Le sventure della caccia

Marcel Detienne

Da Dioniso e la pantera profumata

Laterza, Bari 1981

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Con G. Piccaluga la critica si fa radicale, in nome di una Storia la cui originalità di fondo pare essere costituita dalla vocazione comparativa. Partendo dal principio per cui la comparazione è legittima quando "si applica a ciò che è comparabile storicamente perché radicato in tradizioni culturali simili", l'analisi "storico-religiosa" della scuola di Roma cui si rifà G. Piccaluga afferma in linea di principio che un sistema di pensiero religioso è sempre una realtà storica la cui formazione e il cui sviluppo non si lasciano precisare se non quando si siano spiegate le corrispondenze e le intersezioni storico-culturali offerte dall'etnologia. Da F. Gräbner a E. Jensen il cosiddetto metodo storico-culturale sembra oscillare tra la tassonomia positivista dei differenti tipi di cultura e la rivelazione esistenziale delle unità culturali portatrici di creazioni spirituali. Talora ciascuna cultura si decifra come un testo, le cui parole siano tracciate sul terreno e inscritte nella vita materiale di un gruppo sociale i cui comportamenti, le cui condizioni economiche e forme d'immaginazione siano, per gran parte, determinate dall'ambiente geografico originario; talora, seguendo la strada aperta dalla morfologia culturale, la storia dell'umanità non occidentale viene enunciata attraverso un numero limitato di appercezioni mitiche fondamentali, complessi primari e innovazioni, inseparabili da una o più unità culturali. E là, nelle regioni remote delle esperienze primarie, il cui segreto è affidato all'uomo primitivo, che bisogna andare a cercare il senso di un fenomeno culturale o il significato di un mitologema deviato dal suo contesto e andato lentamente alla deriva verso lontane tradizioni. Si instaura così un'archeologia del mito, che assegna alla Storia il campo di ciò che è culturalmente simile, che cerca, attraverso relazioni di parallelismo tra società arcaiche, di ritrovare, nell'affollarsi delle tradizioni mitiche, l'immagine cancellata di un mitologema o la forma evanescente di un'esperienza mitica la cui autenticità si conserva intatta attraverso le degradazioni successive. Così, per comprendere le tradizioni greche e romane dell'eroe che la morte trasforma in narciso o in croco, bisogna, confrontandole con le tradizioni culturali di Seram (Molucche), riferirle al mitologema agricolo del dema, di una divinità la cui uccisione inaugura la divisione tra uomini e dei, e il cui cadavere dà vita ai cereali. Solo il passaggio attraverso una civiltà "di stadio agricolo nettamente arcaico" rende credibile che le avventure di Narciso siano state ispirate ad un anonimo giardiniere dall'osservazione delle metamorfosi vegetali di cui l'humus è il singolare prodotto.

Nell'interpretazione "storico-religiosa" del mito di Adone sviluppata da G. Piccaluga, la comparazione con differenti società arcaiche (dal Nord-ovest canadese ai pigmei della foresta equatoriale) porta a delineare una configurazione mitica della caccia, un mitologema costruito sulla divisione tra due periodi culturali nella Storia dell'uomo. Da una parte, la caccia autentica: l'attività cinegetica nella sua funzione primordiale e fondamentale quale s'impone ad un'umanità la cui economia dipende interamente dalla caccia, alla quale vengono ad aggiungersi solo in via complementare i frutti della raccolta. Dall'altra, in un'epoca culturale della storia dell'uomo dominata dalla produzione di piante coltivate, la caccia regressiva come attività che l'economia incentrata sui cereali rende desueta e anacronistica. Questo modello, d'origine etnografica, serve da griglia per ordinare la mitologia dei cacciatori nel mondo greco, e per denunziare, sotto l'apparente confusione delle narrazioni relative alla caccia, la struttura che contrappone i due comportamenti cinegetici fondamentali. Agli eroi cacciatori, come Orione, Ippolito e Atalanta, le cui avventure si snodano senz:a alcun riferimento alla sfera dell'agricoltura, associati più o meno strettamente dal loro destino all'instaurazione di un ordine di tipo cosmico, succedono e si oppongono a loro volta una serie di praticanti della caccia, come Atteone, Perdicca o Melanione, la cui carriera segue una sorta di binario fisso: ostili ad Artemide, spesso addirittura in esplicito conflitto con lei, più abili a disporre i lacciuoli e a catturare animali timidi che a inseguire la selvaggina grossa e ad affrontare le grandi fiere, sono dei cacciatori già a metà stornati verso l'agricoltura, che scoprono i cereali, inventano le tecniche della coltura e arrivano addirittura a trascurare le proprie occupazioni cinegetiche. Cacciatori inutili e coltivatori senza speranza, divisi tra due tipi di vita contraddittori, lacerati tra Artemide e Demetra, come potrebbero sottrarsi a un destino tragico? Alcuni fuggono il genere umano, altri muoiono d'inedia, certuni incupiscono in una violenza convulsa o si danno all'omosessualità. Per G. Piccaluga, Adone appartiene alla categoria dei cacciatori infelici. Tanto più che nessun mito di caccia pare raccontare in maniera tanto convincente, fin nei suoi dettagli più anodini, le sventure di un eroe che non diviene pienamente se stesso se non cancellandosi di fronte alle realtà di un mondo del quale annuncia la buona novella, ma che lo destina ineluttabilmente ad una penosa morte. Ancora una volta, è alla 'realtà storica' che il mito di Adone viene ad essere riferito, e con ciò stesso svelato, senza nessuna violenza, in nome dell'evidente relazione che "la mitologia, come ogni creazione culturale, ha con la storia della quale è prodotto". Ma la Storia di G. Piccaluga--c'era da aspettarselo--non concorda necessariamente con ciò che altri fiduciosamente chiamano 'realtà storica'. Due caratteristiche, nel caso specifico, la rendono singolare. Da un canto, abbiamo l'apertura su di un orizzonte temporale senza limite, estraneo alla cronologia pignola dei contabili di Olimpiadi, e nel quale la civiltà greca detta del I millenio a.C., una volta confrontata con gli insiemi culturali primitivi, si vede assegnare nella storia dell'umanità la posizione che solo la comparazione permette di calcolare senza errore. Rispetto a una Storia che si vuole attenta ai cambiamenti, e che ordina le azioni nel tempo lineare di un racconto 'cronofago', l'analisi 'storico religiosa' della Piccaluga appare come una storia segreta che si appunta, sotto l'apparenza degli avvenimenti, al concatenarsi delle relazioni e all'ordine concettuale che ad essi soggiace. Queste affinità con un'interpretazione di tipo strutturale sembrano confermate da una seconda caratteristica. In effetti, l'interpretazione imposta in questo caso dal processo comparativo si presenta come un modello che integra nell'opposizione immobile di due insiemi economico-culturali un elemento di diacronia, ridotto alla semplice espressione di un rapporto di anteriorità e posteriorità. L'antitesi cinegetica che ci viene proposta non può dunque essere scartata col pretesto che si tratta di un fossile vivente, di uno di quei residui altrimenti noti con l'affettuoso appellativo di 'sopravvivenze'. Dietro la maschera ingannatrice di una Storia il cui territorio è delimitato dall'omologia culturale, bisognerà riconoscere una sorta di analisi strutturale dei miti di caccia nel mondo greco. In questa prospettiva, la divisione tracciata dalla Piccaluga tra due tipi di cacciatori promuove un certo numero di osservazioni sulla pertinenza del modello proposto.

A B

Ippolito Orione

Asclepio Atteone

Arcade Teseo

Callisto Toante

Mera Amazzoni

Endimione Melanione

Scilla Ippolito

Orione Perdicca

Calidone Anceo

Tmolo Bellerofonte

Teutrante Bute

Sarone Demofonte

Reso Buzige

Narciso Fillide

Atalanta

Melanione

Glauco

Ida

Epidemide

 

Un rapido sguardo allo specchietto permette di constatare l'assenza di numerosi cacciatori di fama e, al contrario, la presenza di personaggi dall'oscurissima carriera cinegetica. Né Cefalo, né Procri, né Perseo, né Meleagro, ma Glauco, Epimenide, Bellerofonte e Asclepio. Se basta come, pare, nel caso di Asclepio essere stati allievi del centauro Chirone per comparire tra gli eroi della caccia, quale ingiusta severità ha lasciato da parte Ulisse, Palamede o Achille, che hanno studiato alla stessa scuola, o altri, non meno famosi, per i quali finire il cinghiale o inseguire il cervo non era meno naturale che essere di buona nascita e non aver altro credito che una genealogia? Un'altra osservazione fa nascere il dubbio sulla validità dei criteri che presiedono alla ripartizione dei cacciatori in due categorie: tre di essi, e non dei minori, Orione, Ippolito e Melanione, si ritrovano da una parte e dall'altra, come se fossero troppo ricchi per essere classificati a destra anziché a sinistra, o viceversa.

Per imporre alla mitologia greca della caccia la divisione 'storico-culturale', non può essere sufficiente fare appello alla comparazione etnografica; occorre in aggiunta scoprire, nel cuore stesso della tradizione mitica dei greci, un racconto che renda credibili le sventure esemplari di un cacciatore predemetriaco, e che venga a portare, con la testimonianza diretta e innegabile degli indigeni, la garanzia filologica e la prova storica, più familiare, che le cose in realtà sono andate proprio così, poiché i greci stessi ce lo dicono. Da questo punto di vista, la storia di Perdicca merita di essere conosciuta meglio. La raccolta dei Mitografi Vaticani la narra nella forma di un racconto seguito dalla sua esegesi. Cacciatore di fiere, Perdicca si innamora di sua madre. Solo la vergogna di commettere un crimine inaudito ostacola la violenza del suo desiderio. Minato dal male, egli cade in uno stato di languore estremo. Si tratta dello stesso Perdicca che, secondo Virgilio, avrebbe inventato la sega. Ma ecco la verità, ci dice il Mitografo. Perdicca era cacciatore, ma non gli piaceva più uccidere le bestie feroci, far scorrere il sangue e correre per i boschi deserti. Egli si diceva che i suoi colleghi, Atteone, Adone e Ippolito, avevano conosciuto una tragica fine e, maledicendo la caccia, si volse alla coltura della terra. Questo è il motivo per cui si narrò che avesse amato la Terra, madre di ogni cosa. Ma fu la vita dura dei campi che lo rese magro e esile.

E' raro che il pensiero indigeno mostri tanta lucidità intorno al suo proprio cammino. Bisogna arrendersi all evidenza. Ancora una volta i greci ci hanno preceduto; avevano già formulato la teoria della caccia infelice. Il Perdicca dei Mitografi Vaticani non è solo un cacciatore che si distoglie palesemente dalle sue attività cinegetiche, è un eroe tragico. Egli denuncia il fallimento di un genere di vita di cui furono vittime i migliori tra i suoi compagni: Atteone sbranato dalla sua muta, Ippolito ucciso dal suo carro, Adone ferito a morte dal cinghiale. Perdicca, a sua volta, ne porta testimonianza nella sua storia personale: diventando il primo contadino di Grecia e consacrandosi al servizio di Demetra, egli non fa altro che rivestirsi del suo destino di mediatore sofferente, di eroe lacerato tra due mondi contraddittori. Vittima di sregolatezze sessuali, sfiancato dalla fatica, Perdicca è un morto che cammina. Ritroviamo qui la conferma, tanto più preziosa in quanto affidata al racconto mitologico, che il modello storico-culturale, in apparenza caduto dal cielo, appartiene alla storia sepolta nella coscienza storica dei greci, quasi che la Storia, una e indivisibile, non volesse scriversi se non facendo uso delle stesse parole, oggi come allora.

E' chiarissimo che le avventure del cacciatore Perdicca si trovano al centro del dibattito portato avanti dall'analisi storico-religiosa sui rapporti tra mitologia e Storia. D'altra parte, proprio facendo esplicito riferimento a questo racconto, l'interpretazione dei miti della caccia da parte della Piccaluga si fa forte del fatto di non essere che la parafrasi dell'esegesi indigena di un mito greco. Quindi, non è più lecito alcun dubbio, se non altro sulla natura dell'interpretazione che ci viene proposta. In effetti, se per imporsi meglio il mitologema dei due tipi di caccia deve essere presentato come un dato di fatto, esso non può più tanto facilmente pretendere di assurgere al ruolo di modello strutturale, modello che già ci è apparso per altri versi poco soddisfacente entro i limiti stessi del suo campo specifico di applicazione. Ma occorre spingere più in profondità l'esame delle metodologie messe in atto in nome della Storia. Nella migliore delle ipotesi, le sventure di Perdicca potrebbero tutt'al più portare la prova che un greco antico era in grado di fabbricare un'esegesi convincente quanto quella di G. Piccaluga. Nel caso specifico, è anzitutto sui personaggio di Perdicca che avrebbe dovuto esercitarsi la sagacia dell'interprete, invece di annullare la distanza opportunamente segnalata dal Mitografo Vaticano tra la storia mitica e l'esposizione della sua verità. Se nella prima, infatti, si tratta di un cacciatore divorato da una passione incestuosa per la madre, ma che è nello stesso tempo l'inventore della sega, nella versione esegetica, la cui 'verità' si instaura grazie alla relazione simbolica tra madre e Terra, la storia di Perdicca racconta la metamorfosi di un cacciatore deluso in un laborioso agricoltore. Lasciamo pure ad altri il compito d'interrogarsi sulle relazioni 'oblique' che possono intrecciarsi tra la sega, l'incesto e la caccia; ci basti tuttavia notare che senza costruire un 'dossier' la cui importanza è legata ai nostri occhi essenzialmente agli aspetti 'mitologici' della Storia--le avventure attribuite a Perdicca paiono situarsi alla confluenza delle imprese di Perdice, il nipote di Dedalo che concepì la prima sega metallica sull'esempio d'una mascella di serpente, con gli amori incestuosi di quel Perdicca che morì, secondo la tradizione, di languore per aver offeso Eros e Afrodite.

Nel campo dell'interpretazione, una delle idee fisse del pensiero storico--di questo sapere ben articolato per più di un secolo--considerava evidente che la Mitologia dovesse spiegarsi attraverso il suo solo passato, e che dietro ogni configurazione mitica ci fosse un avvenimento 'storico' che attendeva, silenziosamente ma--una volta riesumato-- irrecusabilmente, di essere evocato per dare un senso al parlare insensato del racconto favoloso. Secondo che l'avvenimento-base apparteneva ad un passato più o meno remoto, l'interprete-storico calcolava gli effetti realistici in grado di assicurare la credibilità del suo racconto. Di conseguenza, molto prima di approdare alle rive del Paleolitico, diverse motivazioni, liberate dalla morsa dell'erudizione, invadono il modello interpretativo, lasciandolo completamente in balia dell'esegesi interna a quello stesso sistema simbolico da cui l'interpretazione voleva distaccarsi e restar separata. Tutti sanno che, per remote che siano le tracce archeologiche, le prime stazioni greche hanno come base materiale la coltura di cereali e gli animali domestici. I cacciatori-raccoglitori confinano con le brume del Paleolitico. Non per questo la loro presenza appare meno assillante nelle interpretazioni di certi Moderni la cui maniera di scrivere la Storia tende a scivolare insensibilmente verso la narrazione favolosa, sotto l'effetto del desiderio di esibire l'origine, senza tuttavia rinunciare alle esigenze di quel realismo che costituisce l'unico orizzonte del verosimile. E' qui che, non senza connivenza, l'interpretazione che legifera sulla regressione obbligata dei cacciatori-raccoglitori dinanzi all'affermarsi dei consumatori di cereali si incrocia con la spiegazione convinta che, essendo il Paleolitico il solo periodo abbastanza lungo per aver forgiato l'evoluzione genetica dell'umanità, è necessariamente nell'attività cinegetica di quel certo numero di migliaia di anni che si inventano le imprese e i comportamenti che hanno impressionato la memoria degli uomini, che si plasmano i racconti mitici venuti a dare il cambio a riti da tempo perenti. L'azione di quest'eredità del Paleolitico, cui gli stessi greci sono chiamati a rendere testimonianza in modo più o meno cosciente in un rituale insolito o in una qualche tradizione singolare della loro storia, non la si può concepire che attraverso un archetipo psichico o una qualche struttura fissista. Senza dubbio vi sono nello storico contemporaneo che li sviluppa delle motivazioni che gettano molta luce sulla nostra propria 'mitologia' della caccia e sul posto che per ragioni diverse la nostra ideologia accorda a tale attività. Ma occorre annoverare tra i percorsi obliqui della Storia il fatto che degli analisti di miti antichi obiettino a delle interpretazioni strutturali l'ignoranza di una realtà storica che essi stessi si impegnano a produrre, nella convinzione che solo il passato può servire da garante per i racconti della mitologia. E tuttavia, non è forse chiaro che uno dei primi inconvenienti dell'operazione consiste nel fatto che dei cacciatori-fantasma venuti dal Paleolitico rendono vane e futili tutte le informazioni del I millennio sullo status socio-economico della caccia? La caccia, infatti, contrariamente all'iniziazione tribale, non è né elemento residuo né un'istituzione moribonda, partendo dalle battute collettive che riuniscono i giovani nell'ideologia epica fino all'inseguimento d'una lepre da parte di un bravo proprietario contemporaneo di quel Senofonte la cui Arte della caccia si propone di richiamare alla memoria le buone maniere in tale campo. Tra il V e il IV secolo a.C., vale a dire nel periodo contemporaneo alla tradizione ateniese sulla storia di Adone, la Grecia conserva in servizio attivo, a fianco a fianco, il cacciatore-cittadino e il 'cripto' spartiate: il piccolo-borghese che abbandona l'agitazione dell'Assemblea per il piacere di una giornata in campagna e l'uomo notturno, inquietante, pericoloso come una fiera, per il quale cacciare fa parte di un addestramento e di un vasto complesso iniziatico di cui or non è molto A. Brelich indicava continue corrispondenze formali con le pratiche d'iniziazione delle società 'primitive'.

Per mettere in rapporto una storia contemporanea e un passato più remoto e quasi inaccessibile, bisognerebbe tuttavia convincersi che si deve e si può, attraverso rappresentazioni e ideologie parzialmente sovrapposte, ricostruire una sorta di trama socio-economica della caccia che faccia apparire per contrasto il disegno della catena mitica. Nessun argomento serio ci induce a credere che la Mitologia sia una scoria o un sottoprodotto della Storia. Al contrario, un certo numero di analisi e di riflessioni teoriche sul mito suggeriscono che i differenti piani semantici che attraversano l'insieme della mitologia dispongono di una larga autonomia, e che se la caccia, ad esempio, orienta una serie di miti in una società così fondamentalmente agricola come la Grecia del I millennio, ciò non è da interpretarsi come un' eco lontana ma fedele dei rapporti sociali di produzione di un'orda di cacciatori che avrebbe attraversato le radure della Storia qualche millennio prima, ma, più 'economicamente', come un fenomeno causato dal fatto che, nella sfera del mito, l'attività cinegetica costituisce un eccellente operatore. E questo per una serie di motivi: attività fondamentalmente mascolina, nella quale lo scontro con gli animali feroci porta a versare del sangue nel momento stesso in cui procura un complemento di cibo a base di carne, la caccia si pone in contrasto con l'agricoltura, ma s'articola strettamente alla guerra. Se quest'ultima è privilegio completamente maschile, in quanto è opera di morte, la produzione di cibi coltivati, al contrario, si realizza nei modi della gestazione e della riproduzione, anche se il lavoro della terra è svolto in Grecia dagli uomini. Posto al punto di intersezione tra le forze della vita e quelle della morte, lo spazio occupato dalla caccia costituisce al tempo stesso l'al di là e la negazione delle terre coltivate. Luogo d'elezione delle forze della vita selvatica, il campo aperto al cacciatore appartiene al solo sesso maschile. Per i ragazzi che vi si avventurano, soli o in compagnia di coetanei, l'impresa cinegetica assicura l'integrazione nella classe politica degli adulti. Attraversando le terre vergini il fanciullo maschio, sottratto alla penombra e al calore dei corpi femminili, viene introdotto nel reame della virilità; affrontando gli animali feroci egli si prepara, più o meno direttamente, a diventare un guerriero, iniziato ai privilegi propri degli uomini, alla violenza che fa scorrere il sangue. Artemide, signora della caccia ma vergine, socchiude solo il suo regno di foreste e montagne alle fanciulle condannate al matrimonio. Le piccole 'orse' non possono uscire dal recinto tracciato dal santuario in cui, per espiare l'uccisione di un'orsa cara ad Artemide, perpetrata da un'uomo in quello stesso luogo, le fanciulle di Atene sono tenute a entrare al servizio della dea e a 'fare l'orsa' vestite di giallo, al fine di conquistare, al termine del noviziato, il diritto di abbandonare la propria verginità e di rientrare nella città per diventare spose e madri.

Interdetto alle fanciulle e percorso dai ragazzi prima di accedere allo status di guerrieri e di adulti, il terreno della caccia non è solo la negazione delle terre coltivate e dello spazio chiuso della casa, ma appare anche come spazio estraneo al matrimonio, che accoglie forme di sessualità devianti o semplicemente strane per la città. Una serie di relazioni sembrano dunque allacciarsi tra la caccia e l'erotica: per odio verso le donne, un giovane maschio se ne va ad inseguire la lepre tra le montagne e non ritorna più; per sfuggire al matrimonio che l'aspetta al varco, una fanciulla decide di andarsene a lottare contro le belve, sulle alte vette dei monti. Negli amori maschili, però, i regali che l'erasta fa all'eromeno sono spesso prodotti di cacciagione (lepri, cervidi, volpi), allo stesso modo che, nella tradizione di corte a Creta, è nel corso di una stagione di caccia, lunga due mesi, che l'adolescente, rapito secondo l'uso, si trova in intimità con il suo amante, prima d'essere questa volta integrato nella confraternita dei guerrieri cui l'accesso gli è aperto dal rapitore quando, al termine dell'iniziazione, l'amato riceve la sua armatura da guerra dalle mani dell'amante. Foreste e montagne compongono un paesaggio tutto maschile in cui la donna-sposa è radicalmente assente, così come ne sono esclusi i valori socio-politici che definiscono l'uso 'giusto' del corpo femminile. E' dunque là, dove le regole tacciono, che si aprono gli itinerari proibiti, s'enunziano le devianze e si compiono le trasgressioni. Ippolito, il pazzo d'Artemide, compagno inseparabile della Vergine, divorato dal fuoco della continenza, rasenta le figlie del re Preto, folli di desiderio e completamente nude dal giorno in cui hanno offeso Era; Dioniso, cacciatore selvaggio, trascina con sé la muta delle donne inferocite, che hanno abbandonato il telaio, i mariti, i focolari; Atalanta, spinta dall'odio per Afrodite, insegue, giavellotto alla mano, il sogno di una verginità intangibile, mentre la 'poliomicida', Polifonte, partita per 'fare la piccola orsa' e vivere in compagnia della sola Artemide, si innamora pazzamente di un orso vero, col quale si unisce sotto gli occhi inorriditi della Vergine Cacciatrice. La passione incestuosa del cacciatore Perdicca per la propria madre trova qui un contesto immediato, che rende vana una lettura ingenuamente 'socio-economica' della sua attività.

Nondimeno, se boschi, foreste e montagne tracciano l'orizzonte comune delle avventure di Ippolito, di Atalanta e delle Pretidi, non bisognerà affrettarsi a concluderne che la sfera della caccia in Grecia serviva da rifugio alle infelici vittime delle disfunzioni sessuali. E dalla sua posizione tra guerra e matrimonio che lo spazio cinegetico trae la propria capacità di divenire, nella mitologia, il luogo privilegiato per i comportamenti sessuali marginali, sia che si tratti di rifiutare il matrimonio, al maschile o al femminile, sia che si tratti, al contrario, di sperimentare dei comportamenti sessuali censurati. Spazio liminale, dove i rapporti dominanti tra i due sessi sono come sospesi, il regno della caccia è aperto alla sovversione delle relazioni amorose, quali che ne siano i processi e le modalità.