CRONICA  XLV

Fabio Brotto

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Come ho già fatto in precedenti Croniche, anche in questa riporto una conversazione con Alberto Astolfi. Ogni tanto dall'America viene a Venezia, dove è nato, e a Treviso, per incontrarmi. Questa volta abbiamo chiacchierato distesamente, ancora una volta, sulla scuola, a partire dalla lettura di due passi di Adulterio e altri diversivi di Tim Parks e di un passo del romanzo Della bellezza di Zadie Smith. Ecco la registrazione:

 

Brotto. Caro Astolfi, voglio anzitutto proporti di leggere con me un passo alle pagine 140-141  di Adulterio e altri diversivi (1), di Tim Parks. Mi pare che vi siano contenute delle cose che hanno molto a che fare col mondo della scuola e dell'università.

 

Squilla il telefono. È una studentessa della lonta­na Cagliari che vuole sapere quanti punti si può aspettare dalla tesi. Il sistema è complicato. La sua media è solo novantacinque, ma andrebbe tenuto presente che ha fatto tre lingue, e perciò tre esami scritti al quarto anno, cosa che tende ad abbassare la media. La commissione compen­serà dando più punti alla tesi? Se si laurea con più di cento può fare domanda per una borsa di studio. « Quanto dev'essere lungo il riassunto in inglese?». È nervosa. In sottofondo si sente un uomo urlare qualcosa. Forse suo padre. « Circa il 10 per cento della lunghezza totale » mi trovo a rispondere. E lo faccio automaticamente, senza difficoltà. Perché se è vero che in questo mo­mento la nostra società, con un vasto e arduo processo, sta disimparando, eliminando e perfino dimenticando tutta una gamma di verità, in cambio otteniamo l’esaltazione dell’efficienza, l’impressione gratificante di fare le cose. Le tesi, per esempio. « Da lasciare sul mio tavolo due settimane prima della consegna le dico perentorio ».

 

Ti rileggo il passo più significativo: Perché se è vero che in questo mo­mento la nostra società, con un vasto e arduo processo, sta disimparando, eliminando e perfino dimenticando tutta una gamma di verità, in cambio otteniamo l’esaltazione dell’efficienza, l’impressione gratificante di fare le cose. Le tesi, per esempio. Non ti pare che qui venga formulata una verità così lampante da accecare la maggior parte di coloro che operano nella scuola e sulla scuola? Io penso, ad esempio, che una delle idee perdute, forse definitivamente, sia quella che un sapere reale costa sempre fatica, e che questa fatica è cosa buona…

 

Astolfi. Comincerei da un punto precedente. All'inizio Parks nota come il sistema dei punti nell'università sia un sistema complicato. Questo ha molto a che fare col genio italico. Personalmente, non ricordo riforme della scuola o di aspetti della scuola che non abbiano comportato una complicazione anziché una semplificazione. La stessa cosa è avvenuta col sistema di punteggio all'esame di maturità, o di stato che dir si voglia. Scommettiamo che se il ministro Fioroni modificherà qualcosa, questa modificazione renderà le procedure ancora più complicate? Su questo, sarei disposto a scommettere metà del mio stipendio, e sai che quello che prendo a Grousehunting è il triplo del tuo. Sai, caro Brotto, che in America l'esaltazione dell'efficienza non è un fatto di ieri. Solo che una volta nelle università americane il docente era misurato sul numero e sulla qualità delle sue pubblicazioni, e vigeva il detto "publish or perish", mentre ora fa carriera chi organizza il maggior numero di convegni, di eventi, tesse relazioni, ecc. Almeno nei dipartimenti umanistici. In quelli scientifici non so. Quindi, forse anche nella scuola italiana di oggi ci si basa molto sull'impressione di fare le cose. Si è, in un certo senso, impressionisti.

 

Brotto. La scuola impressionista. Bellissima immagine. Una scuola che si fonda su qualcosa di così inconsistente… Si comincia col tentativo di impressionare i possibili iscritti e i loro genitori negli Open Days, in modo da indurli all'iscrizione, e si continua poi. Tutti tentano di impressionare tutti, i Dirigenti con la loro aria manageriale e col linguaggio pieno di imput, front office, implementazione, ecc. ecc.; i docenti con programmazioni ridondanti e pedagogismi d'accatto… D'altra parte, a proposito della complicazione, è notevole come ad un sapere sempre più semplificato nella sostanza che viene trasmesso agli allievi corrisponda un apparato burocratico sempre più complesso. Programmazioni annuali elefantiache, sia a livello di singoli docenti che di consigli di classe e di dipartimenti, in un singolare gioco di specchi, producono risultati culturali lillipuziani.

 

Astolfi. Te lo vedi un istituto che si presenta alla possibile clientela dicendo: qui mediante l'impegno continuo e la fatica dello studio si possono ottenere un'ottima preparazione e una cultura solida?

 

Brotto. No non me lo vedo proprio. Un marketing del genere sarebbe fallimentare. Se voglio reclamizzare la mia scuola devo diffondere immagini di studenti gaudiosi che contemplano un video o giocano a pallavolo.

 

Astolfi. È senz'altro così. Vediamo il secondo passo.

 

Brotto. Il secondo è a pagina 162. Tim Parks racconta di suo figlio Michele, che frequenta una scuola elementare in provincia di Verona, dove Parks, che ha sposato un'italiana, risiede da anni. Mi pare che investa un tema centrale nella trasmissione del sapere e nell'educazione, che è quello dell'autorità. Lo stile di Parks è sempre leggero e ironico, anche quando tocca un tasto molto, ma molto, dolente. Con tre figli che hanno fatto le elementari nell'arco di 10 anni, ne so qualcosa.

 

Astolfi. Ai nostri tempi al maestro (io ho avuto maestri maschi) si dava del lei, e lo si chiamava signor maestro. Era una figura dell'autorità.

 

Brotto. Hai già capito dove si andrà a parare. I miei figli hanno avuto un sacco di maestre. Maestre, non maestri, appunto. Tutte femmine. E le chiamavano per nome, dando loro del tu. Ma per non dare sfogo ancor di più al mio animo reazionario, leggo.

 

 La partenza è fissata per il giorno dopo la chiu­sura delle scuole. Devo passare a ritirare la pagel­la di mio figlio e a parlare con le maestre. Miche­le ha preso buoni voti ma - le maestre assumono un'aria solenne - non fa che picchiare i compa­gni. Santo cielo! « Non potete insegnargli la di­sciplina? ». Non possono. Non sono autorizzate nemmeno a sgridare un bambino, figuriamoci ad allungargli uno scappellotto o a spedirlo in corridoio. È un problema di disciplina, dicono. « Appunto! » insisto. Ma una di loro mi dice sot­tovoce: « No, lei non capisce. E un problema di disciplina nel senso che picchia i compagni per­ché noi non possiamo intervenire. Siccome non fanno che chiacchierare, lui dice che non riesce a seguire la lezione ».

Tornando a casa, rifletto che l’autorità batte in ritirata da un capo all’altro del mondo occiden­tale: mi aspettavo forse che la scuola elementare di mio figlio fosse diversa? Se mi chiedessero, ri­fletto al volante della mia macchina non più gio­vanissima, di indicare un’espressione che sta ra­pidamente cadendo nell'anacronismo, una delle prime a venirmi in mente sarebbe « figura autori­taria ».

Forse si sarebbe dovuto tradurre "figura autorevole". Sai che nella scuola elementare che ha frequentato il mio secondo figlio i genitori talvolta protestavano perché le maestre punivano (con compiti in più) i bambini che disturbavano la lezione, si alzavano dai banchi, ecc..?  Le accusavano di non capire le esigenze di bambini così piccoli e pieni di vita…

Astolfi. Non mi sorprende. L'educazione cosiddetta anti-autoritaria si è affermata in tutto l'Occidente. Ma in realtà senza l'autorevolezza nessuna educazione è possibile. E anche la pura trasmissione di un sapere tecnico necessita di una figura docente che abbia un'autorità. E lo dimostra un fatto banale. Pensa a quel che normalmente accade in una classe quando l'insegnante titolare di una qualche disciplina viene sostituito da un supplente o da una supplente. Anche se la supplenza sarà prolungata a comprendere lo scrutinio finale. I ragazzi tendono all'indisciplina. In-disciplina. Cioè tendono insieme al disordine caotico e al non studio. Occorrerebbe ragionare sul fatto che con l'unica parola disciplina si intende sia una materia di studio sia un comportamento corretto e controllato… Non penso che le cose da dieci anni a questa parte, da quando me ne sono andato in America, siano cambiate. La materia non viene studiata bene, o non viene studiata affatto, se non c'è un'autorevolezza del docente. Del resto, anche negli States avviene lo stesso.

Brotto. Il pensiero comune nel mondo della scuola e dell'informazione, e quello che io chiamo il PPD (Potere Pedagogico Dominante), in tutti questi anni hanno convinto l'opinione generale che i comportamenti violenti derivino dalla repressione: ovvero bambini e ragazzi repressi da un'educazione autoritaria ad un certo punto esplodono e diventano aggressivi e violenti. E il nostro sistema educativo si è trasformato nel senso della non-autorità, fino a giungere alla situazione paradossale ben dipinta da Parks. E ora si fa un gran parlare di bullismo…

Astolfi. Potrebbe essere una legge universale della storia e della cultura: prima o poi tutto tende a convertirsi nel suo contrario… Ma è evidente come nelle scuole primarie l'educazione sia oggi fortemente destrutturata. Basta entrare in una qualsiasi scuola primaria e girare per i corridoi orecchiando le voci che provengono dalle classi. Ormai è quasi impossibile trovare una prima elementare in cui i bambini stiano seduti al loro posto per più di dieci minuti… Né viene loro insegnato il silenzio. Mentre si è sempre saputo che se non si impara a tacere non si impara nulla.

Brotto. E non ti pare che questo abbia una relazione col mondo televisivo? Ha mai dato un'occhiata a quei programmi contenitore cosiddetti di intrattenimento, o a quei reality in cui tutti urlano si dimenano, litigano, dicono una insensatezza dopo l'altra, e per questo risultano socialmente apprezzati? Pare che una delle prime cose che il Sistema insegna (e lo fa al di fuori della scuola, con mezzi ben più potenti) sia l'importanza dell'urlare e sgomitare. E poi ci si meraviglia per qualche caso di bullismo! Io tra l'altro devo dire, a proposito del caso del disabile picchiato e sbattuto su Internet, che sono stato indignato, più che nei confronti di quei ragazzi, per il comportamento dei mass media. come sempre cialtroni e disinformati. Hanno subito definito la vittima un down, mentre si trattava di un ragazzo autistico. Essendo io padre di un bambino con autismo, questa approssimazione giornalistica mi ha fatto uscire dai gangheri. Chissà se quando Berlinguer ha ristrutturato la prova di italiano della maturità ha pensato alla modalità articolo di giornale secondo lo spirito dei tempi? Penso ad un compito ideale. Il candidato si è dimostrato capzioso, impreciso, si è fondato su luoghi comuni, non ha mostrato alcuna intenzione di verificare le fonti, ha usato termini errati: ottimo articolo, quindici punti.

Astolfi. Io penso che quei ragazzi che hanno malmenato il loro compagno autistico, una persona indifesa, cioè totalmente incapace di difendersi, non abbiano affatto subito un'educazione di tipo autoritario. Nell'Italia di oggi sarebbe impossibile. La loro violenza ha altre origini. Noi due in effetti siamo convinti che la violenza sia un elemento ineliminabile della vita umana, e che possa essere soltanto differita. Siamo convinti, anche, che più una situazione sociale è destrutturata e tende al caos, più aumenta al suo interno, come in una pentola a pressione, la carica di violenza. Quindi per noi non sono sorprendenti affatto delle situazioni come quella di cui parliamo. Aggiungi la questione del rapporto tra il maschile e il femminile. L'indifferenziazione dei ruoli non può che produrre nei maschi un risentimento che, negli individui psicologicamente più deboli, conduce ad episodi di violenza nei confronti delle donne e di soggetti indifesi come i disabili, o ad aggressioni di branco del tipo tutti contro uno.

Brotto. Veniamo allora all'ultimo passo, quello dal romanzo di Zadie Smith (2).

Astolfi. Che è una bella ragazza…

Brotto. E molto intelligente, e scrive molto bene.

Astolfi. Sai, a me questo romanzo è piaciuto molto per il modo in cui è presentato un dipartimento di lettere in una università americana. Sono proprio così, non manca proprio niente. Anche le sedute, il linguaggio politicamente corretto, il rapporto tra professori e studenti. La prevalenza dei liberal (ovvero della cultura di sinistra, in termini italiani). Il protagonista maschile, Howard, è un classico intellettuale di sinistra, che vorrebbe a tutti i costi apparire anticonformista e decostruire i miti della cultura occidentale, e in particolare la pittura di Rembrandt

Brotto. Toccatemi Rembrandt e metto mano alla doppietta!

Astolfi. Reprimi la tua indignazione e fai attenzione a queste parole. Sono a pagina 183.

Aveva presentato loro un Rembrandt che non era né trasgressivo né originale, quanto piuttosto conformista; aveva chiesto loro di chiedersi che cosa intendessero per genio e, nel silenzio perplesso che era seguito, aveva sostituito al familiare maestro ribelle dei manuali di storia dell'arte un semplice artigiano padrone del suo mestiere che dipingeva tutto ciò che i suoi ricchi com­mittenti gli ordinavano. Howard aveva chiesto ai suoi stu­denti di immaginare la bellezza come la maschera indossata dal potere. Di ripensare l'estetica come un raffinato linguaggio dell'esclusione. Aveva promesso un corso capace di mettere in crisi le loro convinzioni riguardo alla missione redentrice di quella che viene comunemente chiamata arte. « L'arte è quel mito occidentale » aveva annunciato per il sesto anno di fila « mediante il quale ci consoliamo e al tempo stesso co­struiamo noi stessi. » Tutti presero appunti.

« Ci sono domande? » chiese Howard.

La reazione era ogni volta la stessa. Il silenzio. Ma era un genere particolare di silenzio, tipico delle facoltà umanisti­che di un certo livello. Quel silenzio non era dovuto al fatto che nessuno avesse niente da dire... tutt'altro. Si potevano avvertire, Howard poteva avvertire, milioni di cose da dire che ribollivano nella stanza, talvolta così pressanti che sem­bravano scaturire telepaticamente dalle teste degli studenti e rimbalzare all'impazzata da una parete all'altra. I ragazzi fissavano con bramosia la superficie della cattedra, o il pa­norama fuori dalla finestra, o lo stesso Howard. I più timidi arrossivano fingendo di prendere appunti. Ma nessuno apriva bocca. Erano terrorizzati dai compagni, e soprattutto da Howard. All'inizio della sua carriera di insegnante aveva tentato, stupidamente, di far loro superare quella paura con le lusinghe... ora invece la trovava proprio di suo gusto. La paura era rispetto, il rispetto paura. Senza la paura, non c'e­ra niente.

Qui ci troviamo di fronte ad un accademico progressista (di 56 anni, se ricordo bene, quindi un nostro coetaneo) che ha ben poche sicurezze nella sua vita, se non di natura ideologica, e in complesso è un disastro. Ma la reazione del silenzio la conosco bene, è tipica delle situazioni in cui gli allievi si trovano davanti ad un discorso che li colpisce in pieno, che penetra, per così dire, le loro corazze.

Brotto. Che forse è la situazione che un insegnante apprezza di più, se si verifica durante una sua lezione. Il silenzio stupefatto di chi si sente dire qualcosa che lo provoca, che lo sommuove interiormente. È una situazione quasi mistica, ma anche estremamente pericolosa. Ci fu un tempo in cui qualche insegnante dalla forte personalità plagiava gli allievi…

Astolfi. Qui si capisce, caro Brotto, quanto sia delicata la posizione dell'insegnante. Può iniettare nelle giovani menti anche idee radicalmente sbagliate, come fece Toni Negri tempo fa, e come molti fanno anche oggi, con idee diverse da quelle di Negri.

Brotto. Ma se ci si guarda intorno nella scuola italiana, mio caro Astolfi, vediamo che di insegnanti portatori di idee ce ne sono così pochi, che da questo punto di vista gli studenti sono del tutto al sicuro. Per il Sistema Scolastico (SS) le idee sono merce sconosciuta, questione irrilevante. I docenti mica debbono insegnare agli studenti il pensiero: debbono arricchirli di conoscenze e competenze accertabili e misurabili, come tanti mattoncini lego, con cui costruire l'edificio educativo. Possibilmente il tutto deve sempre essere modulare. L'ideale del SS è la ricerca azione, che appunto mi sa tanto di SS.

Astolfi. Ricerca azione, non l'avevo mai sentita, questa. Cosa fanno, cercano gli Ebrei? Mi sa tanto di Einsatzgruppe!

Brotto. Infatti, io li chiamo così. Non sono nazisti (almeno per ora): ma dell'insegnamento hanno una chiara concezione totalitaria. Il singolo docente deve essere un'umile pedina del Reich dell'Istruzione, deve avere le stesse idee (se idee si possono chiamare, io lo nego) dei colleghi, produrre una quantità di documentazione di quello che fa (al di fuori della carta nulla esiste), e così via.

Astolfi. Ma come faranno docenti-burocrati ad essere autorevoli?

Brotto. Ma non abbiamo già detto che l'autorità è in crisi in tutto il mondo occidentale? In verità è in crisi l'autorevolezza personale, non l'autorità del collettivo. L'autorità sta assumendo forme diverse dal passato, è divenuta impersonale, adatta ad una società che nella sua essenza profonda è totalitaria anche quando ha veste democratica. Kafka ed Eichmann, ciascuno a modo suo, l'avevano capito molti anni fa.

Astolfi: Ciò è ben triste, caro Brotto. Andiamo a berci un prosecco. Offro io, stavolta.

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(1)   Adulterio e altri diversivi, (Adultery & Other Diversions 1998, trad. it. di G. Granato, Adelphi, Milano 1998).

(2)   Della bellezza (On Beauty, 2005, trad. it. di B. Draghi, Mondadori, Milano 2006).

 

28 novembre 2006 A.D.

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