CRONICA L

Fabio Brotto

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Berlinguer e l'Aggiustatore. Qualche giorno fa, nell'ambito del dibattito tra le varie componenti del nascente Partito Democratico, è saltato fuori un Appello per il sapere, firmato tra gli altri da Giuseppe Fioroni e Luigi Berlinguer, appello che si presenta come semplice elenco di luoghi comuni, banalità, falso buonismo e buoni propositi, cui nessuno che sia dotato di un grano di sale può minimamente credere. Si comincia maluccio, direi. Ma già quell'accoppiata tra Ministro ed ex Ministro della Pubblica Istruzione doveva far riflettere. Soprattutto coloro (e non sono pochi) che vedono Fioroni come portatore – come dire? – di tradizionale ragionevolezza. Dovrebbe ancor più far riflettere la breve ma molto illuminante intervista rilasciata da Berlinguer a Giulio Benedetti, e pubblicata sul Corriere della Sera del 6 settembre (vorrei chiamarlo di nuovo il Corriere dello Zar, come faceva un foglio di sinistra tanti, tanti anni fa). L'intera pagina 6 è significativa del clima attuale. Titolone: Sanzioni ai prof assenteisti e medie più dure. Titolo dell'intervista a Berlinguer: Berlinguer: La mia riforma ha resistito. Ora sono possibili le pagelle ai docenti. Non occorre essere degli esperti della comunicazione massmediatica o dei semiologi raffinati per comprendere il senso di una titolazione del genere. Il problema della scuola sono i professori.

L'intervista va letta attentamente, e pesata parola per parola.

Chiede dunque il giornalista. "Professore, il ministro Fioroni sta smontando la riforma Moratti. Ha l'impressione che sia stato svitato qualche pezzo della sua riforma?" Noi abbiamo sempre sostenuto che tra la Signora Brichetto alias Moratti e Luigi Berlinguer non vi fosse una sostanziale differenza, e che ciò che appariva in essi fortemente divergente fosse soltanto marginale: abbiamo anche chiamato le due riforme riforma B&B, a indicare che in fondo la visione della scuola era la stessa ( soprattutto nel modo di intendere la modernizzazione e il ruolo – miserevole – dei docenti). Ma il Ministro del Concorsaccio e della distruzione dell'esame di maturità risponde: "No. mi sento fortemente valorizzato [corsivo mio] dagli interventi di Fioroni. Sono prima di tutto per la scuola di qualità, solo che penso che deve essere equa e deve poter insegnare a tutti". Ovviamente, a questi Sinistri per decenni non è passato per la testa il sospetto che l'equità realizzata in quegli stessi decenni fosse essenzialmente una dequalificazione degli studi, che ha privato gli allievi poveri migliori della possibilità di affermazione sociale, e rafforzato l'egemonia delle classi ricche, che si possono permettere il master ad Harvard. Ma tranquilli, si stanno svegliando, come si vedrà fra breve.

 

La seconda risposta è divertente. Chiede Benedetti: "Sintassi, grammatica, ammissione all'esame di terza media, non è un ritorno al passato?" Si noti che in Italia un ritorno al passato è sempre cosa abominevole, a prescindere dalla questione se il passato sia migliore o peggiore del presente. Sempre avanti bisogna andare, il futuro è un sole abbagliante. Amena risposta di Berlinguer: "Fioroni non è un restauratore. È un aggiustatore che spinge in avanti". D'ora in poi per me Fioroni sarà l'Aggiustatore.

 

La risposta alla terza domanda sembrerebbe mostrare un Berlinguer che si rende conto dei disastri del passato. Ma qui si dimostra invece come per lui non vi sia un passato. Benedetti: "Pone l'accento sulla serietà, che talvolta assomiglia molto alla severità?" Risposta: "Mi riconosco al 100 per cento nell'idea che una scuola equa e per tutti se non è seria diventa ingiusta perché fornisce un esercizio educativo [corsivo mio, a indicare la mia ignoranza della pratica cui il sapiente ex Ministro allude] scadente mentre i benestanti trovano da soli la soluzione". Oh anima candida! O dolcezze perdute! O memorie/D'un amplesso che l'essere india!... Ma siamo al Ballo in maschera, vero? Solo che non mi è chiaro chi pensi di essere Berlinguer. O forse qui parla un altro, indossando una maschera che ne riproduce le fattezze... Perché Berlinguer ha collaborato non poco a creare una scuola che fornisce un esercizio educativo scadente. Ma il meglio sta per venire.

 

Quarta battuta. Berlinguer è un genio della sintesi. Benedetti: "Fioroni è riuscito a sistemare i prof fannulloni". Eh sì, altro che Tex Willer-Cofferati, che ha sistemato un po' di gentaglia, dalla qualifica bassa, senza laurea. Fioroni l'Aggiustatore è andato giù duro, li ha liquidati tutti. Essendo nel West, il Berlinguer-Lynch si limita a rispondere "Ben fatto". A proposito, fra poco si vedrà che "liquidare" è verbo che a Berlinguer, che da puer deve aver amato Stalin, piace molto.

 

Alla quinta battuta salta fuori la questione del merito, che va di moda. Benedetti: "Riuscirà anche a premiare il merito, tentativo che a lei, molti anni fa, costò caro?" Egli risponde: "Se cambiamo la didattica dobbiamo valutarne i risultati, è inevitabile. Così si noteranno meglio i fannulloni. Credo che ora la maggioranza dei docenti ci starà anche perché lavora seriamente". Una ossessione dei Sinistri alla Berlinguer (ce ne sono anche tra i docenti, eccome!) è cambiare la didattica. Credo che l'abbiano cambiata molte volte negli ultimi decenni. Insistono. Il cambiamento non è mai sufficiente. La scuola che cambia è cosa loro. Sono figli di Proteo, lettori accaniti delle Metamorfosi. Si noti l'insistenza berlingueriana sui fannulloni, e l'idea che ora la maggior parte dei professori ci starà anche perché lavora seriamente. Ci starà a far cosa? Una sorta di replica dell'idiozia del Concorsaccio? E questo significa che coloro che lo hanno respinto (come anch'io feci) non lavoravano seriamente? Infine il fannullone è termine rivelativo: il docente bravo è quello che fa, non quello che pensa e fa pensare. Qui c'è la cultura del fare, signori, quella del pensare è roba da reazionari. La gente non deve pensare troppo, ché fa male. E soprattutto non deve assumere un atteggiamento critico, come  quella massa di fannulloni che ha affossato il Concorsaccio.

 

Ed ora la parte più bella, in cui si vede cadere la maschera, e Berlinguer conferma il suo attaccamento all'anti-sapere, all'anti-cultura, che tutta la sua azione di Ministro aveva rivelato. Domanda: "A proposito di didattica, cosa cambierà?" Risposta: "Nelle indicazioni viene liquidata [corsivo mio] l'idea della didattica fondata sulla lezione tradizionale che parte dalle nozioni generali invece di partire dall'esperienza o dall'aspetto pratico che comprendono tutti. È l'inizio di una trasformazione profonda avviata nei paesi anglosassoni, nordici, ormai anche in Germania". Penso che ciò che Berlinguer e tutti i Novatori chiamano la lezione tradizionale sia semplicemente la lezione, quella che trasmette pensiero, e si fonda sul sapere del docente. Non insisto sull'idiozia sottesa all'"aspetto pratico che comprendono tutti". Qui sta propriamente il nucleo del berlinguer- pensiero (si fa per dire), che si caratterizza per un'antropologia, una psicologia e un'ermeneutica (per non parlare della pedagogia) di un livello che definire primitivo è offendere le popolazioni di cultura tradizionale.

 

Domanda: "Lei non presiedeva una commissione per le scienze e la musica?" Be', certo, le capacità dimostrate da Berlinguer in tutti i settori che hanno avuto la fortuna di godere dei frutti del suo attivismo non potevano non portargli qualche Presidenza. Egli, del resto ha da sempre una missione altissima, quella di combattere battaglie storiche e vincerle. Risposta: "Sì, la presiedo. E forse la novità di queste indicazioni è che abbiamo vinto una battaglia storica: la musica è per la prima volta materia scolastica [strano, io l'ho studiata alle medie, ricordo bene l'insegnante, la prof.ssa Rosati]. Naturalmente non si inizia col solfeggio. Perché prima si suona e poi si legge la musica, così vale per la scienza. Nelle indicazioni è detto a piene mani che la scienza è sperimentazione, oltre ad essere teoria". Chissà se l'ex Ministro ha mai letto Segmenti e Bastoncini di Lucio Russo. In ogni caso, Egli manifesta una coerenza che rasenta il sublime. Le sue convinzioni sono granitiche, inscalfibili. La teoria è per Lui abominevole, come tutto ciò che è puro pensiero: occorre che gli allievi facciano, facciano, ché un'ora di giardinaggio vale più di una lezione di grammatica.

 

Benedetti:"Nelle scuole i laboratori sono pochi"

Berlinguer: "I comitati per lo sviluppo della scienza e della musica che io presiedo hanno avuto in questi giorni grazie alla lungimiranza di Fioroni uno stanziamento di 17 milioni di euro più altri 30 nei vari capitoli per istituire una prima tranche di laboratori scientifici e musicali in ogni scuola". Qualche soldo, e todos caballeros. Ah! Forse è qui il motivo dei tagli al sostegno per i disabili, nonostante tutte le affermazioni della necessità di passare dall'integrazione all'inclusione dei diversamente abili (o genio italiota dell'etichetta verbale!). I soldi per la musica bisognava prenderli da qualche parte...

 

Il Partito Democratico inizia il suo cammino. Per quel che riguarda la scuola e la cultura, con persone affidabili come Berlinguer e l'Aggiustatore. Auguri sinceri.

 

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La questione giovanile fra illusioni, devianza e precarietà. Ricevo da Eros Barone questo scritto, che inserisco nella presente Cronica come degno di riflessione.

  La manifestazione dei ‘papa-boys’ a Loreto, se da un lato mostra la capacità di mobilitazione di massa della Chiesa, dall’altro conferma, oltre al carattere illusorio degli obiettivi di tale manifestazione, il ruolo, che esprime l’essenza storica della Chiesa e ne spiega la ‘lunga durata’, di apologia indiretta del potere esistente (da quello costantiniano a quello feudale, da quest’ultimo al potere borghese-capitalistico). Sappiamo, dunque, fin d’ora a che cosa serviranno le ‘divisioni’ giovanili del Vaticano passate in rassegna a Loreto: a impedire, in nome della pratica della ‘carità’, l’attuazione della giustizia.

   Sennonché questo raduno ci ricorda anche un altro fatto, e cioè che la questione giovanile è diventata, come altre questioni sociali del nostro tempo e del nostro Paese, un oggetto misterioso. Eppure, un’indagine e un approfondimento della condizione giovanile sono tanto più necessari quanto più bassa, e non da ieri, appare oggi la soggettività giovanile e quanto più una siffatta ricerca procede in controtendenza rispetto ad una situazione che vede i giovani prevalentemente come oggetto, e non come soggetto, del discorso, dell’analisi e delle proposte che li riguardano.

   Articolerò questa riflessione, che concerne un tema cruciale per il futuro della sinistra e del nostro Paese, in tre parti: un’interrogazione, una provocazione e una conclusione.

   Comincio dall’interrogazione, formulando appunto una domanda: che posto trova nell’immaginario dei giovani e nella loro memoria storica una qualche idea, sia pur vaga, di quei loro coetanei di poco meno di cento anni fa, a cui sono intitolate piazze, larghi e vie delle nostre città? Quei giovani, che fra il 1917 e il 1918 avevano meno di vent’anni, formarono l’ultima leva che fu inviata al fronte per andare a combattere, a morire o – e questa fu la sorte dei più fortunati – a restare per sempre segnati nella carne e nell’animo da quella terribile esperienza di atroce violenza che fu la ‘grande guerra’, una guerra di grandi masse, basata su una mobilitazione totale che saldò fronte interno e fronte militare, come mai era accaduto in precedenza e come accadrà poi sino alle ultime guerre di questi anni  contro la Jugoslavia, nel Kossovo, contro l’Iraq e in Afghanistan. A quella generazione furono riservate, nondimeno, altre esperienze di grande importanza storica: dalbiennio rosso’ al fascismo, dalla seconda guerra mondiale alla Resistenza.

   Il contrasto con le ultime generazioni è palese: se si esclude l’impegno nel volontariato, quali esperienze di importanza storica paragonabile a quella che contraddistinse le esperienze che ho testé richiamate può iscrivere nel suo ‘album di famiglia’ una generazione il cui nome sembra scritto sulla sabbia? Forse è meglio che sia così, se dobbiamo prestare fede a quel poeta che giustamente compiange i popoli che hanno bisogno di eroi; forse è meglio che i giovani facciano le loro esperienze nel campo della realtà virtuale, navigando in Internet, oppure scambiando il divertimento con lo stordimento nelle discoteche oppure… oppure… (lascio al lettore la facoltà di aggiungere altre esemplificazioni della condizione giovanile in quella che Emil Luttwack, un politologo statunitense, ha definito, riferendosi all’Occidente, l’età post-eroica).

   Esiste, dunque, nella percezione dei giovani di oggi, un qualche rapporto psicologico e morale con i giovani di allora? Ebbene, se la risposta dovesse essere negativa, se, cioè, non esistesse alcun rapporto, se la percezione di quegli eventi sfumasse nell’indistinto, ciò significherebbe che è intervenuta una cesura storica profonda che non può non preoccupare sia la società civile sia la società politica di questo Paese, perché investe i temi nodali dell’identità nazionale e della cittadinanza repubblicana.

   La seconda parte di questa riflessione ha un carattere un po’ provocatorio: lo scrivente appartiene, infatti, alla generazione dei ragazzi del ’68, una generazione che non intende assolutamente idealizzare né tantomeno contrapporre a quella dei ragazzi di questi ultimi anni, anche perché, contrario, come egli è, a fare di tutt’erba un fascio, ritiene che la sua generazione si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento ad ogni costo. Lo scrivente desidera sottolineare che è questa la parte cui si onora di appartenere, la parte che del ’68 conserva una consapevolezza che è fondamentale per chiunque abbia a cuore la crescita civile delle nuove generazioni: ‘chi non fa politica la subisce’. Una consapevolezza che è fondamentale perché aiuta a comprendere che la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata e perciò, da questo punto di vista, è del tutto giusto affermare, come ha fatto Raoul Vaneigem in un aureo libretto dal titolo La scuola è vostra, dedicato per l’appunto al problema della formazione delle nuove generazioni, che « il lassismo non è il soffio della libertà: è la tirannia che prende fiato».

   Purtroppo, la generazione dei ragazzi del ’68, ossia degli attuali ultracinquantenni, non è stata in grado se non in misura assai modesta di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli ‘anni formidabili’ ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono e a volte esprimono in modo palese il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del ’68 li avevano e anche per questo poterono contestarli). Sia chiaro che qui non ci si riferisce ai guru, agli psicagoghi o ai mistagoghi, né tantomeno ai demagoghi, ma ai ‘maestri’ autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo.  

   La storia dell’Italia repubblicana dimostra che tutte le svolte del cinquantennio sono state segnate da un acuto protagonismo giovanile: così fu per la ‘generazione delle magliette a strisce’ che, quando nel giugno del 1960 i nostalgici di un passato vergognoso rialzarono la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita ad una ‘Nuova Resistenza’ e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì Firenze, città-simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale (oggi città-simbolo, ahimè, della peggiore cialtroneria politico-amministrativa italiana, se si pensa alla ‘nobile guerra’ decretata da quel comune diessino ai… lavavetri); così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-’69 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dell’individualismo e del carrierismo. Ma questa è la cronaca degli anni ’80 e ’90 e dell’inizio del ventunesimo secolo, quando la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi, per un verso, nella problematica del disagio e della devianza e, per un altro verso, in quella della sottoccupazione e della precarietà.

   Ed ecco, allora, la conclusione di questa riflessione. Essa si chiama ‘nuovo umanesimo’: unnuovo umanesimo’ adeguato all’epoca della rivoluzione informatica e microelettronica, che, senza nulla sacrificare di ciò che offre l’enorme sviluppo delle forze produttive, di ciò che contiene in sé la possibilità di favorire un’estrinsecazione dei sensi e delle facoltà umane quale mai la storia sperimentale della specie umana ha conosciuto, saldi l’antico al nuovo, il particolare all’universale, il locale al globale, la democrazia al lavoro; un ‘nuovo umanesimo’ che riconosca nel lavoro e nella lotta per affermare i diritti sociali connessi al lavoro gli àmbiti fondamentali e fondativi della formazione e della liberazione della personalità umana; un ‘nuovo umanesimo’ che faccia della giustizia e della libertà, nonché della pace, la quale senza le prime due è solo una maschera dello sfruttamento, del privilegio e del sopruso, le passioni più potenti di una democrazia rinnovata; un ‘nuovo umanesimo’ che si nutra di sincerità, di coraggio e di coerenza, virtù tipicamente giovanili, ma che, se praticate, mantengono giovani anche gli adulti e gli anziani; un ‘nuovo umanesimo’ che riscatti i giovani dalla passività sociale, dalla depressione culturale e dall’irresponsabilità politica e lotti, quindi, per affermare i valori della solidarietà con i popoli e con le classi oppresse, per garantire il rispetto e la difesa dell’ambiente, per realizzare una scuola formativa, per fare di una società multiculturale una società interculturale, salvaguardando le specificità senza ghettizzarle e, insieme, promuovendo non solo la ricerca e la discussione, ma anche l’iniziativa e l’organizzazione su un tema, la questione giovanile, che, è bene ripeterlo, è un tema cruciale per il futuro del nostro Paese.

 

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