Fabio Brotto
ESAMI. Finiti anche quest’anno, secondo la volontà di Dio, quelli che si
continuano a chiamare esami di maturità.
Dove si fa fatica a scorgere la maturità, e anche il mero esame.
Un rito ormai avvertito da tutti come vuoto e inutile, e che
prosegue per forza d’inerzia, attraverso gli eoni.
Che siano esami veri non lo vuole nessuno. In Italia
concorsi ed esami non possono mai essere veri.
(Dei concorsi universitari si sa, degli esami universitari meglio non dire:
tutto vi è ridotto ad uno spezzatino prebollito; dei
concorsi a dirigente scolastico mi
taccio per residuo pudore). Accade allora che, quando in una scuola una
commissione d’esame tenta di fare con una qualche dignità il lavoro
per cui è scarsamente pagata, impedendo copiature di massa, vigilando
sul corretto svolgimento delle prove, assegnando i punteggi in base ad una
valutazione il più obiettiva possibile degli elaborati, ecc., i genitori dei
candidati insorgano, e che sul quotidiano cittadino escano, il giorno dopo la
pubblicazione dei risultati degli scritti, in prima pagina, articoli come
questo.
Oggi cominciano in alcune scuole gli orali della maturità.
Intanto, “voticini” e insufficienze gravi turbano
dopo gli scritti una commissione del Canova. L’amara sorpresa è arrivata ieri
mattina con la pubblicazione della media dei voti delle
tre prove scritte. Davanti al tabellone dei risultati, i maturandi di una
classe del classico piangono lacrime di delusione e i genitori puntano il dito
contro le valutazioni dei professori. Un fulmine a ciel
sereno, visto che la pioggia di insufficienze si è
abbattuta proprio sui più bravi della classe. Per avere spiegazioni, madri e
padri hanno chiesto un incontro con il presidente di commissione. “L’esame non
si è svolto in un clima di serenità – sostiene una
mamma – Le prove sono state valutate in maniera difforme rispetto alle altre
commissioni. Come è possibile che studenti che hanno
sempre avuto voti alti durante l’anno scolastico abbiano preso voti bassissimi?
I commissari sono gli stessi insegnanti avuti per cinque anni”. La rabbia e il
pianto scoppiano di fronte a una sfilza di voti che –
solo in quella terza liceo – vanno dal venti al venticinque. E
per avere la sufficienza si deve almeno prendere un trenta. “Sono stati dati
voti bassissimi; dal tre al quattro in tutte le prove”, sbottano i genitori sul
piede di guerra. Il presidente delle otto commissioni del Canova, il professor
Francesco De Cristofaro, cerca di placare le acque: “Come si fa a chiudere un
occhio di fronte a una versione di greco sbagliata?
Certo, c’erano ragazzi dalle medie-voti molto buone che lasciavano ben sperare.
Ma in ogni esame c’è sempre una parte imponderabile di
rischio. E poi ci può essere sempre la giornata
storta. E’ quello che è accaduto a molti in questo caso”. Di storto, secondo i
genitori, invece, sarebbe andato tutt’altro. A partire da un
clima di “eccessiva severità e rigore” con controlli serrati che non avrebbero
messo a proprio agio gli studenti, in alcuni casi accompagnati persino in bagno
dai professori per evitare il rischio di copiature. Vengono
poi citate “irregolarità” e poca chiarezza nella terza prova: “Un insegnante
aveva detto che ci sarebbe stata matematica tra le materie del questionario e
invece c’era fisica”. Ma si sa che le materie della
terza prova sono sempre a sorpresa.
Scuola e commissione
sono le mie. Inutile precisare che le informazioni trasmesse dall’articolo sono
molto imprecise (ad esempio, la commissione non era affatto turbata, né vi è stata una pioggia di insufficienze
proprio sui più bravi). Questo nel giornalismo è purtroppo la regola. Le
cose in sostanza sono a questo punto: se una
commissione decide di chiudere tutti gli occhi, agevola in ogni modo i
candidati, suggerisce, dà indicazioni tali che all’esaminando non resta che
metterci l’inchiostro, allora tutto va bene, tutti contenti e viva l’Italia; se
si cerca di essere un po’ seri per potersi guardare allo specchio la mattina, e
attuare l’ultima pratica veramente pedagogica sugli allievi-candidati, allora
lo scandalo, le accuse, e le chiacchiere dietro le spalle.
DEGRADO. Altre volte
abbiamo parlato in queste Croniche della
sensazione di un inarrestabile degrado che trascina verso il baratro l’intero
sistema dell’istruzione in Italia. Ma sembra che
questa sensazione di un degrado della scuola sia davvero diffusa a livello
mondiale. Forse dunque si tratta di un qualcosa di transculturale, di immanente allo sviluppo dei complessi sistemi
sociopolitici ed economici che costituiscono, pur nelle differenze reciproche e
talvolta nel conflitto di valori, il nostro mondo dominato dalla techne e dai desideri che essa innesca.
Tutti i sistemi politici hanno come fine primario quello del contenimento della
conflittualità interna, e quindi della violenza che
sempre minaccia ogni società (come si può evincere anche dall’ultimo libro di
Marcello Flores, Tutta la violenza di un
secolo, che mi piacerebbe veder leggere nelle scuole superiori) ed uno
degli strumenti che sono stati adottati per raggiungere questo fine è
l’educazione. I sistemi educativi, per funzionare, richiedono regole comuni
condivise. Le regole del gioco debbono essere chiare
per tutti. Deve essere chiaro, per esempio, che gli anni di studio hanno uno
scopo, e deve esistere una sorta di patto
dell’istruzione, per cui chi si impegna nella
formazione di sé a livello intellettuale sia consapevole che otterrà, al
termine delle sue fatiche, un riconoscimento sociale. E
questo si deve collegare anche alla funzione e al prestigio della classe
docente. Le società che hanno mandato gli insegnanti ad arare la terra (Cina
maoista), o li hanno liquidati (Cambogia dei khmer
rossi) o perseguitati (Iran khomeinista), hanno corso
il rischio di ripiombare nell’età della pietra. (Non ho dimenticato, peraltro,
gli articoli del Manifesto che
inneggiavano, nei primi Settanta, alla folle e criminale Rivoluzione Culturale
cinese, e gli slogan “Operai a scuola – studenti in officina – faremo – in
Italia – come hanno fatto in Cina! ” – la Rossanda
ognora pontificante, dopo tutte le sconfitte delle idee da lei pervicacemente
propugnate, mi fa associare all’incertezza leopardiana, e non so se il riso o
il pianto mi assale.) Ma anche le
società, come quella occidentale moderna, che vivono
nell’ottica a breve termine del consumo, corrono gravi rischi. Il più grave è
quello derivante dallo scollegamento del servizio
dall’istituzione. Ciò vale, ed è
strano solo in apparenza, per la scuola come per l’esercito. Lo Stato paga per
un servizio così le truppe professionali come l’esercito (quante volte sulla stampa abbiamo letto
quest’espressione) dei lavoratori della scuola. Paga meglio le prime, perché il
loro servizio è più prezioso, le competenze richieste sono superiori e il
rischio è maggiore. Infatti si pensa che il militare
(in operazioni di pace) rischi la vita biologica, che nell’ordine dei nostri
attuali valori è quello supremo, mentre l’insegnante alla peggio si brucia la
psiche, ed è molto più grave morire sul campo di battaglia che finire in una
casa di cura psichiatrica. La mente, poi, non è questo
grande valore (e lo dimostrano tutte quelle persone di successo che non ne sono
dotate in misura sovrabbondante).
Nazar Nafisi nel suo Leggere Lolita a Teheran (Reading Lolita in Tehran, 2003, trad. it. di R. Serrai, Adelphi, Milano 2004) mi ha fatto pensare a strane analogie tra situazioni così diverse come quelle della scuola in Iran e in Italia. Basta leggere le righe che qui riporto, dove troviamo delle espressioni su cui la riflessione non sarà mai troppa:
Perché ho smesso di insegnare così all’improvviso? Me lo sono
chiesto centinaia di volte. È stato per il progressivo declino nella qualità
dell’insegnamento? Per l’indifferenza sempre più diffusa tra studenti e
professori? O forse ero stremata dalla lotta
quotidiana contro regole e imposizioni del tutto arbitrarie? (p. 24)
La gioia di insegnare era costantemente
guastata dalle aberrazioni e dalle storture che il regime ci imponeva.
(p. 25)
Dunque, giova ripetere:
progressivo declino della qualità dell’insegnamento;
indifferenza sempre più diffusa tra studenti e professori;
stressante lotta quotidiana contro regole e imposizioni del tutto arbitrarie;
aberrazioni e storture
che annientano la gioia inerente all’attività di insegnamento.
E tuttavia, il libro della Nafisi
contiene un altissimo insegnamento sull’insegnamento. Sull’insegnamento della
letteratura in particolare. La letteratura vi è vista come agente di
liberazione degli spiriti, e soprattutto il romanzo moderno come un potente
agente di formazione dell’individuo. E il bravo
insegnante di letteratura è visto come una mina per ogni ordinamento oppressivo
e totalitario. Una posizione rischiosa. Leggendo la Nafisi,
mi sono venute in mente le parole di Tobin Siebers che ogni anno riporto nei miei programmi di italiano: “Literature stirs astonishment, toughtfulness, and memory. (…) To be human is to tell stories
about ourselves and other human beings. The finally human is literature”.
(Tobin Siebers, The
Ethics of Criticism, Ithaca: Cornell University, 1988, p.240)
FIORONI. Nomen numen:
la scuola fiorirà. Dopo i cinque anni di carestia brichettiana,
torneranno per i docenti gli anni delle vacche grasse, tornerà la fecondità.
Non solo fioretti o fiori, ma fioroni. E infatti il
volto del pingue Ministro reca in sé una lustra letizia. Stabilito che in
Italia non esistono conservatori, che da noi è
impossibile e impudico definirsi tali (reazionario,
poi, è una bestemmia, ed anzi chi affermasse di esserlo sarebbe ritenuto
benevolmente persona incline al motto arguto o scemo patentato), e che nel
nostro Paese è solo questione dell’essere più o meno convintamente
e intelligentemente dediti all’attività riformatrice, è necessario ora
chiedersi dove si indirizzerà, e come, la inevitabile azione riformante del
nuovo Ministro Fioroni. Schola sempre reformanda,
certo, ma anche reformae semper reformandae. A partire dall’erronea convinzione che le
logiche profonde di Brichetto e Berlinguer fossero
profondamente distinte, molti nel mondo scolastico auspicano grandi (di nuovo)
cambiamenti. La sete di novità è immensa, sembra che tutti siano cupidi rerum novarum.
Fioroni, che è stato messo lì donde regna sulla scuola non per particolare competenza
ma per esser amico dei vescovi, ha le idee chiarissime, quasi quanto erano
chiare quello del glorioso suo predecessore D’Onofrio, il cui straordinario
possesso dei congiuntivi gli valse l’incarico di stilare in smagliante forma
italiana i nuovi articoli della Costituzione (reformanda). Ebbe a dire il 21
giugno u.s. il nostro reggitore:
L'autonomia è la vera risorsa della
nostra comunità scolastica, quella sulla quale costruire il futuro della nostra
scuola in un progetto condiviso. Per questo ho emanato il decreto che prevede
la possibilità da parte delle singole scuole di modificare fino al 20 per cento
i curricoli scolastici. Ciò consentirà per il prossimo anno di individuare
percorsi di studio funzionali alle esigenze dei ragazzi e di raccogliere le
opportunità comunque espresse nei diversi territori.
In questo modo sono garantiti il carattere unitario del sistema formativo
nazionale e la valorizzazione del pluralismo culturale.
In questo brano, di
straordinaria limpidezza intellettuale, c’è tutta la visione del Ministro. Anzi,
poiché bisogna farcire il discorso di anglo, la vision. La visione di un politicante
dell’istruzione. Una visione in cui si coglie quel carattere ossimorico
che è forse il proprium dell’essere italiano. Infatti, ecco una comunità
scolastica che ha come vera risorsa l’autonomia.
Credo che qui il Ministro intenda per comunità
l’insieme della scuola. Ma ci si sbaglierebbe a
pensare che si tratti di un’autonomia paragonabile a quella della magistratura.
No, non è l’autonomia della scuola nel suo insieme, ma quella del singolo
istituto. Dunque l’autonomia non è il carattere dell’intera comunità, ma delle
sue componenti, dei suoi membri. E
il progetto condiviso quale sarebbe? In realtà in una sola frase emergono due
termini, comunità e condiviso, che hanno un forte sapore
ecclesiastico, ma che nel contesto appaiono astratti e
fuori luogo. E, appunto, un progetto condiviso di
comunità autonome mi sembra un ossimoro. Per quanto, non
essendo io particolarmente laico, tenderei a preferire una scuola-comunità con
un Preside-Priore ad una scuola-azienda con un Dirigente-Manager. La
tendenza alla frammentazione della scuola, allo sfilacciamento
del tessuto del sistema dell’istruzione, mi sembra
pienamente confermata. In questo senso, appare follemente illusorio l’auspicio
di chi tra gli insegnanti sogna il ritorno agli esami di settembre dopo il patente clamoroso fallimento del sistema dei debiti e
crediti, mal riposta la fiducia nel ripristino delle commissioni esterne alla
maturità (presente nel programma dell’Unione, ma percepito come troppo
costoso). Ora incombono i provvedimenti di Padoa-Schioppa.
Essendo un cacciatore, simpatizzerei per il secondo cognome dell’augusto
economista (tanto più che in veneto la doppietta è detta al femminile la sciòpa),
tuttavia come insegnante prevedo che non vi saranno
molti soldi per il miglioramento del sistema dell’istruzione, e me ne dolgo. E siccome lo Schioppa cercherà di sparare
anche su Sanità e Previdenza, temo molto per il sostegno all’handicap e per
l’inserimento dei non-italiani. Vedremo. Se il debole
governo Prodi andrà avanti nel suo faticoso e litigioso cammino,
fioriranno forse mille Fioroni, ma saranno ambigui Fioroni del male.
9 luglio 2006 A.D.