CRONICA  XL

Fabio Brotto

brottof@libero.it

www.bibliosofia.net

 

MAESTRA?. Da Beatrice, una giovane maestra romana, ricevo uno scritto che mi sembra significativo e degno di meditazione.

Ho sempre avuto un grande sogno nel cassetto fin da quando ero ancora bambina: diventare una maestra per poter insegnare ai bambini a leggere a scrivere e a far di conto... Per una serie di scelte e di circostanze, però, non ho avuto modo di prendere quel famigerato diploma all'Istituto Magistrale grazie al quale avrei potuto partecipare al concorso per l'abilitazione all'insegnamento, ma a 18 anni mi iscrissi all'ISEF di Roma sperando al limite di poter entrare nelle scuole elementari come insegnante di Scienze motorie e sportive... (Allora ero ancora ignara del fatto che nelle scuole elementari italiane l'educazione motoria non è  contemplata tra le discipline d'insegnamento... o meglio, è citata nei programmi ministeriali ma viene insegnata dalle stesse maestre che di schemi motori, schemi corporei, principi di anatomia, fisiologia e di allenamento ne sanno poco o niente! ...Potrei aprire un'ulteriore parentesi quadra e poi una graffa e poi chi più ne ha più ne metta, per approfondire questo discorso, ma poi davvero non la finirei più!) Insomma, con una bella lode e una stretta di mano, uscii dall'Istituto Superiore Statale di Educazione Fisica all'età di 21 anni...


...Ma io a 21 anni volevo ancora fare la maestra...


Poi nel mese di Settembre del 1999 la svolta... Una nuova facoltà, un nuovo corso di laurea...Tutto nuovo... Sembrava creato apposta per permettermi di realizzare il mio sogno... Università di Roma Tre, corso di Laurea quadriennale in Scienze della Formazione Primaria che abilitava all'insegnamento sia nella scuola elementare sia in quella dell'infanzia a seconda del piano di studi. (Io le lauree e le conseguenti abilitazioni le presi tutte e due).


Da quel momento in poi, tutti i futuri maestri avrebbero ricevuto una formazione a livello universitario, tutti i bambini italiani nati a partire dall'anno 2000 avrebbero avuto come insegnanti persone preparate a livello universitario, adeguatamente istruite e pronte a organizzare al meglio i programmi, gli spazi, i luoghi, i tempi dei piccoli alunni!


Poi la delusione più grande... Nella facoltà che prima o poi vedrà entrare ed uscire tutti i futuri insegnanti delle scuole elemen... (scusate... qui mi devo correggere... non si chiamano più così... la sostanza è la stessa, ma il termine "primaria" sa molto di più di europeo, quindi ora si chiamano scuole primarie... vabbè... se hanno deciso così, lasciamoli fare...) viene insegnata una grande verità: IL MAESTRO NON  È PIÙ COLUI CHE INSEGNA, CHE TRASMETTE IL PROPRIO SAPERE, CHE FORMA I PROPRI ALLIEVI e chi più ne ha più ne metta... (sembra che oggi l'affermazione "trasmettere il proprio sapere" sia più un'offesa che altro... vabbè... se hanno deciso così, lasciamoli dire...)


No, non avete capito male! Oggi il maestro non deve insegnare proprio un bel niente.  È   L'ALUNNO CHE APPRENDE, NON IL MAESTRO CHE INSEGNA!!


Non sto scherzando... non è una verità ironica... Ai futuri insegnanti viene insegnato a fare la programmazione annuale sulla base... delle curiosità del bambino, su quelle che sono le SUE esigenze, per non bloccare, inibire, smorzare (chi più ne ha più ne metta...) la sua creatività, la sua fantasia, il suo entusiasmo con programmi superati e vecchi!!! Tutta la programmazione parte dalle esperienze del bambino, in modo tale che quanto poi in seguito apprenderà (dal fantoccio di maestro di turno) non saranno discorsi astratti e noiosi, ma esperienze divertenti, sentite, utili!


Oggi sono un'insegnante supplente, giro decine di scuole di Roma e provincia, giorni fa sono andata a fare una supplenza in una terza element... ehm no, scusate ancora, in una classe terza di una scuola al centro di Roma... Non scherzo se vi dico che la  disposizione dei banchi era organizzata in modo tale che i bambini dessero le spalle alla cattedra... e questo per favorire  l'interazione tra gli alunni... Sì, avete capito bene! Per il bambino è meglio avere di fronte il viso di un coetaneo che quello severo, saccente, rigido, brutto del maestro!! Poi qualche giorno dopo ho cambiato scuola... Altra supplenza... Stessa situazione... Non aggiungo altro... Scusatemi, non riesco a trovare parole abbastanza eloquenti per commentate questa situazione...


Ad oggi, purtroppo, potrei scrivere decine e decine di aneddoti come questo... Il mio sgomento cresce ogni giorno di più; mi rendo conto di essere ancora alle prime esperienze, sono una bambina che si affaccia ora al mondo della scuola... ma sento di aver già visto troppo... Ho capito che probabilmente sulla soglia della pensione, se qualcuno mi chiederà quale sia il mio sogno nel cassetto, la mia risposta purtroppo, vista l'impossibilità di praticare la mia professione, sarà ancora: “Fare la maestra!”

                                                                                                                                                                   Beatrice

MAESTRO?. Nel brillante saggio di Thomas F. Bertonneau comparso sull’ultimo numero di Anthropoetics (n. 11, Fall 2005 / Winter 2006), dal titolo Of Which We May Speak: Meditations on Irony, Eccentricity, and Faith, si leggono queste interessanti righe. [ http://www.anthropoetics.ucla.edu/ap1102/bert_irony.htm ]

 

Kierkegaard scrive […] che l’ironista, con la sua tendenza a dichiararsi contro ciò che intuitivamente è, prende necessariamente posizione contro l’autorità sistematica, poiché, mentre l’ironista ammette “Io non so niente”, al contrario il sistematizzatore crede di poter dire qualunque cosa, e che tutto ciò che non può essere detto sia sbagliato e poco importante.

 

L’ironista è un profeta che è necessariamente alienato dalla gente proprio mentre osserva la scena, per così dire, nell’interesse di quella. Egli monta la guardia all’apertura dell’esistenza, come essa è emersa nella libertà della consapevolezza—e in libertà di coscienza—sulla scena umana. Il daimon di Socrate ascolta i discorsi suasori, ascolta gli oratori, sussurrando “no” al suo protégé ogniqualvolta questi avverte la tentazione di essere persuaso dai loro schemi seduttivi. [trad. mia]


Qui sta anche tutta l’ambiguità, intrascendibile, di ogni scuola. Infatti il fare scuola, operazione che sembrerebbe avere uno stretto rapporto con la libertà dello spirito, si inscrive nel sistema scolastico, che fin nel suono significa l’antitesi alla libertà. E colui che fa scuola, l’insegnante, che come abbiamo detto in una precedente Cronica dovrebbe essere il portatore del segno, è nel contempo un professore, ovvero uno che professa un sapere sistematico, e quindi costringente e non critico. Il sistema scolastico è tuttavia, per sua intima natura, ostile all’ironia ben più che alla critica, che pure di per sé non ama. Questa infatti può apparire anche costruttiva (eventualmente anche di un altro sistema, nel caso sia una critica radicale), mentre l’ironia agli occhi dei sistematizzatori appare sempre e soltanto come corrosiva. Si può, in una certa misura, dare un sistema critico, non mai un sistema ironico. L’ironista appare ai felici abitatori dei sistemi come uno che solo dissolve e corrompe. Non è infatti un caso che i due più grandi ironisti di tutti i tempi, quelli che furono i più grandi maestri dell’Occidente, Socrate e Gesù, siano stati uccisi dai difensori del rispettivo sistema stabilito, che prima di essere un sistema di potere era un sistema di sapere. Il vero maestro in verità insegna anzitutto a non sapere. In questo senso, non possiede il carattere del professore. Egli è prima di ogni altra cosa un liberatore dalle incrostazioni e dalle catene dei falsi saperi, che si presentano come assoluti e intrascendibili, comunque questa assolutezza e intrascendibilità vengano declinate—in un ambito culturale politeistico, monoteistico o laico. Il vero maestro insegna anzitutto, col suo esempio, la libertà di dire no al sistema presentemente imperante. Non è difficile, a questo punto, vedere come anche dentro le traballanti e scalcinate mura della italiana scuola che cambia gli insegnanti si dividano in due categorie: la più vasta è quella dei sistematizzatori, più o meno credenti e motivati, e la più piccola, il resto d’Israele, quella degli ironisti. Tra le cui rade file sta, nella sua fragilità, l’autore delle presenti Croniche. E infine, a ben guardare, quando di un professore si diceva che era un maestro, si intendeva fargli il più grande dei complimenti.

 

MECCANISMI. Si sa che Adolf Eichmann grazie all’opera di Hannah Arendt La banalità del male ha assunto uno status simbolico, a rappresentare tutti quegli oscuri esseri umani che, ben impiantati nel ventre della grande macchina che è lo Stato moderno, operano con devota obbedienza di puri meccanismi, che si sentono realizzati in quanto tali. È molto facile condannare Eichmann. Molto meno facile chiedersi quale sia la misura della nostra somiglianza a lui. Rifacendosi al grande testo della Arendt, Enrico Donaggio nel suo libro Che male c’è. Indifferenza e atrocità tra Auschwitz e i nostri giorni (l’ancora del mediterraneo, Napoli 2005) descrive il modello di individuo incarnato da Eichmann come

 

Un individuo che intratteneva un rapporto eminentemente “ideologico” con se stesso e con quanto lo circondava; che si dimostrava incapace di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione; e che non possedeva alcuna autentica convinzione. I suoi crimini […] non erano nemmeno rubricabili come infrazioni di una norma, piuttosto come forma di obbedienza automatica a un contesto improntato ad una collettiva quanto infantile fuga da se stessi e dalla responsabilità.


Guardiamoci ora intorno: nella scuola italiana è forse diffusa e radicata la capacità di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione, sono forse diffuse le convinzioni autentiche? O non sono invece dominanti ovunque le forme di obbedienza automatica, le collettive e infantili fughe da se stessi e dalla responsabilità?

 

DIFFERENZA. Penso che in questi tempi calamitosi, in cui le differenze politiche, culturali, nazionali e religiose vengono accentuate ed esaltate per alimentare conflitti che in realtà derivano dall’uguaglianza essenziale degli umani (innanzitutto dall’uguaglianza degli appetiti che convergono pericolosamente sullo stesso oggetto, e in particolare sul potere), debba essere accolta con interesse ogni riflessione sul tema dell’uguaglianza e della differenza. La scuola dovrebbe sviluppare negli allievi la capacità di porsi in modo serio e maturo di fronte a questi temi, che il buonismo imperante e semplificante tende a banalizzare paurosamente. Trovo un pensiero significativo nel libro di Franco Crespi  Il male e la ricerca del bene (Meltemi, Roma 2006). Collegando il male all’assenza di riconoscimento, Crespi nota che quest’ultimo

 

da un lato … è possibile solo a partire dalla convinzione dell’uguaglianza originaria tra me e gli altri fondata sull’appartenenza alla comune situazione esistenziale; dall’altro, esso nasce dalla consapevolezza che ogni singolo individuo, a partire dal suo contesto socio-culturale e dalle condizioni contingenti della sua vita, è, in via di principio, in grado di elaborare un’esperienza dell’esistenza che è soltanto sua e, pertanto, il riconoscimento è veramente tale solo in quanto rispetto della sua differenza, che resta, in ultima analisi, refrattaria ad ogni mio tentativo di definizione. (p. 72)

 

Ma la fondazione dell’uguaglianza su di una “comune situazione esistenziale”, una volta caduto il riferimento teologico, mi sembra debole. Infatti le situazioni esistenziali vengono a loro volta pensate e definite in modo differente a seconda dei diversi contesti socio-culturali, e dei diversi orizzonti di plausibilità che in essi vigono (per l’azteco, per fare un esempio estremo, è ben plausibile che l’ordinamento del mondo sia destinato a crollare senza i quotidiani sacrifici di sangue umano). Un pensiero dell’uguaglianza che sia in grado di fondarla stabilmente non può che essere un pensiero antropologico, e questo pensiero antropologico non può che essere un pensiero generativo, che anzitutto la sappia collocare alle origini dell’umano, nel punto di separazione dell’umano dall’animale. La straordinaria forza ermeneutica dell’antropologia generativa, sviluppata da Eric Gans, che vede la contemporanea nascita dell’umanità e del linguaggio nell’attimo in cui il gruppo di preumani famelici intorno alla preda interrompe il gesto di appropriazione, che darebbe luogo alla violenza reciproca, e di questo gesto interrotto fa il primo segno, mi sembra qui particolarmente evidente. Il differimento della violenza che dà luogo alla differenza, il segno e il linguaggio, il riconoscimento dell’alterità, la distanza dal centro che rende uguali tutti coloro che occupano la periferia, la reciprocità, lo scambio ecc., insomma tutti gli elementi fondanti l’umano trovano nell’ipotesi originaria, che promuoviamo nella pagina GENERATIVA, la loro unificazione. Al di là delle diverse scuole di pensiero e dei differenti orientamenti politici, comunque, penso sia importante che nella scuola italiana si superi, per quanto concerne la tematica della violenza, un’impostazione prevalentemente moraleggiante e basata sui buoni sentimenti—che come si sa sono volatili—per dare principio ad un discorso più rigoroso, che richiede la fatica del pensare. Purtroppo il messaggio prevalente che i giovani recepiscono oggi non va propriamente in questo senso. E il modo serio e maturo di porsi della scuola richiederebbe insegnanti seri e maturi. Quanti sono?

 

SCIOCCHI. « Qualsiasi sciocco può essere promosso, purché non faccia nient’altro che provarci. Quelli che hanno un lavoro da fare non hanno tempo per provarci ». Questa sentenza è pronunciata da un funzionario dell’amministrazione coloniale inglese in Nigeria negli anni Venti del secolo scorso, nel romanzo di Chinua Abebe La freccia di Dio (Arrow of God, 1964, trad. it. di S. Antonioli Cameroni, 1976, edizioni e/o, Roma 2004). La sua verità in riferimento a qualsiasi struttura che sia prevalentemente burocratico-amministrativa mi sembra evidente. Mi sembra anche che essa dia spiegazione della stolidità che regna sovrana nei gradi medi e alti di ogni struttura di grandi proporzioni, ivi compresi gli eserciti e le chiese. Ivi compresi anche i sistemi scolastici.

 

19 aprile 2006 A.D.

 

 

SCUOLA E NON SCUOLA

 

BIBLIOSOFIA