Eros Barone
Bildung ist Bindung. È di Spinoza la massima: “Humanas res nec lugere nec
indignari, sed intelligere” (intorno alle cose umane non versare lacrime
né esprimere indignazione, sfòrzati invece di
comprenderle).
Orbene, a partire dalla tragica fine di un
ragazzo che muore in classe a causa di una ‘overdose’
di ‘crack’, passando attraverso i molteplici episodi
di bullismo e di violenza sessuale, per giungere al declassamento sociale e
professionale degli insegnanti, assistiamo ad una caduta verticale delle
capacità educative delle famiglie, della società e della scuola. L’ipotesi
esplicativa che ritengo di poter formulare è che tale impressionante caduta dei
codici simbolici che regolano i comportamenti sociali
e civili (una vera e propria catastrofe antropologica, la cui drammatica
percezione, trentun anni dopo la morte di Pier Paolo Pasolini,
dovrebbe accomunare laici e cattolici o, per usare, giust’appunto,
una bella metafora pasoliniana, ‘spartani’
e ‘ateniesi’) dipende dalla progressiva erosione e
tendenziale distruzione dei legami sociali, entrambe connesse inscindibilmente
alle politiche neoliberiste.
Queste ultime, dopo aver determinato lo sfilacciamento del tessuto connettivo economico, civile ed etico-sociale, vengono ora
convertite, all’insegna del rozzo binomio ‘western’
di ‘legge e ordine’, in politiche sempre più
autoritarie e securitarie da classi al potere che
sono sempre più dominanti e sempre meno dirigenti, non avendo letteralmente
nulla da proporre sul piano dei valori, come, da ultimo, ha dimostrato in modo
lampante il modello ultracompetitivo e arcimercantile, ad un tempo selvaggio e
miserabile, proposto recentemente dal presidente della Confindustria
(né, d’altra parte, si può considerare qualitativamente diverso, anche se di
grado più temperato, il modello proposto e incarnato dalla destra tecnocratica
ed elitaria attualmente al governo, mentre sulla destra populista e
pubblicitaria berlusconiana non vale neanche la pena
di soffermarsi).
Mi preme allora, muovendo da queste
premesse, sollevare due problemi di ordine teorico,
che i processi or ora evocati pongono all’ordine del giorno dell’agenda di
coloro che intendono contrastare e, possibilmente, invertire la direzione di
marcia regressiva verso cui procede la nostra società.
Il primo è quello della demistificazione
critica della ideologia individualista, oggi
dominante, che concepisce la società come una serie di esseri isolati gli uni
dagli altri che intrecciano tra loro relazioni di tipo utilitaristico e
contrattuale e guarda, di conseguenza, all’individuo come ad un microcosmo
separato e autosufficiente rispetto al contesto sociale, storico e culturale,
in cui è invece profondamente inserito e da cui è profondamente condizionato.
In realtà, occorre cambiare ottica e, tenendo presente l’assioma di Marx
secondo cui “l’uomo è il mondo dell’uomo”, occorre guardare al problema (e ai
problemi) dell’individuo come ad un ‘mondo’, per l’appunto, in cui tra l’intimità più profonda e
l’esteriorità più assoluta non c’è, come nel nastro di Moebius,
alcuna soluzione di continuità, cosicché alla fine interno ed esterno risultano
indiscernibili.
Il secondo problema, che occorre
affrontare per interpretare correttamente le situazioni di rischio, disagio e
devianza, che si manifestano nella società e, segnatamente, nella scuola, nonché per delineare un
percorso attraverso cui le parole e le azioni della cittadinanza
(istruire/educare/prevenire/includere) si trasfòrmino
in relazioni di etica sociale e di
senso, il secondo problema, dicevo, è la riscoperta della sfera del desiderio,
che è una sfera eminentemente relazionale e sociale.
In questo senso, è giusto osservare che ciò
che oggi inquieta gli insegnanti, i formatori e gli educatori è che la società
attuale sembra non essere più in grado di proporre ai giovani la loro
inclusione sociale come frutto e fonte di un desiderio profondo.
Traducendo nel linguaggio della sociologia
contemporanea, è questo il volto della ‘società liquida’,
che Zygmunt Bauman ha
definito in tal modo per mettere in risalto l’azione corrosiva esercitata dal
capitalismo sulle strutture tradizionali delle società precapitalistiche
e sulle differenti forme di organizzazione della
stessa società capitalistica: “La borghesia non può esistere senza
rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di
produzione, dunque tutti i rapporti sociali”.
Marx aveva compreso la potenza della
produzione capitalistica, che è, insieme, creazione e distruzione, che produce,
insieme, nuovi rapporti sociali, ma anche rifiuti sociali ed emarginazione, che
gènera, in un crescendo inarrestabile, disagio, malessere, devianza e
criminalità. Non a caso le passioni generate da questa società e dalla sua
cultura sono
definibili, con espressione spinoziana, ‘passioni tristi’ (senso di
minaccia, senso di incertezza e senso di impotenza).
Come fare
allora a riscoprire la potenza del desiderio, fattore che pone in relazione con
gli altri e condizione per generare ‘passioni gioiose’?
In altri termini, come e che cosa fare al fine di collegare la “lotta per il
riconoscimento” con la ricostituzione dei legami sociali lacerati, nella
produzione, nel territorio, nella famiglia e nella scuola, da una società
sempre più individualista e libertaria nelle intenzioni soggettive e sempre più
oppressiva e illiberale nella sostanza oggettiva? Occorre cercare una risposta
a queste domande cruciali, animati dalla duplice consapevolezza che, come
dicono i tedeschi, “Bildung ist
Bindung” (l’educazione è relazione) e che il
conflitto sul terreno dei valori, la gramsciana
“riforma intellettuale e morale”, è un fattore prezioso di crescita per
l’intera società.
Non è forse un segnale inequivocabile di quell’analfabetismo di ritorno che colpisce il ceto politico e istituzionale di questo paese e, in particolare, una sinistra senza popolo e anche senza cultura (o, per meglio dire, con una mezza cultura, il che è ancora peggio)?
Il Sommo Poeta si starà rivoltando nella tomba dopo che i burosauri della Minerva hanno tranquillamente affermato in quella traccia, e chiesto agli studenti di costruirci sopra un tema, che san Tommaso d’Aquino descrive a Dante «le figure di San Francesco d’Assisi, fondatore dell’Ordine dei Francescani, e di San Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Domenicani», laddove, come sanno anche gli studenti più sprovveduti e superficiali, dal testo di quel bellissimo canto della “Divina Commedia” risulta che san Tommaso d’Aquino si limita a raccontare la vita di San Francesco e che, quanto a San Domenico di Guzman, di quest’ultimo parlerà Bonaventura di Bagnoregio nel canto successivo, ossia nel dodicesimo canto del “Paradiso”. Chissà se quegli asini calzati e vestiti, che in teoria dovrebbero assicurare la serietà e il rigore degli studi scolastici superiori in questa Repubblica, sanno che questo è un chiasmo, ossia una figura retorica di tipo sintattico che consiste nella disposizione incrociata degli elementi costitutivi di due proposizioni fra loro collegati? Infatti, San Tommaso, che è un domenicano, tesse l’elogio di San Francesco; Bonaventura, che è un francescano, quello di San Domenico (e ognuno dei due termina criticando le degenerazioni dell’Ordine cui appartiene).
Sicché, ben si attagliano alla riprovazione del pressappochismo e dell’incultura di cui ha fornito un preclaro esempio, in questa occasione così come in altre, il Ministero della Pubblica Istruzione (!), i versi in cui Bonaventura di Bagnoregio stigmatizza la degenerazione dell’Ordine dei Francescani: “La sua famiglia, che si mosse dritta / coi piedi alle sue orme, è tanto volta, / che quel dinanzi a quel di retro gitta”.
Come non dare ragione, infine, al grande grecista e filologo Mario Untersteiner allorché, con animo certamente esacerbato dallo spettacolo dell’ignoranza (intesa anche qui come sinonimo di una mezza cultura) congiunta all’incoscienza e alla presunzione, modificò il primo articolo della Costituzione italiana in questi termini: “L’Italia è una onagrocrazia dispensata da ogni lavoro serio”?
Il 'gesto' di Gramsci. Il lettore che oggi, a settant’anni dalla morte di Gramsci, dedichi la sua attenzione alle osservazioni e alle riflessioni dei “Quaderni del carcere” non faticherà a rendersi conto che il carattere paradigmatico della scepsi e della teoresi gramsciane, non meno che del suo “sarcasmo appassionato”, si fonda, più che su un compatto sistema speculativo, articolato in un ‘corpus’ di risposte e di proposte, su una coerente strategia della problematizzazione.
Tuttavia, proprio al fine di orientare questo ipotetico lettore, è necessario anteporre all’oggetto, cioè alle idee di Gramsci, un profilo del soggetto di queste idee, ossia di Gramsci stesso in quanto pensatore, scrittore e dirigente politico.
Secondo Max Kommerell - certamente il più grande critico tedesco del Novecento dopo Walter Benjamin -, la critica ha tre livelli, esemplificabili in tre sfere concentriche: quello filologico-ermeneutico, quello fisiognomico e quello gestuale. Il primo livello sviluppa l’interpretazione dell’opera, il secondo la situa in base alla legge della somiglianza, il terzo mira a coglierne il senso e l’intenzione riassumendoli in un gesto (o in una costellazione di gesti). Va da sé che ogni autentico critico passa attraverso tutti e tre questi àmbiti, soffermandosi, secondo la propria indole, più o meno su ciascuno di essi.
Ma che cos’è - nella prospettiva delineata da Kommerell - un gesto? Ebbene, se l’intenzione ultima dell’opera è da ricondurre alla centralità e alla complessità del tema del gesto, conviene allora sottolineare che il gesto non è un elemento non-linguistico, ma qualcosa che sta col linguaggio nel rapporto più intimo e, in primo luogo, una forza operante nella lingua stessa, lievito e anima dell’espressione concettuale: gesto linguistico definisce Kommerell lo strato del linguaggio che non si esaurisce nella comunicazione e lo coglie, per così dire, nei suoi momenti solitari. Scrive il critico tedesco: “Il senso di questi gesti non si compie nella comunicazione. Il gesto, per quanto cogente possa essere per l’altro, non esiste mai unicamente per lui; solo, anzi, in quanto esiste anche per se stesso, può essere tanto cogente per l’altro. Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari”.
Se, dunque, partendo da questa premessa e depurandola degli elementi psicologistici che certamente contiene, proviamo a domandarci in quale gesto, ricavato dalla lettura dei suoi scritti, è possibile riassumere la personalità di Gramsci, io non ho alcun dubbio sul fatto che tale gesto sia da ravvisare nella ‘compostezza’: compostezza della prosa, ormai da ritenere fra quelle esemplari del Novecento; compostezza del pensiero, la cui classica tessitura invera il modello della ‘humanitas’, che è sintesi di forma e di contenuto, di ‘sapientia’ e di ‘elegantia’; compostezza della ideazione, che si esprime nei concetti portanti della sua ricerca: egemonia, moderno Principe, riforma intellettuale e morale, ordine nuovo; compostezza della educazione rivoluzionaria, che si esprime nel gesto pedagogico e politico del dirigente che non parla ‘ai’ lavoratori ma ‘con i’ lavoratori, rifuggendo dalla facile oratoria comiziale e stabilendo con essi un rapporto basato sulla discussione, sul ragionamento e sul convincimento. Né occorre soggiungere che la compostezza in Gramsci non è mai seriosità o supponenza, ma metodo e insieme concezione, premessa e insieme risultato della coscienza profonda della organicità del proprio pensiero, oltre che a tutta la ‘storia sperimentale della specie umana’, al processo di formazione del pensiero collettivo delle classi subalterne e, in primo luogo, del proletariato rivoluzionario: “coscienza dei fini ultimi e del modo di tradurli in atto”: materialismo storico e comunismo critico.
Vi è, in tale compostezza, qualcosa di eroico, giacché essa, sia prima che durante il periodo della detenzione carceraria, è stata sempre in Gramsci il frutto di un’estrema tensione della volontà e del pensiero, della teoresi e della prassi, sia l’una che l’altra condotte dal pensatore sardo a cimentarsi con i livelli più alti dell’esperienza storica: la teoresi di Marx, di Lenin, di Bucharin, di Machiavelli, di De Sanctis, di Croce, e la prassi della rivoluzione proletaria, della Terza Internazionale, dei Consigli di fabbrica, del Partito Comunista d’Italia.
8 luglio 2007 A.D.