CRONICA PRIMA

Fabio Brotto

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Diciannove dicembre dell'anno 2001. Correggo compiti di latino non avendo come sottofondo le musiche di Elgar o Delius (le migliori per quest'attività), ma ascoltando via Internet le voci dei partecipanti ai cosiddetti Stati Generali dell'Istruzione. Provo una sorta di piacevole orrore. Misuro la distanza siderale che intercorre tra la mia scrivania e il Palazzo in cui si svolge l'allegra riunione morattiana. In Italia solitamente tutti sono o vogliono essere allegri, o almeno sereni. Oppositori e oppositori degli oppositori nel nostro amato Paese han ripugnanza pel grigiore: vogliono essere allegri e colorati. I Cortei contro questo o quello, anche quelli contro la Guerra, sono sempre allegri e coloratissimi, correnti e saltanti e cinguettanti. Vien quasi da lodare gli efferati black-blockers, uomini di poche parole, talebani laici nello spensierato Occidente. Non guardo molto le immagini streaming, ma odo le voci dei partecipanti al, diciamo così, dibattito: ecco un giovane di sinistra che contesta la legittimità del convegno, e preannuncia per domani venti dicembre un grande corteo, molto colorato e gaudioso, ovviamente. E' di sinistra nel fisico, così come il successivo giovane di azione cattolica è tutto cattolico nel fisico, così come la rappresentante di Azione studentesca è nel fisico destrosissima. Tutti e tre sono quello che sono anche nel vestire e nel parlare. Del resto, in Italia è così: il look dice tutto, perché molto da dire, in verità, non c'è.

Odo formule trite, espressioni rituali, identifico feticci verbali, luoghi comuni e bla bla. Mi piacerebbe udire qualcosa di inaspettato, una voce imprevista. Non c'è. Non c'è là a Roma, come non c'è nei corridoi del Ministero, popolati di larve burocratiche, nelle stanze innumerevoli dove albergano i burosauri viventi e mutanti. Dove non ci si estingue, ma si rinasce come nuova specie, donde partono gli impulsi spirituali che trasformano gli ex presidi di scarsa capacità in brillanti dirigenti-manager d'assalto, pronti a contendersi la clientela scolastica a suon di innovazione, per realizzare l'amata e salvifica Competizione.

O parola, come sei decaduta!

Ricordo di aver espresso una forte preoccupazione circa la decadenza ed il radicale impoverimento della lingua scritta e parlata degli studenti già all'inizio degli anni Ottanta. Fin da allora mi appariva evidente come fosse difficile, sempre più difficile, insegnare a pensare, che è il fine supremo di una vera scuola, in assenza di una preparazione linguistica adeguata. Ma i venti hanno spirato in direzione univoca e inequivocabile: da un lato si è imposto un buonismo-permissivismo onnivoro, dall'altro si è lottato contro ogni forma di serio controllo e di repressione dell'errore. Massificazione consumistica e semplificazione del linguaggio dei media unite alla disperata ricerca del consenso di tutte le forze importanti per il Mercato sono confluite con il sinistrismo kefiota [1] degli studenti politicamente impegnati: a determinare un collasso della cultura e la distruzione di ogni residuo di lingua colta.

IL pedagogismo imperante, produttore di infinite scartoffie scritte in un linguaggio pseudo-scientifico e autoreferenziale, ha dato il colpo di grazia alla scuola della cultura, anche tramite il duplice dogma - feticcio del metodo e dell'obiettività. Quello che è sempre sfuggito nei suoi termini reali è il problema della motivazione allo studio. Non può accadere che si studino tutte le discipline con piacere, perché l'essere umano non è fatto nel modo in cui i pedagogisti pensano che sia fatto (hanno in testa uno studente irreale). Potrà piacerne qualcuna. A me non piaceva studiare la matematica e la chimica, tuttavia le ho studiate, perché altrimenti non sarei andato avanti negli studi (non esistevano i sei rossi negli anni Sessanta). Se un obiettivo è giudicato importante, si è disposti a spendere molte energie per conseguirlo, e a compiere sforzi di per sé spiacevoli (come l'atleta s'allena con sforzo e fatica, non divertendosi), che produrranno però risultati valutabili a distanza di tempo. Ma se per gli inadempienti non v'è sanzione, e se il fine non appare allettante, se non si è disposti ad alcun sacrificio per attingerlo, allora non c'è metodo che tenga. Ad esempio: gli insegnanti di Inglese da più di vent'anni a questa parte si sono imposti nella scuola italiana come portabandiera delle nuove metodologie (anglosassoni). Dovremmo constatare nei nostri giovani un'ottima padronanza dell'inglese. Così non è. Di più: mentre è evidente come non ci possa essere oggi una gran motivazione allo studio di greco e latino, lingue morte che servono solo per accedere ad una cultura giudicata finita, si dovrebbe pensare che i giovani si gettino a corpo morto nello studio dell'inglese, lingua di Internet e della musica pop, ecc.. Così non è. Il giovane italiano contemporaneo recalcitra di fronte alla fatica intellettuale, e anche lo studio dell'inglese è fatica, perché non c'è studio che non sia fatica. Si tratta di giudizio sulle fatiche: alcune appaiono degne, altre no. Ma senza disponibilità all'accettazione della fatica, nessun metodo giova, nessuna metodologia ha senso, e il pedagogista metodologo merita solo di essere compatito - sempre che la sua coscienza sia retta e che non sia semplicemente un membro della nomenklatura dell'apparato.

Tutto ha inizio alle elementari, dove le maestre (i maestri sono scomparsi o quasi) pensano che la calligrafia non sia importante, perciò non insegnano anzitutto il modo corretto di tener la penna in mano; e dove molte maestre pensano che anche l'ortografia non sia così importante, di fronte ad obiettivi trascendenti, come la socializzazione, la logica (oh, meraviglia!) ecc..

Tutto prosegue alle elementari, ove il bambino fin dai primi anni apprende la verità fondamentale della scuola: si va avanti lo stesso, ergo non solo non è importante l'ortografia, ma nessun sapere è veramente importante, e neanche il comportamento lo è, poiché bisogna sempre dimostrare comprensione per i diversi, i devianti…

Tutto ha inizio alle elementari, dove l'indisciplina non può ricevere sanzione alcuna: il bambino comprende che non c'è molta differenza tra corretto e scorretto, tra giusto e ingiusto, e che in generale non ci sono differenze .

La scuola occidentale contemporanea è essenzialmente il luogo dell'indifferenziazione: linguistica anzitutto. Ma siccome le differenze esistono, e gli umani non possono farne a meno, e men che mai gli Italiani, la scuola è anche luogo della menzogna, e la differenziazione si sposta dallo scolastico in senso stretto ad altro luogo, e questo luogo è il censo.

O imbecille Sinistra italiana, che non capì che una scuola selettiva è assai meno classista di una che, promuovendo tutti in massa, lascia che siano altri a selezionare!

O imbecille Destra italiana, incapace di cogliere la logica profonda del Mercato come negoziazione permanente tra i diversi, che proprio in quanto tali attuano lo scambio di mercato (anche delle idee, che non si comprano col denaro, ma si acquistano, si offrono, si inter-scambiano)!

Ti lodo, o Casarini, che sposti le tue scalcinate ma volonterose truppe da un capo all'altro dell'Italia, e oltre! Tu sì che sei uno stratega, tu sì che sai far paura a tutti. Hai davanti un futuro radioso: tra qualche anno, ben ripulito e sistemato, dopo un po' di televisione, di Costanzo show e altro, potrai trovare un tuo spazio tra le accomodanti Istituzioni, e menare felice vita, fino a chiudere gli occhi in serena e coloratissima vecchiaia, lieto di aver combattuto la buona battaglia, secondo la formula prima botte, dopo sedie! (Incubo orribile, speriamo che non sia vero).

Se mi dicono moralista, rispondo che solo in Italia è un quasi insulto. E che io sono solo un malista, cioè un realista.

Il vero problema della scuola italiana e occidentale è quello sotteso alla celebre quartina di Oibaf Ottorb [2]:

Non ho voglia di studiare.

Ma chi caz' me lo fa fare?

Io non voglio saper niente:

Non son mica deficiente!

 

NOTA

  1. Emblematizzato dai giovani portatori /portatrici di kefia e di un linguaggio apparentemente alternativo, in realtà standardizzato al massimo - di ciò in altro luogo)
  2. Da Scritti sapienziali e giocosi dei poeti dell'antico Dimorfistan, trad. G. F. Coitis, Edizioni Gallinago, Montefeltro 1925.