Fabio Brotto
La filosofia è
quella cosa di cui ridono le serve: questa è una possibile definizione della filosofia,
che presuppone naturalmente la conoscenza del gustoso aneddoto sulla servetta tracia che scoppia a ridere vedendo Talete
che, intento ad osservare il corso degli astri nel cielo, mette il piede in
fallo e cade in un pozzo. Scorrendo il
menu della kermesse dedicata alla filosofia dalla fondazione culturale “1860 gallarate città” e scoprendo lo spazio assegnato, in quella
lista gastronomica, ai piatti denominati ‘consulenza filosofica’, è difficile
resistere alla tentazione di invertire la definizione da cui siamo partiti nel
modo seguente: le serve sono coloro di cui ride la filosofia (che è poi il vero
significato di quell’aneddoto).
Infatti, mentre il rapporto tra filosofia e
condizione servile può contare su una solida e nobile
tradizione, non altrettanto può dirsi del rapporto tra filosofia e lavoro
salariato. Eppure, guardando certi ‘master’
universitari sull’argomento, forniti del marchio di garanzia offerto da noti
studiosi evidentemente preoccupati di adeguarsi alle leggi del mercato
nel campo della formazione post-universitaria, non era
difficile immaginare che in una provincia come la nostra, stretta fra la
sub-cultura spiritualistica parrocchiale e una cultura consumistica subalterna
ai miti e alle mode correnti, l’idea di
offrire il sapere filosofico sul mercato del lavoro sarebbe stata proposta non
come divertente provocazione ai limiti della goliardia, ma come una seriosa
prestazione professionale venduta sul sempre fiorente mercato delle illusioni.
Il precariato dei laureati in filosofia parcheggiati nelle scuole di
specializzazione post-universitaria o galleggiante, più semplicemente, nel
mercato della sottoccupazione intellettuale è ora avvertito: il ‘philosophical counseling’
costituisce una
preziosa opportunità di riqualificazione e inserimento professionale. Con una
spolveratina di luoghi comuni, un po’ di enfasi aziendalista e una sostanziale incomprensione del modo di
produzione capitalistico è possibile far passare la ‘consolazione della filosofia’ come il contenuto e lo scopo della brillante
carriera del consulente filosofico. In effetti, mancava soltanto l’idea della
‘consulenza filosofica’, la quale sarebbe sublime alla luce della patafisica di Jarry se non fosse
grottesca all’ombra della disoccupazione intellettuale italiana, per proiettare
una luce particolarmente sinistra sulla crisi endemica delle nostre università,
sulla miseria dell’ideologia dominante e sui patetici rappresentanti locali di
quest’ultima (sicuramente inconsapevoli del meccanismo, noto a chiunque abbia letto
Marx, per cui l’ideologo è un individuo che rovescia
il mondo e vi si pone al centro).
Eppure, proprio i filosofi dovrebbero
conoscere non solo la complessità del rapporto tra teoria e prassi, ma anche la
circostanza per cui il divario tra conoscenza,
formazione e mercato del lavoro, oltre ad essere incolmabile, non è uno spreco,
ma un principio di civiltà. Circostanza, questa, che resta un
libro chiuso con sette sigilli in tempi che hanno visto progettare e attuare le
riforme della scuola (non da Condorcet ma) da Letizia
Moratti, la cui ottica non supera il raggio modesto
del calcolo ragionieristico dei costi e dei benefici. Accade così che,
tra i flutti e le bonacce di un mercato del lavoro dominato dalla spietata
triade liberista della precarietà, della flessibilità e della mobilità, ci sia
chi si adopera per legittimare con il marchio della ‘consulenza filosofica’ e con il certificato dello ‘spirito imprenditoriale’ fragili identità culturali, sospese tra
psicoterapia, sociologia e filosofia, e improbabili percorsi professionali,
oscillanti tra formazione del personale, mediazione sociale e gestione del
disagio personale. Eppure i filosofi (ammesso che tale qualifica sia
estensibile al ‘servum pecus’ in parola) dovrebbero sapere che non nell’affannosa
ricerca di applicazioni monetizzabili della propria disciplina, ma semmai
proprio nell’assenza di applicazioni, nella familiarità con il lavoro
dell’astrazione, nell’‘otium’ della riflessione, c’è
sia qualcosa di monetizzabile (e, ahimè, di sfruttabile) nei processi di
produzione del nostro tempo sia qualcosa che li supera e li disartìcola
attraverso quella libertà del pensiero e quella gratuità dello scambio di
conoscenze in cui è racchiusa ogni proiezione verso il futuro. Per il resto i preti, gli uffici del personale, le consulenze
televisive di Paolo Crepet, i filosofemi di Umberto Galimberti e i sociologemi di
Francesco Alberoni sono più che sufficienti.
Credo perciò che sarebbe una bella sfida per i sostenitori del ‘counseling’ filosofico introdurre questa pratica in un ‘reality show’, come quello, tanto per fare un esempio, intitolato ‘Music Farm’, ad una scena del quale mi è capitato di assistere domenica 16 aprile, provando, come di solito succede in questi casi, un misto di orrore e di fascinazione: da una parte, il prete dei vip, degli emarginati e della televisione, il noto don Antonio Mazzi, vestito con i paramenti sacerdotali, in atto di innalzare il calice dorato nell’Offertorio e, dunque, impegnato, all’interno del ‘sancta sanctorum’ della odierna videocrazia, nella celebrazione della Santa Messa pasquale; di fronte a lui, più rintronati che compunti, gli ‘attori’ di questo inèdito spettacolo: uno spettrale Franco Califano, prototipo televisivo del ‘vecchio malvissuto’ di manzoniana memoria, e alcuni altri ‘desperados’ oscillanti tra l’‘emancipato’, il furbesco e l’accidioso.
Per la verità, il ‘counseling’ filosofico, inserendosi in un supermercato di
offerte di valori esistenziali e spirituali già ampiamente gestito da altri
tipi di ‘counseling’ come quello psicologico e quello
religioso (senza contare quello astrologico), potrebbe, qualora questa offerta
generasse una domanda (sulla qual cosa abbiamo espresso testé i nostri dubbi),
utilmente esercitare un’azione calmieratrice sulle tariffe
della prima categoria di ‘counselors’ e svolgere una
funzione riequilibratrice, magari in senso
laicizzante, rispetto ai professionisti della seconda. Sennonché, pur
apprezzando questi possibili effetti secondari, ritengo che, come si usa dire
nel gergo aziendalistico di questi tempi sempre più
goffamente neoliberisti, il ‘valore aggiunto’del ‘counseling’
filosofico risieda nell’integrare il significato profondo del meccanismo che
governa i ‘reality show’ e
fa di essi una pregnante, anche se inconsapevole, metonimìa
della vita contemporanea: l’essere, appunto, un modo attraverso cui la
televisione rappresenta e celebra se stessa. Esattamente come accade con la
religione (la quale dunque, soprattutto nella sua versione cattolica, non è per
nulla fuori posto all’interno di questo meccanismo autoriflessivo e metaspettacolare) e come potrebbe accadere con la
filosofia, ovviamente nella versione pragmatica e mercantile del ‘counseling’ (a quando
l’inserimento, all’interno di un ‘reality show’, con fini pubblicitari e in veste di pensosi e
saccenti ‘counselors’, di ‘Popularphilosophen’
già ampiamente sperimentati nei ‘talk show’, come
Stefano Zecchi e Giulio Giorello?).
Essendo perciò convinto sia della libertà della filosofia, che coincide con la sua radicale inutilità rispetto a fini immediati (ma anche con una concezione più vasta e più profonda dell’utilità), sia del carattere oggettivo della sussunzione reale, da parte del capitale, di questo tipo di pratica della filosofia, denominato ‘counseling’, vorrei offrire a coloro che parteciperanno al Festival di Filosofia gallaratese il viatico, che spero possa essere corroborante per il loro spirito critico, del seguente apologo. Un mendicante sogna di un miliardario; quando si sveglia incontra un ‘consulente filosofico’ il quale gli spiega, citando Hegel, che la libertà dello spirito è indifferente alle condizioni concrete in cui si esprime, poiché può incarnarsi tanto in uno schiavo come Epitteto quanto in un imperatore come Marco Aurelio. “Strano”, osserva il mendicante.
In realtà, lo stupore del mendicante è più che giustificato, poiché i valori spirituali, di cui il ‘consulente filosofico’ tesse l’apologia, portano il marchio del mercato non spirituale: il valore di scambio. Nulla è per sé, tutto è per qualcos’altro; il pragmatismo di stampo nordamericano regna supremo; la religione e la filosofia (per non parlare della psicologia) degenerano in una formula televisiva: si usano la mattina presto per potersi sostenere attraverso una giornata senza gioia, mentre l’individuo viene indotto a credere che, grazie all’aiuto del ‘counseling’, il funzionario imparerà a controllare lo ‘stress da risultato’, la vedova ad elaborare il suo lutto, l’insegnante a superare la sindrome del ‘burn out’, lo studente ad affrontare l’insuccesso scolastico e - perché no? - l’operaio a gestire la perdita del suo lavoro, in modo tale che l’alienazione scorrerà via per lo scarico, come lo sporco in un lavandino sfavillante.
Mornago, 25 aprile 2006.
MINISTRO. Ecco il nuovo Governo, ecco il Governo Prodi 2. Si poteva forse auspicare che i ministri che lo compongono oltre che numerosi—cosa di cui nessuno può dubitare—fossero anche competenti—cosa di cui qualcuno ora potrebbe anche dubitare, e non certo solo gli elettori di centro-destra. Prendiamo, non a caso, il Ministro della Pubblica Istruzione. Volevate per l’alto incarico, colleghi docenti, uno che sulla scuola avesse riflettuto, non dico per l’intera esistenza, ma per qualche anno? Eravate, nella vostra follia, arrivati a pensare ad un Asor Rosa? Avevate ritenuto che, per rispondere a quella centralità dell’istruzione che è proclamata nel Grande Programma Prodiano, si sarebbe nominato un politico di rango? Eccovi serviti: il nuovo Ministro è il celebre Giuseppe Fioroni! Un valente medico, che nei suoi anni trascorsi in Parlamento ha generato qualche leggina riguardante la sanità pubblica. Uno che di scuola non si è occupato mai. Uno vergine. Una tabula rasa. Ma la Moratti… La Brichetto alias Moratti rispondeva ad una visione ben precisa. Il Governo Berlusconi la scuola la intendeva come un’Azienda, e così aveva scelto una manager. Prodi la intende forse come un Ospedale, per cui ha scelto un medico? O forse erra dal vero, perdendosi nella nebbia, il mio pensiero? Forse… oso appena intuirlo… oh, orrore! Forse la scelta di Fioroni discende da una pura logica di rapporti bruti, prima entro la dolce Margherita, poi nel Governo intero?
IPOCRISIA. Che la scuola italiana di oggi sia un luogo di ipocrisia, in cui all’ipocrisia, ahimè, si educano i giovani, è rivelato da molti fenomeni. Ad esempio, dal modo in cui procede il cosiddetto Orientamento nella scelta della facoltà universitaria. Nelle Università, infatti, a causa delle provvide riforme degli anni recenti, i corsi si sono accresciuti a dismisura, in numero e bassa qualità. Come in una metastasi, le cattedre hanno iniziato a scindersi, a produrre doppi, ad agglomerarsi in nuove entità dinamiche e mai sazie. Con una proliferazione di corsi di laurea davvero affascinante per varietà. In una facoltà giuridica potremo avere la cattedra di storia degli studi di diritto romano nel Bellunese, con relativi crediti, in una di lettere il corso di laurea in Fumetti e Manga giapponesi. E così variando. Le grandi istituzioni storiche si sono trasformate in organismi alla perpetua ricerca di cibo (gli studenti), che esse debbono fagocitare in misura crescente per sopravvivere. E come quei pesci abissali, che attirano a sé ignari pesciolini più piccoli agitando un peduncolo che sta proprio sopra la loro enorme bocca, in modo che quelli, scambiandolo per un appetitoso vermetto, si avvicinino tanto che un improvviso risucchio possa farli finire nella bocca del predatore, così le Università del Belpaese inondano le scuole superiori di luccicanti depliant, di CD ed altri ammennicoli, volti ad affascinare ed attrarre. Il loro diabolico intento è indurre in iscrizione. Le scuole superiori, che non vogliono essere da meno, coinvolgono i discenti degli ultimi anni in numerose iniziative di Orientamento. Sono incontri, conferenze, happening di vario tipo, che dovrebbero recar luce alle menti dei giovani, ottenebrate dalla troppa offerta. Molte sono quindi le ore che vengono sottratte all’orario del mattino, molte le lezioni perdute. Ma a chi importa? Agli studenti no, ne sono contenti. Si dirà che la loro preoccupazione fondamentale è la scelta universitaria, che le lezioni vengono dopo. Però se gli incontri di Orientamento li organizzate al pomeriggio, non ci viene nessuno. Tanto vitale per loro dunque quest’Orientamento non è. Ben più vitale la passeggiata in centro o lo spriz con gli amici. Questo però nessuno lo dice, e tutti fingono di credere che l’Orientamento sia indispensabile. Non è ipocrisia?
FINE. Mi accingo a terminare la mia carriera scolastica. Penso che prenderò un anno di congedo, e chiederò di essere messo a riposo dal settembre 2007 (coi 57 + 35). Non ho alcun rimpianto. Quel che potevo dare alla scuola l’ho dato. Una scuola che non sa distinguere gli insegnanti che valgono molto da quelli che non valgono una cicca, e anzi premia questi ultimi, non può dar luogo a rimpianti. La lascio volentieri. Non è la mia scuola. Vorrei poter pensare, col protagonista de Il patibolo di Čingiz Ajtmatov (Placha, 1986, trad. it. di E Klein, Mursia , Milano 1988): “Quello era un altro mondo. Il suo mondo irripetibile e insostituibile era perso, non esisteva più. Quella era la sua immensa tragedia, la fine del suo mondo…” (p. 352). Ma non posso. Questo non è il mio mondo. L’ho abitato da straniero.
18 maggio 2006 A.D.