DUE LIBRI, UNA PAGINA (6)

Letture di Fabio Brotto

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In Scimmie cacciatrici, di Craig B. Stanford (1999), edito in Italia da Longanesi nel 2001:

La ricetta essenziale che condusse all'espansione del cervello umano comportò l'emergere dell'intelletto necessario alla condivisione intelligente, strategica e consapevole della carne. (p.13)

Il libro di Stanford (non troppo ben tradotto da I. Blum: non si possono chiamare animali da preda gli animali predati) si inserisce nella notevole produzione attuale di quel gruppo di primatologi che opera al confine con la paleoantropologia. Le ricerche in Tanzania sui bonobo, una sottospecie di scimpanzé molto evoluta,

… assestò un duro colpo ai miei valori relativi ad un'etica del comportamento fondata sull'equilibrio fra i sessi. Gli scimpanzé maschi brutalizzano abitualmente le loro femmine, costringendole ai rapporti sessuali e punendole se esse non concedono loro un accoppiamento desiderato. (…) Arrivai a considerare questa società di antropomorfe come una struttura in cui vige la legge del più forte - un modello peraltro diffusissimo anche nelle società umane patriarcali (pp.16-17).

Penso che basti questa citazione per far vedere quanto siano problematici i discorsi che si muovono su quel confine. La cosa più interessante che ho trovato nel libro, e che mi riporta in qualche modo al pensiero di Eric Gans da un lato, e a quello di Serge Moscovici dall'altro, si trova a pag. 48. Riguarda la spartizione dei ruoli tra cacciatori e raccoglitrici. Non si va a caccia perché ne derivi molto cibo, ma perché l'uccisione crea prestigio, e quella di un grosso animale, per cui occorre coesione del gruppo e valore dei singoli, è all'origine della narrativa:

Se gli uomini uccidono una giraffa, ne parlano la sera intorno al fuoco per un anno, prima di abbatterne un'altra.

Non si raccontano storie sulle bacche o sui tuberi.

 

Ed ecco una citazione da un adorabile librettino di Varlam Šalamov, edito da Ibis (Como - Pavia) nel 1994, nella collana Minimalia, tradotto da A. Pasquinelli. L'autore dei terribili e bellissimi Racconti di Kolyma dice qui del suo rapporto ai libri, un rapporto vitale. C'è più sapienza e più dolore in queste poche pagine che in tutta la letteratura e in tutta la testimonianza sui lager tedeschi e sovietici che è stata scritta nel Novecento.

Ho sempre comperato dei libri, un poco alla volta, non fosse che uno ogni mese, ogni due mesi. Quando mi sono sposato, pensavo che sarei stato in grado di raccoglierne per me, da poter annotare, piegarne le pagine, stropicciare e sciupare, lisciarne le rilegature, cogliendo quel fruscio più grato dello stormire delle foglie nel bosco, quello delle pagine di un libro. Pian piano, ad ogni scadenza della paga, compravo qualche libro, e solo ciò che conoscevo già, che sentivo a me caro, congeniale, importante.

Non sono andato avanti molto a raccogliere libri. Al mercato di Tula, a una svendita di libri, avevo comperato una rarità, le opere complete di Leskov in trentasei tomi, editi da Marx: un acquisto inestimabile, per quell'epoca. Qualche giorno dopo fui bloccato in corridoio da mio cognato, che abitava con noi insieme alla sua famiglia. Si trattava di un funzionario di belle speranze della NKVD, già inviato in missione all'estero, un prodotto tipico degli anni '30 di questo secolo. Gli uomini degli anni '20 erano diversi da quelli degli anni '30, e questi erano diversi dagli uomini degli anni '40, dalla nostra generazione del tempo di guerra. L'epoca degli anni '30 è quella della collettivizzazione e dei lager ad oltranza, delle delazioni elevate al grado di prodezze, l'epoca della crudeltà e della perfidia divenute attributi dell'umana saggezza.

Di tanto in tanto quel mio 'parente' perquisiva le camere di suo padre, di sua madre e di sua sorella, a scopo 'profilattico'.

"Sono vostri, quei libri?"

"?!"

"Dico, questo Leskov?"

"Sì".

"Ma andiamo, si tratta di letteratura piuttosto sospetta".

Gli sbattei la porta sul naso. (pp. 25-27)

 

30 settembre 2001