamente necessario ch'io dia per lo meno qualche chiarimento al lettore sulla natura della malattia d'Ivan Fëdorovič. Anticipando sul corso degli avvenimenti, dirò soltanto una cosa: che egli si trovava, stasera, per l'appunto alla vigilia del delirio cerebrale, che finì con l'impossessarsi totalmente del suo organismo, da tanto mai tempo sconvolto, e tuttavia ostinatamente resistente al male. Del tutto ignaro di cose mediche, m'arrischio a supporre che egli, realmente, era forse riuscito, con un terribile sforzo di volontà, a procrastinare di qualche tempo l'accesso, immaginando (s'intende) di aver completamente soggiogato il male. Sapeva, egli, di non star bene; ma gli ripugnava, non voleva esser malato ora, mentre s'approssimavano quei fatali momenti della sua vita, in cui conveniva agire a viso aperto, dire le proprie cose francamente e recisamente, e soprattutto "giustificarsi di fronte a se stesso". Si era, del resto, recato una volta da quel dottore arrivato di fresco da Mosca, chiamato da Katerina Ivanovna per una di quelle sue fantasie, a cui ho già accennato sopra: e il dottore, ascoltatolo ed esaminatolo, aveva concluso ch'egli era affetto da una specie di perturbamento cerebrale, e non s'era meravigliato punto di certa confessione che l'altro, seppur con ripugnanza, s'era indotto a fargli. - Allucinazioni, nelle vostre condizioni, sono più che possibili, - aveva diagnosticato il dottore, - anche se bisognerebbe verificarle... In ogni modo, è necessario imprendere seriamente una cura, senza perdere un istante, o sarà peggio -. Ma Ivan Fëdorovič, una volta separatosi dal dottore, non seguì quel saggio consiglio e sdegnò di sottoporsi a una cura: "Finché la reggo, ecco qua, tiro avanti; quando cascherò giù, allora sarà un altro affare, e che mi curi pure chi vuole", decise con un gesto di noncuranza. E così, ora, stava lì seduto, sentendo confusamente egli stesso d'essere in preda al delirio, mentre, come s'è detto, ostinatamente tornava a sogguardare qualche cosa alla parete di fronte, sul divano. Là apparì a un tratto un uomo, Dio sa come entrato qui dentro, giacché nella stanza non c'era quando Ivan Fëdorovič , di ritorno da Smerdjakov, ci aveva posto piede.
Era costui un signore, o, per dir meglio, un tipo caratteristico di gentiluomo russo, non più giovane, qui frisait la cinquantaine (direbbero i francesi), con una brizzolatura non molto accentuata sui capelli scuri, piuttosto lunghi e ancor folti, e sulla barbetta tagliata a cuneo. Indossava una specie di giacca da casa color cannella, di fattura evidentemente eccellente, ma un po' troppo portata; confezionata, a occhio e croce, un tre anni prima, e ormai completamente fuori moda, sicché da un paio d'anni nessuna agiata persona di mondo ne portava di simili. La biancheria, la lunga cravatta a mo' di sciarpa; erano in tutto e per tutto, di quelle che portano tutti i gentiluomini eleganti; ma, a guardar da vicino, la biancheria era sporchetta, e l'ampia sciarpa era molto lisa. I calzoni dell'ospite, a quadretti, cadevano a pennello, ma erano, anch'essi, troppo chiari e direi troppo attillati, come ormai non si portavano più; allo stesso modo che il molle berretto di pelo bianco, che l'ospite s'era messo in capo troppo fuor di stagione. In una parola, si aveva la sensazione d'un'accuratezza alle prese con modestissime possibilità finanziarie. Veniva fatto di pensare che il gentiluomo appartenesse alla categoria degli oziosi ex possidenti, fioriti al tempo della servitù della gleba; uno che evidentemente avesse conosciuto il mondo e la buona società, che avesse, ai dí d'allora, avuto relazioni e magari le avesse mantenute fino ad oggi, ma assumendo insensibilmente, impoverito dalla vita allegra degli anni giovanili e dalla recente abolizione della servitù, certe maniere da parassita di classe, sempre in giro presso le buone vecchie conoscenze, che lo accolgon volentieri pel suo carattere affabile e duttile, e anche in vista del fatto che si tratta pur sempre d'un uomo distinto, che può addirittura far comodo tenere alla propria tavola, seppure, alla fin fine, in un posto modesto. Codesti parassiti, gentiluomini di carattere facile, capaci di raccontare storielle, di fare una partita a carte, e recisamente contrari a incarichi di qualsiasi genere, che si provi ad affidar loro, sono generalmente soli al mondo, siano scapoli, siano vedovi; o hanno anche dei bambini, ma i loro bambini sono infallibilmente allevati in qualche luogo lontano da loro, presso qualche zietta, che il gentiluomo nella buona società non menziona quasi mai, come vergognandosi un po' di una simile parentela. E a poco a poco egli si dimentica del tutto anche dei figliuoli, dai quali riceve ogni tanto, pel suo onomastico e per Natale, una letterina d'auguri, a cui alle volte anche lui risponde.
Non già che la fisionomia dell'ospite inatteso fosse benevola: ma era cedevole e pronta, secondo le circostanze, ad ogni amabile espressione. Orologio non ne portava, ma aveva un occhialino di tartaruga raccomandato a un cordoncino oscuro. Ivan Fëdorovič serbava un silenzio stizzoso, e non voleva incominciare a discorrere. L'ospite aspettava, e stava lŕ seduto proprio come il parassita ch'è sceso or ora dalla camera assegnatagli per prendere il tè in compagnia del padron di casa, ma in santa pace se ne sta zitto vedendo che il padrone ha da fare e, accigliato, riflette a qualche cosa: pronto, poi, a chiacchierare di qualsiasi piacevolezza, non appena il padrone sia disposto a incominciare. A un tratto il viso di lui espresse come un'improvvisa preoccupazione.
- Senti, - incominciò rivolgendosi a Ivan Fëdorovič, - mi scuserai, ti voglio soltanto ricordare una cosa: ecco, tu sei andato da Smerdjakov per sapere di Katerina Ivanovna, ma sei venuto via senz'aver saputo nulla di lei: probabilmente, te ne sei scordato...
- Ah, davvero! - sfuggi' d'improvviso a Ivan, e il suo viso si velò d'angoscia. - Davvero, me ne sono scordato... Ma ormai, non fa niente, ormai a domani, con tutto il resto! - mormorò fra sé.
- Ma tu, - stizzosamente si rivolse all'ospite, - ... debbo essere stato io, un momento fa, a ricordarmene, perché era di questo che mi struggevo d'angoscia! E ora, pel fatto che tu hai interloquito, dovrei credere che sei stato tu a suggerirmelo, e non che me ne sono rammentato da me?
- E tu non ci credere, - sorrise morbidamente il gentiluomo.
- Si può forse credere per forza? Tanto più che a credere non aiutano prove di nessuna specie, particolarmente prove materiali. Tommaso credette non perché vide Cristo risorto, ma perché aveva già il desiderio di credere. Pensa, per esempio, gli spiritisti... a me piacciono un monte... figurati un po', ritengono di riuscir utili alla fede, perché i diavoli dal mondo di là mostran loro i cornetti. "Questa è pur sempre una prova, per così dire, materiale, che esiste il mondo di là". Il mondo di là, e delle prove materiali di esso: ah che tipi! E, in fin dei conti, foss'anche dimostrato il diavolo, è proprio detto che sarebbe dimostrato Dio? Io voglio iscrivermi in una associazione idealistica, e sostenervi l'opposizione: "realista, in fondo, sì, ma non materialista, he-he!"
- Senti, - si levò a un tratto su dal tavolo Ivan Fëdorovič. - Io ora sto come in un delirio... già, non dev'essere che un delirio... inventa quante trappole vuoi, che non me n'importa niente! Non ci riuscirai a farmi andar sulle furie, come l'ultima volta. Ho solo come un senso di vergogna... Voglio camminar per la stanza... A volte, non ti vedo, e neppur odo la voce tua, come l'ultima volta; ma sempre indovino quel che macini, perché son io, son io che parlo, e non tu! Soltanto, non saprei se dormivo l'ultima volta, o ti ho visto sveglio... Ora inzuppo l'asciugamano nell'acqua fredda e me lo applico in testa, e vedrai che tu andrai in fumo.
Ivan Fëdorovič andň
nel cantone, prese l'asciugamano, fece come aveva detto, e coll'asciugamano bagnato sul capo si mise ad andar su e giù per la stanza.- Mi piace che, tra noi, ci siamo subito dati del tu, - azzardò l'ospite.
Stupido, scoppiò a ridere Ivan, - proprio del voi, proprio, mi metterò a darti! Io ora mi sento allegro; se non mi facessero male le tempie... e questa nuca... Fammi soltanto il piacere di non metterti a filosofeggiare, come l'ultima volta. Se non puoi levarti dai piedi, almeno inventa qualche cosa allegra! Chiacchiera: tu sei un parassita, e dunque chiacchiera. Mi si sta addensando intorno uno di quegl'incubi! Ma dite non ho paura. Io riuscirò a dominarti. Non mi porteranno al manicomio!
- C'est charmant: un parassita! Sì, mi ci riconosco perfettamente. E chi sono io sulla terra, se non un parassita? A proposito: io ti sto ascoltando e provo una certa sorpresa: per Dio, si direbbe che tu a poco a poco cominci, ormai, a riconoscermi per qualcosa di reale, ben altro che una tua pura fantasia, come tenesti duro la volta scorsa...
- Neanche un istante ti riconosco per una verità reale! - gridò Ivan, addirittura furente. - Tu sei una menzogna, tu sei una mia malattia, tu sei un fantasma. Soltanto non so come fare a distruggerti, e vedo ch'è necessario che io per un po' ti sopporti. Tu sei una mia allucinazione. Sei un'incarnazione di me stesso, ma d'una parte sola di me stesso... dei miei pensieri, dei miei sentimenti, ma solo di quelli più ripugnanti e più stupidi. Da questo lato potresti anche riuscirmi interessante, se io avessi tempo di trattenermi con te...
- Permetti, permetti, ti voglio subito cogliere in fallo: poc'anzi, sotto quel lampione, quando ti sei gettato su Alëša gridandogli: "Tu l'hai saputo da lui! Come l'hai saputo, che lui viene a trovarmi?" tu, evidentemente, volevi far menzione di me. Dunque, un momentino, un attimo, si vede che tu hai pur creduto, hai creduto che io realmente esisto, - mollemente sorrise il gentiluomo.
- Sì, quella è stata una debolezza istintiva... ma non ch'io abbia potuto credere in te. Io non so se dormivo o ero desto, la volta scorsa. Forse, allora, ti vidi soltanto in sogno, e nient'affatto a occhi aperti...
- Ma perché con lui sei stato tanto duro, con Alëša? Egli è così caro, io son colpevole dinanzi a lui per via dello starec Zosima.
- Non parlare di Alëša! Come osi tu, lacchè! - di nuovo scoppiò a ridere Ivan.
- Insulti, ma ne ridi tu stesso: buon segno. Tu, del resto, oggi sei con me immensamente più affabile che la volta passata, e io ne capisco il motivo: codesta insigne decisione...
- Non parlar della decisione! - violentemente gridò Ivan.
- Comprendo, comprendo, c'est noble, c'est charmant: domani vai a difendere il fratello e offri te stesso in sacrificio... c'est chevaleresque!
- Taci, o ti piglio a calci!
- Da un certo punto di vista, ne sarò felice, perché allora il mio scopo sarebbe raggiunto: calci? vorrebbe dir che tu credi nel mio realismo, giacché non si dànno calci a un fantasma... Scherzi a parte: a me, vedi?, non importa un bel nulla: insultami pure, se vuoi; ma è pur sempre meglio essere un tantino più cortese, foss'anche con me. Invece, e stupido, e lacchè... che parole son queste, via!
- Insultando te, insulto me stesso! - ancora una volta Ivan scoppiò a ridere. - Tu sei me, sei me stesso, mutato solo di faccia! Tu non fai che dir quello ch'io già penso... e niente di nuovo sei capace di dirmi!
- Se m'accordo con te nei pensieri, ciò torna esclusivamente a mio onore, - proferì il gentiluomo con finezza e dignità.
- Soltanto i miei pensieri abietti mi porti innanzi, e soprattutto, stupidi. Tu sei stupido e volgare. Tu sei terribilmente stupido. No, io non voglio sopportarti! Ma come fare, come fare! - e i denti stridevano a Ivan.
- Amico mio, io voglio ad onta di tutto essere un gentiluomo, e voglio pure che mi si accolga come tale, - principiò l'ospite in un accesso d'ambizione caratteristica del parassita, e già d'avanzo deferente e benevola. - Io sono povero, ma... non dirò d'essere molto onesto, ma... comunemente, in società, si accetta come un assioma che io sia un angelo decaduto. Per Dio, non riesco a figurarmi in che modo ho potuto mai essere un angelo. Se mai lo fui, dev'essere stato tanto tempo fa, che non ricordarsene non è peccato. Ormai, tengo soltanto alla mia reputazione d'uomo distinto; e vivo, come si conviene, sforzandomi di riuscir simpatico. Amo gli uomini sinceramente: oh, m'hanno tanto calunniato! Qui, quando, alle volte, mi trapianto tra voi, la mia vita trascorre come qualcosa che esiste realmente, e questo m'è più gradito d'ogni altra cosa. Anch'io, sai, come te, soffro del fantastico: e perciò mi piace il vostro realismo terrestre. Qui da voi, tutto è così ben determinato, ridotto in formule, geometrizzato, mentre, da noi, nient'altro che equazioni indefinite! Io, quaggiù, vado in giro e medito. A me piace meditare. Eppoi, sulla terra, divento superstizioso... non ridere, ti prego: è proprio questo che mi piace, diventare superstizioso. Qui tra voi prendo tutte le vostre abitudini: figurati che mi sono avvezzato a frequentare il bagno pubblico, e là ci prendo un gusto a crogiolarmi in compagnia di mercanti e di popi! In cima ai miei sogni, sta questo: incarnarmi (ma definitivamente, irrevocabilmente) in qualche massiccia mercantessa, che passi il quintale, e credere a tutto ciò cui crede lei. Il mio ideale sarebbe entrare in una chiesa e accendere, oh ma di cuore, una candelina: vede Iddio se è così. Allora avrebbero fine le mie sofferenze. Perché sai, tra voi ho preso anche il gusto di sottopormi alle cure: a primavera è scoppiato il vaiolo, io ho preso e sono andato all'ospedale a vaccinarmi... e sapessi quel giorno come restai soddisfatto: sacrificai dieci rubli a pro dei fratelli slavi!... Ma tu non m'ascolti. Sai che oggi c'è in te qualcosa che proprio non va? - e il gentiluomo tacque un momento. - So che iersera sei andato da quel dottore... Bene, come va la salute? che t'ha detto, il dottore?
- Imbecille! - tagliò corto Ivan.
- E invece tu sei così intelligente! Di nuovo m' insulti? Vedi, non è mica perché me n'interessi, ma così... Padrone di non rispondermi. Ora mi son tornati questi reumatismi...
- Imbecille, - ripeté ancora Ivan.
- E dàgli a dir così: ma intanto io mi son preso un reumatismo tale, l'altr'anno, che me ne ricordo ancora.
- Il diavolo, un reumatismo?
- O perché no, se tratto tratto m'incarno! Io m'incarno, e accetto tutte le conseguenze. Satana sum et nihil humanum a me alienum puto.
- Come, come? Satana sum et nihil humanum... non è una stupidaggine, per un diavolo!
- Sono felice che, finalmente, sia soddisfatto.
- Ma questa, tu, non l'hai tolta a me! - si fermò Ivan di colpo, come folgorato. - Questa non m'è mai venuta in testa, è una cosa strana...
- C'est du nouveau, n'est-ce pas? Per questa volta, mi comporterò onestamente, e ti spiegherò ogni cosa. Ascolta: nei sogni, e specialmente negl'incubi, provengano da un disturbo di stomaco o da qualch'altra cosa, accade che all'uomo appariscano tali visioni artistiche, realtà tanto complesse e concrete, tali avvenimenti, o addirittura un mondo intero di avvenimenti collegati fra loro da un intreccio tale, ricchi di tante inaspettate particolarità, dalle tue più elevate manifestazioni all'ultimo bottoncino che hai sulla camicia, che (ti giuro) Lev Tolstoj non saprebbe comporre niente di simile; e invece codesti sogni appaiono spesso a persone tutt'altro che dotate di fantasia, alle persone le più ordinarie del mondo: impiegati, scrittori d'appendice, popi... Questo costituisce un vero e proprio problema: un ministro, per esempio, mi confessò lui stesso che tutte le sue migliori idee gli venivano mentre dormiva. Ebbene, così sta accadendo anche adesso. Ammettiamo ch'io sia una tua allucinazione: ma, appunto come in un incubo, dico cose originali, cose che a te non son mai venute in mente finora, di modo che faccio ben altro che ripetere semplicemente i tuoi pensieri, pur restando soltanto un tuo incubo e nulla più.
- Menti. Il tuo fine è proprio quello di farmi credere che esisti di per te, e non come un incubo mio: e ora mi vieni a confermare per primo, che tu sei un sogno.
- Amico caro, oggi ho prescelto un metodo speciale, che dopo ti spiegherò... Aspetta un momento: dov'ero restato? Ah sì, presi dunque un raffreddore: però non tra voi, stavo ancora là...
- Dove, là? Ma di', starai molto ancora qui con me? Non potresti andartene? - in una specie di disperazione gridò Ivan. Smise di camminare, si sedette sul divano, tornò ad appoggiarsi coi gomiti al tavolo, e si serrò fra le mani la testa. Si strappò di dosso l'asciugamano molle e lo gettò via stizzito: evidentemente, non giovava a nulla.
- Tu hai i nervi in disordine, - commentò il gentiluomo con aria di disinvolta indifferenza, ch'era però perfettamente amichevole. - Tu ti adiri con me perfino per questo, ch'io abbia potuto buscare un raffreddore: eppure, m'è capitato nella maniera più naturale. Quella volta, io m'affrettavo a una serata diplomatica in casa d'un'altissima dama pietroburghese, che mirava a diventar ministressa. Sai, frac, cravatta candida, guanti, non mi mancava nulla: soltanto, io mi trovavo ancora Dio sa dove, e per cader tra voi sulla terra mi stava innanzi un volo... si trattava, in fin dei conti, d'un battibaleno, ma sai, anche un raggio di luce impiega dal sole otto minuti buoni, e io, figurati un po', ero lì in frac e gilè aperto. Gli spiriti non van soggetti a congelarsi, ma io in quel momento m'ero già incarnato, e così... per dir tutto in una parola, commisi una sventataggine: mi lasciai venir giù... Ma cosa credi, in quegli spazi lassù, nell'etere, in quell'acque diffuse super firmamentum, ohi, c'è un tal gelo... cioè, che gelo! non si può più, quello, chiamare gelo: immagina un po' tu, centocinquanta gradi sotto zero! E' noto lo scherzo delle ragazze di campagna: a trenta gradi sotto zero, propongono a un novizio di leccare la scure; in un lampo la lingua si gela, e il bietolone facendo sangue si strappa la pelle; e questo, nota bene, a trenta gradi soltanto... A centocinquanta, ma lì basta (credo io) metterci un dito, sopra la scure, e addio quel dito: posto che si potesse, lì, trovare una scure...
- Ma si potrebbe, lì, trovare una scure? - distratto e disgustato lo interruppe Ivan a questo punto. Egli faceva resistenza con tutte le forze per non credere al proprio delirio, e non precipitare irrevocabilmente nella pazzia.
- Una scure? - domandò di rimando l'ospite meravigliato.
- Una scure, sì: che ne sarebbe, lì'? - con non so quale furiosa e accanita ostinazione gridò a un tratto Ivan Fëdorovič.
- Che ne sarebbe, in quegli spazi, d'una scure? Quelle idée! Se cadrà a una certa distanza, comincerà (penso) a girare intorno alla terra, senza saperne il perché, a guisa di satellite. Gli astronomi calcoleranno la levata e il tramonto della scure, Gatzuk la introdurrà nell'almanacco, ed ecco tutto.
- Tu sei stupido, sei terribilmente stupido! - ostinatamente ribatteva Ivan. - Menti in una maniera più intelligente, o io non ti darò più retta. Tu vorresti vincermi col realismo, darmi a credere che tu esisti, ma io non voglio credere che tu esisti! E non ci crederò!
- Ma io non mento affatto, è la pura verità: purtroppo, la verità è quasi sempre poco geniale. Sì, tu aspetti da me (lo vedo bene), qualcosa di grande, qualcosa, fors'anche, di sublime. Mi dispiace molto, perché io do soltanto ciò che posso...
- Non filosofeggiare, asino!
- Che filosofia vuoi che faccia, se ho perduto tutto il lato destro, e gemo e muggo! Ho consultato tutta la scienza medica: sanno diagnosticare ch'è un piacere, ti snocciolano la malattia da capo a fondo, così sulle dita, ma al dunque, guarirti non sanno mica. Mi capitò uno studentello esaltato: "Seppure", diceva, "morrete, in compenso saprete perfettamente di che male siete morto!" Eppoi quella maniera che hanno di mandarti dagli specialisti: noi, sa, non facciamo che la diagnosi, ma lei vada dal tale specialista, che lo farà subito guarire. Davvero, davvero, te lo dico io, è sparito il dottore d'una volta, che ti curava di qualunque malattia: ora non c'è più che specialisti, e badano a farsi la réclame su pei giornali. Ti s'ammala il naso? Ti spediscono a Parigi: là (t'assicurano) c'è uno specialista di fama europea per curare i nasi. Arrivi a Parigi, quello ti esamina il naso: io, dice, vi posso curare soltanto la narice destra, perché narici sinistre non le assumo in cura, questo non rientra nella mia specialità: ma, terminato qui, recatevi a Vienna, là c'è uno specialista apposta che finirà di curarvi la narice sinistra. Che ci vorresti fare? Son ricorso ai rimedi del volgo; un tedesco mezzo dottore m'ha consigliato di prender dei bagni strofinandomi con miele e sale. Io, unicamente per entrare in bagno una volta di più, ho fatto la prova: m'impiastricciai da capo a piedi, e nessun giovamento. Disperato scrissi al conte Maffei a Milano: mi mandò un libro e delle gocce, che Dio gli perdoni. Figurati un po': l'estratto di malto di Hoff fu la mia salvezza! Ne comprai per caso, ne bevvi mezza boccetta, e mi sarei messo a ballare: era come se una mano m'avesse tolto ogni male. Immediatamente pensai di far stampare sui giornali un ringraziamento: il senso della gratitudine mi parlava dentro; ed ecco che ne venne fuori tutt'un'altra storia: non ci fu redazione che me lo accettasse! "Sarebbe molto retrogrado", dicevano, "nessuno ci crederebbe: le diable n'existe point. Lei", mi consigliavano, "stampi anonimo". Sì, un bel ringraziamento, anonimo! Mi metto a scherzare coi redattori: "In Dio, al tempo nostro, sarebbe retrogrado credere, ma, vedete, io sono il diavolo, credere in me è permesso". "Comprendiamo", dicono quelli; "e chi non crede al diavolo? Ma tuttavia non è possibile, potrebbe nuocere all'indirizzo del giornale. In forma di scherzo, forse, acconsentireste?" Eh, come scherzo, pensai, sarebbe poco intelligente. E così non mi pubblicarono nulla. Ci credi? è una cosa che a me è rimasta in cuore. I miei migliori sentimenti, come ad esempio la gratitudine, mi sono formalmente vietati, unicamente a causa della mia posizione sociale.
- Daccapo sdruccioli nella filosofia? - con odio sibilò Ivan fra i denti.
- Me ne guardi Iddio; ma vedi, è impossibile, alle volte, non lamentarsi. Io sono un uomo calunniato. Ecco, tu mi ripeti ogni momento che sono stupido. Si vede bene che tu sei un giovane. L'intelligenza, amico mio, non è tutto! Io ho di natura un cuore buono e allegro, "e so perfino, sai, vari piccoli vaudevilles". Tu, a quanto pare, mi consideri proprio come un Chlestakov [Personaggio del Revisore di Gogol', al quale appartengono le parole immediatamente antecedenti] coi capelli grigi; e invece il mio destino è molto più serio. Per non so quale investitura pretemporale, che io non sono mai stato capace di spiegarmi, ho l'incarico di "negare", mentre sono sinceramente buono, e nient'affatto tagliato per la negazione. "Nossignori, mettiti a negare, ché senza negazione non ci sarebbe critica"; e che razza di giornale sarebbe, quello che non avesse la "sezione della critica"? Senza critica, non resterebbe che l'osanna. Ma per la vita il solo osanna è poco; è necessario che codesto osanna passi attraverso il crogiuolo del dubbio: e così via su questo tenore. Io, del resto, in tutte queste cose non c'entro: non sono stato io a crearle cosi, e non io debbo risponderne. Ma sì!, m'hanno scelto come capro espiatorio, m'han costretto a scrivere nella sezione della critica, e n'è risultata la vita. La comprendiamo, noialtri, questa commedia: io, per esempio, desidero, puramente e semplicemente, il mio annientamento. No (dicono), vivi, perché se tu non ci fossi, niente potrebbe accadere. Se sulla terra tutto fosse secondo ragione, allora non accadrebbe più nulla. Mancando te, non si avrebbero accadimenti di sorta, mentre è necessario che accadimenti vi siano. E cosi, indurendomi il cuore, presto servizio affinché accadimenti vi siano, e fornisco l'irragionevole a richiesta. Gli uomini prendono tutta questa commedia per una cosa seria, nonostante il loro incontestabile ingegno. In questo appunto è la loro tragedia. Sì, essi soffrono, indubbiamente... ma in compenso vivono, vivono in modo reale, e non fantastico: giacché, soffrire, significa vivere. Senza soffrire, che piacere ci sarebbe nella vita? Tutto il mondo si ridurrebbe a un Te Deum senza fine: cosa santa, ma tediosa. Ebbene, io invece? Io soffro, ma tuttavia non vivo. Io sono la x d'un'equazione indeterminata. Io sono non so che fantasma, il quale ha distrutto tutti i limiti e tutti i principi, e s'è dimenticato egli stesso, infine, del proprio nome. Tu ridi... cioè no, non ridi, ti adiri di nuovo. Tu ti adiri eternamente; tu vorresti sempre e soltanto dell'ingegno; eppure io ti ripeto che darei tutta questa vita sublunare, tutti i più alti gradi ed onori, pur d'incarnarmi nell'anima d'una mercantessa da un quintale, e accendere candelette a Dio.
- Dunque anche tu non credi in Dio? - con odio sogghignò Ivan.
- Ossia, come dirti... purché tu parli sul serio...
- Esiste Dio o non esiste? - con rabbiosa insistenza tornò a prorompere Ivan.
- Ah, parli proprio sul serio? Cuore mio, per davvero non lo so: cosa vuoi, hai proferito una gran parola!
- Non lo sai, e intanto Lo vedi? No, tu non esisti di per te, tu sei me, tu sei me e nient'altro! Tu sei una bubbola, sei un'immaginazione mia!
- Vale a dire, se permetti: la mia filosofia è tutt'una con la tua: questo sarà più esatto. Je pense, donc je suis, ecco quel che so con certezza: quanto poi a tutte l'altre cose che mi circondano, tutti questi universi, Iddio, e lo stesso Satana, per me è tutta roba che non è dimostrato se esista in sé, o sia semplicemente una mia emanazione, temporanea e individuale... Ma tronco qui, perché mi pare che stai sul punto di saltar su a taroccarmi!
- Faresti meglio a raccontarmi qualche aneddoto! - con voce sofferente mormorò Ivan.
- L'aneddoto l'ho, e fa giusto per noi: ossia, non è un aneddoto, ma cosi, una leggenda... Vedi, tu mi rimproveri per la mia mancanza di fede: "Vedi, e non credi". Ma, mio caro, non sono solo io, sai, a far cosi: là da noi, adesso, tutti si son confusi: e tutto per causa delle vostre scienze. Finché c'erano gli atomi, i cinque sensi, i quattro elementi, be', passi: bene o male, si tirava avanti. Anche nel mondo antico c'eran questi atomi. Ma come là da noi si venne a sapere che qui da voialtri avevate scoperto la "molecola chimica", e il "protoplasma", e sa il diavolo cos'altro; eh, là da noi, misero la coda fra le gambe. Nacque un vero e proprio bordello; soprattutto superstizioni, pettegolezzi; giacché, dei pettegolezzi, noi ne abbiamo altrettanti che voi, e forse un po' più: e si finì con le delazioni, poiché sai, abbiamo anche noi un certo reparto, in cui si prende nota di certe "informazioni". E così a questa strana leggenda, che appartiene ancora al nostro medioevo (non al vostro, al nostro), nessuno più ci presta fede, neanche là fra noi, eccettuate le mercantesse d'un quintale: cioè, intendiamoci, non le vostre, ma le nostre mercantesse. Tutto ciò che avete voialtri, l'abbiamo anche noi: per amicizia io ti svelo questo segreto, benché sarebbe vietato. Si tratta dunque d'una leggenda sul paradiso. C'era, dice, qui da voi sulla terra un certo pensatore e filosofo, che aveva negato tutto, leggi coscienza, fede, e soprattutto, la vita futura. Morì: pensava d'andarsene diritto diritto nel buio e nella morte, e invece, eccogli dinanzi la vita futura. Ne fu sorpreso e contrariato: "Questo", esclamò, "contraddice alle mie convinzionì". Per questo, allora, fu condannato... cioè, vedi, tu mi devi scusare, io non faccio che riportarti ciò che ho sentito raccontare, non si tratta che d'una leggenda... fu condannato, dunque, a percorrere fra le tenebre un quadrilione di chilometri (adesso, sai, abbiamo anche noi i chilometri): quando avesse terminato codesto quadrilione, allora si sarebbero aperte le porte del paradiso, e tutto gli sarebbe stato perdonato...
- E quali tormenti avete, voi nel mondo di là, oltre codesto quadrilione? - con una strana eccitazione intervenne Ivan.
- Quali tormenti? Ah, è meglio che non me lo domandi: prima ce n'era per ogni gusto, ma ora stan diventando sempre più morali, "rimorsi di coscienza" e stupidaggini di questo genere. Anche questo l'abbiam derivato da voi, dal "raddolcimento dei vostri costumi". Ma dico io, chi ne ha guadagnato? Ne ha guadagnato soltanto chi è senza coscienza, perché infatti, che glien'importa a costoro dei rimorsi di coscienza, se di coscienza non ce ne hanno un pizzico? Invece son venute a soffrirne le persone per bene, presso le quali sopravvive ancora la coscienza e l'onestà... Sì, tutte queste riforme in un terreno impreparato, e copiate per giunta di sui modelli stranieri, non fanno che risolversi in danno! L'antico fuocherello andrebbe molto meglio... Ordunque, il nostro condannato al quadrilione si fermò sui due piedi, si guardò attorno, e si stese di traverso alla strada: "Non voglio andar avanti; per principio, non mi moverò! "Prendi l'anima d'un colto ateo russo, fondila con l'anima del profeta Giona, che se ne stette tre giorni e tre notti nel ventre d'una balena, e avrai il carattere di codesto pensatore, sdraiato così sulla strada.
- Ma su che cosa se ne stava sdraiato?
- Eh, si vede che c'era su di che. Ma non ti ridi di me?
- Ragazzo di fegato! - esclamò Ivan, sempre in quella strana eccitazione. Aveva incominciato ad ascoltare con una curiosità imprevedibile. - E di' un po': ci sta ancora, sdraiato là?
- No: qui viene il buono! Restò giù lungo per quasi mill'anni: poi s'alzò e s'incamminò.
- Ah che asino! - esclamò Ivan, squassato da un riso nervoso, come sforzandosi tuttavia di pensare a qualche cosa. - Forse non è equivalente, star sdraiato in eterno o percorrere a piedi un quadrilione di miglia? Significa, non è vero? un bilione d'anni di cammino?
- Oh, anche molto di più; non ho qui un lapisetto e un pezzettin di carta, altrimenti si potrebbe fare il conto... Ma sai, da un pezzo quello è arrivato: ed è qui che incomincia l'aneddoto.
- Come, è arrivato! Ma dove l'ha preso, un bilione d'anni!
- Vedi, tu hai sempre il pensiero a questa terra com'è attualmente! Ma vedi, questa terra com'è attualmente s'è ripetuta lei stessa, forse, un bilione di volte. E che: ha perduto ogni vita, s'è fatta di ghiaccio, s'è crepata, s'è disgregata, s'è decomposta negli elementi fondamentali, è tornata in acqua, di quella diffusa super firmamentum, poi di nuovo cometa, di nuovo sole, e di sole nuovamente terra: insomma questo processo s'è forse ripetuto un'infinità di volte, e sempre nella stessa identica maniera, fino ai minimi particolari. Una noia proprio sconvenientissima...
- Di', di', e che accadde, quando fu arrivato?
- Accadde che appena gli fu aperto il paradiso, e lui fu entrato, bene, non eran passati ancora due secondi... due secondi con l'orologio alla mano, con l'orologio alla mano (benché, penso io, l'orologio dovesse esserglisi già da un pezzo decomposto negli elementi semplici, dentro la tasca, strada facendo)... non erano passati due secondi, che gridò che per quei due secondi, non già un quadrilione, ma un quadrilione di quadrilioni si poteva percorrere, e foss'anche elevato alla quadrimilionesima potenza! In una parola, intonò anche lui l'osanna, e anzi eccedette perfino, tanto che alcuni, lì, dotati di mentalità più fine, si rifiutarono addirittura, sulle prime, di stringergli la mano: troppo d'impeto s'era buttato dalla parte dei conservatori! E' la natura russa... Ripeto: si tratta d'una leggenda. Quale me l'han venduta, tale io la smercio. Eccoti dunque di che genere son le idee che là da noialtri corrono su tutti questi argomenti.
- T'ho acciuffato! - proruppe Ivan con una gioia strana, quasi infantile, come se si fosse definitivamente risovvenuto di qualche cosa. - Quest'aneddoto del quadrilione d'anni, l'ho composto io! Avevo diciassett'anni, facevo il ginnasio... fu allora che io inventai quest'aneddoto, e lo raccontai a un compagno solo... di cognome faceva Korovkin... fu a Mosca... E' un aneddoto tanto caratteristico, che non posso averlo attinto in nessun luogo. Io me n'ero dimenticato... ma adesso m'è risovvenuto in modo inconscio: proprio a me, sì, ché non sei stato tu a raccontarmelo! Migliaia di cose risovvengono così inconsciamente, perfino mentre ti stanno portando al patibolo: e allo stesso modo io me ne sono sovvenuto in sogno... E appunto questo sogno sei tu! Tu sei un sogno, e non esisti!
- Dall'accanimento con cui mi neghi, - si mise a ridere il gentiluomo, - io deduco che tuttavia tu credi nella mia esistenza.
- Nient'affatto! Non ho neppure un grammo di fede nella tua esistenza!
- Ma un milligrammo sì! Le dosi omeopatiche, vedi, sono forse le più potenti. Riconosci che c'è in te, via, un decimo di milligrammo di credulità...
- Neppure un istante! - con irruenza gridò Ivan. - Desidererei, del resto, credere in te! - stranamente soggiunse d'improvviso.
- Eheh! Ecco, convienine, una bella confessione! Ma io sono buono, voglio venirti ancora una volta in aiuto. Ascolta: sono stato io che t'ho colto in trappola, e non viceversa! Ho fatto apposta a raccontarti un aneddoto tuo, di cui ormai t'eri scordato, in modo che tu cessassi definitivamente di credere in me.
- Menti! Lo scopo tuo, apparendomi, è di darmi a credere che tu esisti.
- Esatto. Ma i tentennamenti, ma l'inquietudine, ma la lotta tra fede e incredulità, possono costituire, sai, un tormento tale per l'uomo di coscienza, come sei tu, da render preferibile l'impiccarsi. E appunto io, sapendo che un tantino in me credi, ho spinto la tua incredulità al limite estremo, raccontandoti questo aneddoto. Io ti vo conducendo tra fede e incredulità alternativamente, e se faccio così, ho il mio scopo. E', nevvero?, un metodo nuovo: quando tu avrai perduto ogni fede in me, allora immediatamente ti affannerai a persuadermi che io non sono una visione, ma che realmente esisto: ti conosco, io! E allora, ecco raggiunto il mio scopo. Ma è un nobile scopo, il mio. Non fo che gettare in te un minuscolo seme di fede, ma ne nascerà una quercia: anzi una tale quercia, che tu, stando su questa quercia, avrai desiderio di andare ai "padri del deserto e alle donne monde di colpa"; giacché questo, proprio questo ti sta in fondo al cuore: e ti nutrirai di locuste, e ti caccerai nel deserto per salvarti l'anima.
- Sicché tu, carogna, t'arrabatti per la salvezza dell'anima mia?
- Bisogna pure, qualche volta, fare una buona azione. E tu ti ci adiri, tu ti ci adiri, perché io ti proteggo!
- Buffone! Ma tu li hai tentati, alle volte, costoro che si nutrono, appunto, di locuste, e stanno per settant'anni in un nudo deserto a pregare, villosi da capo a piedi?
- Cuore mio, ma non ho fatto altro! Tutto il mondo, tutto l'universo si dimenticherebbe, pur di restare attaccato a uno solo di quei tipi lì: son certi brillanti davvero preziosi! Una sola di quelle anime, vedi, può valere a volte il firmamento intero (noialtri, sai, abbiamo un'aritmetica tutta nostra). Una perdizione è inestimabile! Ma sai, alcuni di essi, com'è vero Dio, non sono meno evoluti di te, anche se tu non ci crederai: son capaci di contemplare nello stesso istante certi abissi di fede e d'incredulità, che qualche volta, davvero, si direbbe che ancora un capello, e il nostro uomo se n'andrebbe "a gambe per aria", come dice l'attore Gorbunov.
- E di' un po', sei venuto via con tanto di naso?
- Mio caro, - rilevò l'ospite sentenziosamente, - è sempre meglio venirsene via con tanto di naso, piuttosto che, chissà mai, senza naso affatto, come di recente ebbe a dire un marchese malato (lo aveva curato, si vede, uno specialista) confessandosi al suo padre spirituale, ch'era un gesuita. Io presenziavo: una cosa incantevole! "Rendetemi", diceva, "il mio naso!" E si picchiava sul petto. "Figliuolo mio", tergiversava il padre, "tutto si compie secondo gl'impenetrabili disegni della Provvidenza, e spesso una sventura visibile si tira dietro un grandissimo, seppure invisibile, vantaggio. Se un crudele destino vi ha privato del naso, il vantaggio che ne deriva è questo, che d'ora innanzi per tutta la vita nessuno oserà più dirvi che siate rimasto con un palmo di naso". "Venerando padre, non è una bella consolazione questa", esclama l'altro disperato, "io, al contrario, impazzirei dalla gioia se per tutta la vita, nessun giorno escluso, restassi con tanto di naso, purché lo avessi al debito posto!" "Figliuol mio", sospira il padre, "tutti i beni non si possono pretendere insieme, e questo è un mormorare contro la Provvidenza, la quale anche nel caso presente non si è dimenticata di voi: ché se voi proclamate, come avete proclamato un momento fa, che siete pienamente disposto a restare per tutta la vita con tanto di naso, ecco qui che, indirettamente, il vostro desiderio è soddisfatto; giacché, una volta perduto il naso, voi, per questo stesso fatto, è come se foste restato con tanto di naso..."
- Puah, che cretinaggini! - insorse Ivan.
- Amico mio, ho voluto soltanto farti un po' ridere: ma questa, ti giuro, è la vera casuistica gesuitica, e (te lo giuro) tutto è andato parola per parola come ti ho riferito. E' una cosa successa da poco, e m'ha procurato un sacco di grattacapi. L'infelice giovanotto, tornato a casa, la notte stessa si sparò; io non lo lasciai un istante fino all'ultimo minuto... Quanto poi a queste schermaglie di confessionari gesuitici, per me esse costituiscono, in verità, la più cara distrazione nei momenti tristi della vita. Eccoti un altro caso, fresco di questi giorni. S'appressa a un vecchio padre una biondina, una piccola normanna, sui vent'anni. Bellina! una personcina! un tipetto! da farti venire l'acquolina in bocca. S'inchina, sussurra nello sportellino il suo peccato. "Come, figliuola mia, ma siete già ricaduta?" esclama il padre. "O, Sancta Maria, cosa sento: neanche più con lo stesso. Ma fin quando andrete innanzi così! E come non vi vergognate!" "Ah, mon père", risponde la peccatrice sciogliendosi in lacrime di pentimento, "Ça lui fait tant de plaisir, et à moi si peu de peine!" Pensa un po' tu che risposta! Anch'io mi ritirai immediatamente: era il grido della natura, era qualcosa di meglio, se permetti, della stessa innocenza! Immantinenti le rimisi il peccato: e m'ero già voltato per andarmene, quando fui costretto a rigirarmi: sento che il padre dallo sportellino le fissa per la sera un appuntamento. Era un vecchio, un pezzo di marmo, e da un istante all'altro, eccolo caduto. Era la natura, la verità della natura, che si riprendeva i suoi diritti!... O che, di nuovo arricci il naso, di nuovo t'inquieti? Non so proprio più che fare per riuscirti gradito...
- Lasciami: tu mi batti nel cervello come un incubo onde non posso liberarmi, - in tono di sofferenza gemette Ivan, impotente di fronte alla sua visione. - Tu mi dài un'uggia, un'oppressione, un tormento! Oh che darei, per poterti scacciare!
- Ripeto, modera le tue esigenze, non pretender da me tutta roba "elevata e sublime", e vedrai come ci adatteremo a vivere, noi due, da buoni amici, - in tono persuasivo esclamò il gentiluomo. - Tu, invero, mi vuoi male pel fatto che io non ti sono apparso in uno sfolgorio di bell'effetto, "fra tuoni e lampi", con ali di fuoco, e mi ti son presentato in questo modestissimo aspetto. Tu ti senti ferito, anzitutto, nei tuoi sentimenti estetici, e secondariamente, nella tua fierezza: come dunque, un così grand'uomo esser visitato da un diavolo così volgare? Da' retta, c'è pur sempre, in te, questo pizzico di romanticismo, che anche Belinskij prese tanto in giro. Che vuoi farci, sei giovane! E io avevo pensato, sai, venendo a trovarti, di presentarmiti, per ischerzo, nei panni d'un consigliere di stato a riposo, che avesse prestato servizio nel Caucaso, con tanto di stella del Leone e del Sole sul frac; ma poi ho avuto senz'altro paura, perché tu mi avresti preso a ceffoni semplicemente per aver io osato di appuntarmi sul frac il Leone e il Sole, e non essermi posto all'occhiello, a dir poco, la Stella Polare o Sirio... E dàgli a battere che sono stupido! Ma, Dio mio, io non ho neppur la pretesa di paragonarmi a te per intelligenza. Mefistofele, apparendo a Faust, testimoniò di se stesso che egli vuole il male, ma non riesce a fare che il bene. Ch'egli la pensi pure come gli aggrada: io, da parte mia, penso tutto l'opposto. Io, probabilmente, sono l'unico uomo in tutto l'universo, il quale ami la verità, e desideri schiettamente il bene. Io ero lì presente, quando il Verbo spirato sulla croce si levò al cielo recando sulle braccia l'anima del ladrone crocifisso alla sua destra; io ho udito i gridi gioiosi dei cherubini, che cantavano e acclamavano "osanna", e il tuonante clamore d'esultanza dei serafini, onde tremò il cielo e la creazione tutta. Ed ecco, te lo giuro per quanto c'è di più sacro, io sentii il desiderio di unirmi al coro e di prorompere con tutti gli altri: "Osanna!" Già mi scoccava, già mi sfuggiva dal petto... giacché io, come sai, sono assai delicato e artisticamente sensibile. Ma il buon senso (oh, sciaguratissima proprietà della mia natura!) mi trattenne anche quella volta nei debiti limiti, e lasciai passar l'istante! Infatti (pensai in quell'istante), che cosa accadrebbe, dopo il mio "osanna"? Immediatamente, tutto ciò che esiste si esaurirebbe, e non avverrebbero più fatti di sorta. E così, unicamente per dovere d'ufficio e per la posizione sociale che occupo, fui obbligato a soffocarmi dentro quel minuto buono, e a restarmene fra le lordure... L'onor del bene, c'è chi lo prende tutto per sé, e a me non vengon lasciate in parte che le lordure. Ma io non l'invidio, l'onor di vivere a ricasco degli altri; io non son vanitoso. Per qual ragione mai, di quante creature ci sono al mondo, io solo son condannato a buscar le maledizioni di tutte le persone dabbene, e addirittura i calci dei loro stivali, dato che, incarnandomi, debbo accettare a volte perfino conseguenze di tal genere? Io lo so bene: qui c'è un segreto; ma a me, questo segreto, non si vuole a nessun patto svelarmelo, perché allora io, indovinato di che si tratta, potrei magari intonare a squarciagola l'osanna, e immediatamente verrebbe a sparire quell'indispensabile lineetta del negativo, e in tutto il mondo s'instaurerebbe la razionalità, alla quale, naturalmente, seguirebbe la fine per ogni cosa, anche per le riviste e pei giornali, giacché, chi volete che allora penserebbe più ad abbonarvisi? Lo so, sapete?, che proprio in extremis io finirò col riconciliarmi, percorrerò anch'io il mio quadrilione, e perverrò a conoscere il segreto. Ma, per tutto il tempo che manca all'avverarsi di questo, tengo il broncio, e, indurendo il cuore, adempio alla mia mansione: mandare in perdizione le migliaia, affinché se ne salvi uno. Quante anime, per esempio, bisognò perdere, e quante buone reputazioni affogar nell'onta, per guadagnare un solo giusto, Giobbe, a proposito del quale mi si gabbò così atrocemente in quell'epoca remota! No, fino a tanto che il segreto non si sveli, sussistono per me due verità: quella di lassù, di loro, che per me, per adesso, è lettera morta, e quella mia. E ancora non si può dir mica quale delle due avrà la meglio... Tu hai preso sonno?
- Sfido io, - astiosamente gemette Ivan. - Tutto quanto c'è di più stupido nella mia natura, di già vissuto, di già macinato nel mio cervello, di espulso fuori come un rifiuto, tu vieni a ripresentarmelo dinanzi, come fosse chissà che novità!
- Non ci ho azzeccato nemmeno stavolta! E io che pensavo, invece, che il mio pezzo letterario t'affascinasse addirittura: quell'"osanna" là nei cieli, diciamo la verità, non m'è riuscito mica male? E subito dopo, quel tono sarcastico, alla maniera di Heine: eh, dico bene?
- No, io non sono mai stato un lacchè di questa fatta! Come ha potuto l'anima mia partorire un lacchè pari tuo?
- Amico mio, io conosco un simpaticissimo e interessantissimo signorino russo: giovane pensatore e grande amatore di letteratura e di squisitezze, autore d'un poema, assai promettente, dal titolo Il Grande Inquisitore... Lui e non altri avevo di mira io!
- Ti proibisco di parlare del Grande Inquisitore, - insorse Ivan, avvampando tutto di vergogna.
- Bene, ma e quel Cataclisma geologico? Te ne rammenti? Quello sì ch'era un poemetto in gamba!
- Taci, se no t'ammazzo!
- Come, proprio me vorresti ammazzare? No, scusa, lascia che ti spieghi. Io son venuto qui apposta per cavarmi questa soddisfazione. Oh, le mi piacciono tanto le fantasie dei focosi, giovani amici miei, palpitanti di brama di vivere! "Sono sbucati fuori certi tipi", hai pensato tu la primavera scorsa, sul punto di trasferirti qui, "che avrebbero la pretesa di distrugger tutto e di rifarsi dall'antropofagia. Sciocchi, non hanno interpellato me! Secondo me, non c'è proprio da distrugger nulla, ma è sufficiente che sia distrutta, nell'umanità, l'idea di Dio: ecco il punto su cui bisogna far leva! Di qui, di qui bisogna partire: ah, ciechi senz'ombra d'intendimento! Una volta che l'umanità si sarà distaccata, nella totalità dei suoi membri, da Dio (e io credo che questo periodo, parallelo ai periodi geologici, debba sopravvenire), allora di per sé, senza bisogno di antropofagia, cadrà tutta la precedente concezione del mondo, e soprattutto la precedente morale, e a queste succederà qualcosa di assolutamente nuovo. Gli uomini si consocieranno per prendere dalla vita tutto ciò che essa può dare, ma senz'avere altra mira che la felicità e la gioia in questo mondo presente. L'animo dell'uomo s'innalzerà in un divino, titanico orgoglio, e farà la sua comparsa l'uomo-Dio. Di continuo trionfando, senza più limiti, sulla natura, grazie alla sua volontà e alla sua scienza, l'uomo sperimenterà di continuo, in quest'atto stesso, un piacere così elevato, da potergli tenere il posto di tutte le sue vecchie speranze nei piaceri celesti. Ognuno sarà consapevole d'esser mortale in pieno, senza possibilità di resurrezione, e accetterà la morte orgoglioso e tranquillo, come un dio. Nel suo orgoglio comprenderà che non è il caso di lamentarsi se la vita è un istante, e imparerà ad amare il prossimo suo senz'alcuna prospettiva di remunerazione. Quest'amore non soddisferà che l'istante della vita, ma la consapevolezza stessa di tale istantaneità ne renderà di tanto più intensa la fiamma, per quanto in passato si disperdeva nei vagheggiamenti d'un amore ultraterreno e sconfinato"... E così via, sempre su questo tono: ti dico, un amore!
Ivan rimaneva lì seduto, serrandosi con le mani le orecchie e fissando per terra: ma aveva incominciato a tremare in tutta la persona. L'ospite continuava.
- Il problema ora è questo, s'è domandato il mio giovane pensatore: esiste o non esiste la possibilità che un simile periodo sopravvenga un giorno? Se sopravverrà, allora tutto è risolto, e l'umanità si darà una sistemazione definitiva. Ma siccome, tenendo conto della radicale stupidità umana, questa sistemazione potrebbe tardare magari anche mill'anni, a chiunque abbia fin d'ora riconosciuto la verità è permesso sistemar la propria vita come più gli fa comodo, su nuove basi. In questo senso, a costui "tutto è permesso". Né è tutto qui: se anche codesto periodo non avesse mai a sopravvenire, purtuttavia, dato che Iddio e immortalità non esistono, all'uomo nuovo è permesso ugualmente mutarsi in uomo-Dio, dovesse essere il solo a farlo in tutto il mondo, e, inseritosi ormai nel nuovo ordine, con cuor leggero saltar oltre ogni vecchio ostacolo morale del vecchio uomo-schiavo, se la cosa si rendesse necessaria. Per un Dio non esistono leggi! Dove un Dio si pone, ivi è già di per sé un luogo divino! Dove mi porrò io, ivi diverrà subito il più eminente dei luoghi... "tutto è permesso", e tanto basta! Tutto questo è molto grazioso: soltanto, se io avevo voglia di far birbonate, occorreva proprio, per giunta, la sanzione della verità? Ma ormai cosiffatto è il russo dei tempi nostri: senza quella sanzione, non si risolve neppure a far birbonate, a tal segno ha preso amore alla verità...
L'ospite, trascinato evidentemente dalla propria eloquenza, alzava sempre più la voce e, con aria ironica, guardava tratto tratto al padron di casa; ma non ebbe modo di terminare: Ivan, di botto, afferrò dalla tavola il bicchiere e lo scaraventò contro l'oratore.
Ah, mais c'est bête enfin! - esclamò quegli, saltando su dal divano e con le dita spazzolandosi di dosso gli spruzzi del tè. - Ti sei ricordato del calamaio di Lutero! Guarda che tipo: è lui il primo a credere ch'io sia un sogno, e poi avventa contro un sogno i bicchieri! Questo è un modo di comportarsi da femmine! Eh, ma lo sospettavo, io, che tu facessi mostra di turarti le orecchie, e intanto stessi in ascolto...
Al telaio della finestra, d'improvviso, risonò dal di fuori un bussar netto e imperioso. Ivan Fëdorovič balzň su dal divano.
- Senti, sarebbe meglio che aprissi, - proruppe l'ospite. - tuo fratello Alëša, che porta una notizia inattesa e interessante davvero, te lo garantisco io!
- Zitto, ingannatore: già da prima che tu me lo dicessi, io lo sapevo che questo era Alëša, ne avevo il presentimento: e, certo, non sarà mica venuto per nulla, l'avrà certo portata questa "notizia"! - esclamò, infuriandosi, Ivan.
- Aprigli dunque, aprigli. Di fuori, è a tormenta, e lui t'è fratello. Mr. sait-il le temps qu'il fait? C'est à ne pas mettre un chien dehors...
Il bussare si prolungava. Ivan avrebbe voluto portarsi alla finestra: ma qualche cosa era come se a un tratto gli avesse legato piedi e mani. Egli fece uno sforzo supremo, come per spezzare i suoi vincoli: ma invano. I colpi alla finestra si facevan via via più forti e rimbombanti. Alla fine, di netto si spezzarono i vincoli, e Ivan Fèdorovicv balzò su dal divano.
Egli si guardò intorno stralunato. Tutt'e due le candele eran quasi consumate fino in fondo; il bicchiere, che un momento fa aveva scagliato sull'ospite, gli stava lì dinanzi sulla tavola: e, sul divano di fronte, non c'era anima viva. Il colpeggiare al telaio della finestra, sebbene continuasse insistente, non rimbombava davvero come, poc'anzi, gli era sembrato in sogno: anzi, era assai discreto.
- Non era un sogno, questo! No, lo giuro, non era un sogno:son tutte cose accadute, or è un istante, - proruppe Ivan Fëdorovič, si slanciò alla finestra, e aprì lo sportellino.
- Alëša, eppure t'ho proibito di venire qui! - incollerito gridò al fratello. - In due parole: che cosa t'occorre? In due parole, capisci?
- Un'ora fa s'è impiccato Smerdjakov, - rispose Alëša di fuori.
- Vieni all'ingresso, t'apro subito, - disse Ivan, e andò a aprire ad Alëša.