CRONICA  XXXVI

Fabio Brotto

brottof@libero.it

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VELO. Sul treno Treviso-Venezia. Molti studenti che tornano a casa. Vicino a me due studentesse di origine marocchina, in jeans, col velo. Il volto scoperto, entrambe bruttine, ma con lo sguardo intelligente, sicuramente sorelle. Parlano un ottimo italiano, discutono di argomenti scolastici, hanno in mano un libro di testo, che sfogliano facendo commenti. Ogni tanto scambiano qualche parola coi due ragazzi che siedono loro di fronte, compagni di classe. I due, sguardo opaco, abbigliamento costoso all’ultima moda, digitano senza sosta le tastiere dei rispettivi videofonini, e intanto parlano, in dialetto, di due argomenti: l’abbigliamento e i videofonini. Differenza di genere? Differenza di culture? Io sconsolato guardo la campagna, dove alla vista tesa nell’aria aprica si offrono in successione continua capannoni e centri commerciali, e fanno capire che tra pochi anni di quella che fu la campagna veneta resterà solo il ricordo.

Molti tra gli industriali veneti che hanno costruito quei capannoni ora stanno a Timisoara, o ancora più ad Est, dove offrono lavoro, e sfruttamento. E molti di quei capannoni vengono ora acquistati dai Cinesi, comunità chiusa in se stessa, attiva e silenziosa. Il futuro è senz’altro multietnico, ma sulla cultura delle giovani generazioni italiane, che dovrebbero prepararsi a viverlo con dignità, è meglio stendere un velo. Pietoso.

 

COCA. Pensando al caso Elkann.

Dai suoi inizi immemoriali, la sapienza ha sempre decostruito e smitizzato l’idea che la felicità sia legata alla quantità e al potere che su quella riposa. E tuttavia ancor oggi la gran parte degli umani tende a pensare che la felicità sia strettamente legata alla quantità di risorse materiali di cui si dispone. D’altra parte, se questa convinzione evaporasse, l’incentivo all’arricchimento verrebbe meno, e l’intero nostro sistema economico-politico crollerebbe (compresa la sua componente solidaristica sanitario-assistenziale). Noi dunque abbiamo bisogno che moltissimi credano che successo-potere-ricchezza siano fonte di felicità, in modo che una minoranza di sapienti possa illusoriamente inorgoglirsi del fatto di essere al di fuori del meccanismo fondamentale della nostra società. Ma quanti in questa minoranza vogliono davvero sfuggire anche alla fama, saprebbero rinunciare alla possibilità di ottenere un riconoscimento sociale? Quanti vivono felici come membri sconosciuti dell’immensa periferia della nostra civiltà?

 

C’era un ritornello di una canzoncina pubblicitaria della fine degli anni Sessanta, nel carosello della coca-cola (si può ripescarne una versione in questa pagina web: http://www.cokeworld.it/coke21.htm) . Mi è rimasta in mente la musichetta, ed anche un simpatico scritto comparso su un quotidiano del tempo. Non ricordo il quotidiano, forse il Gazzettino, e nemmeno l’autore. Muoveva da quel ritornello per sviluppare una breve storia fantastica. Il ritornello faceva così: “Coca-cola è / è la realtà / della gente che sa/ della gente che vive / tempo di coca-cola”. Lo scrittore immaginava che in un lontano futuro, dopo che una guerra nucleare aveva distrutto l’umanità, un’astronave proveniente da una remota galassia atterrasse sul nostro pianeta. Alcuni archeologi alieni, scavando tra le rovine, trovavano un nastro registrato, con la canzoncina della coca-cola. In seguito, decifrata la lingua, tentavano di interpretare il senso del testo. Ne risultava una straordinaria analisi, in cui le parole della pubblicità venivano scambiate per quelle di un inno sacro. Secondo l’interpretazione degli eruditi alieni, un coro di giovani e fanciulle, probabilmente nel corso di una cerimonia sacra, esaltava la divinità suprema dei terresti, Coca-Cola. Si trattava evidentemente di una divinità ancipite, che conteneva in sé le opposte polarità, i principi complementari del bene e del male, della luce e delle tenebre, della vita e della morte. Cola, la vita, Coca la morte, o viceversa. Tutta la realtà era contenuta in Coca-Cola. Questa realtà poteva però essere compresa solo dalla gente che sa, e solo i sapienti, gli iniziati, erano la gente che vive. D’altra parte anche il tempo apparteneva a Coca-Cola. I terrestri antichi, questo saggio popolo scomparso, dovevano essere davvero una civiltà spiritualmente evoluta. Ambiguità del linguaggio.

 

Un’antropologia del tempo presente deve prendere in considerazione questi due elementi del consumo, che sono segni fondamentali dell’omologazione a livello planetario: la coca-cola e la cocaina. A me pare anzitutto evidente che i consumi non sono sempre legati alla pubblicità mediatica esplicita e legalizzata. Questa funziona per la coca-cola, non per la cocaina. Quest’ultima espande il suo consumo in forza di ciò che potremmo chiamare il lato oscuro della comunicazione, infatti anch’essa è presente nella consapevolezza della società e nei media stessi, come negatività puramente apparente, di cui si può pensare che esista un risvolto positivo. Insomma, l’intreccio tra il dicibile e il non dicibile, tra ciò che è detto apertamente e ciò che si può presentare solo nella forma dell’allusione, dell’ammiccamento, del tutti lo sanno ma non si può dire, è in questo settore particolarmente complesso e perverso. Se i consumi di una sostanza stupefacente non sono legati alla pubblicità nel senso di essere direttamente indotti da essa, tuttavia sono sempre connessi ad immagini mentali di felicità e di potere, quindi  alla sfera del desiderio.

 

Dunque, secondo l’opinione volgare, Lapo Elkann dovrebbe essere il più felice degli Italiani (Berlusconi è ricchissimo e potentissimo, ma è un quasi settantenne, quindi non gli appartiene più l’eros, senza il quale non si immagina possibile la felicità piena e divina). Per il giovane erede di Casa Fiat denaro, potere, belle donne a volontà…. Invece rischia di morire per overdose in un appartamento qualsiasi, dopo una notte orgiastica trascorsa in compagnia di alcuni transessuali. Se la vicenda fosse stata narrata da un romanziere, gli avrebbero rinfacciato l’implausibilità della cosa, lo avrebbero accusato di ricercare effettacci da soap-opera. Ma la cosa, invero, non è affatto sorprendente: intanto l’uso della cocaina è molto comune nella parte più alta e visibile della piramide sociale, e tende a diffondersi nella middle class in forza dell’inevitabile principio mimetico. La cocaina dona una sensazione di superiore potenza (soprattutto sessuale), e quindi il suo uso appare tanto più necessario quanto più fortemente mimetico-rivalitario è il contesto sociale. Quindi dove più forte è il mimetismo, maggiore è il consumo di coca: quindi nel mondo dell’industria, dello spettacolo e del calcio, e anche di altri sport: Elkann, Maradona, Pantani sono solo possibili esempi tra i molti.

 

L’uso di droghe, come sappiamo, ha lontane origini sacre. Ogni ebbrezza, ogni estasi ricercata con una qualche tecnica o sostanza dice, anche nei modi più degradati e inconsapevoli, il desiderio dell’uomo di farsi divino. Il linciaggio poi, cui nei media è stato sottoposto Elkann, dice a sua volta il bisogno che la gente ha di vedere la sofferenza e la morte di un capro espiatorio, di un re sacro. Di colui che occupa il centro, posizione di forza ma anche pericolosa, per cui è tentato di riportarsi alla periferia, almeno per un momento, di sottrarsi con l’ebbrezza narco-sessuale al tremendo peso della posizione centrale.

 

Come sempre capita, chi fa parte della periferia non è in grado di capire cosa significhi essere al centro, mentre il centro spesso può vivere esperienze della periferia, può desiderare un temporaneo ritorno ad essa (come è narrato del califfo Harun al-Rashid che di notte si travestiva e si immergeva nella vita del popolo e dei bassifondi): le due posizioni sono del tutto asimmetriche. Così, nessuno dei censori di Elkann si chiede cosa avrebbe fatto lui, come sarebbe vissuto, se a 28 anni fosse stato posto a capo di un colossale impero. D’altra parte, anche nella periferia stessa, dove i rapporti dovrebbero essere simmetrici, accade quel che rileva Guicciardini: “Guardate quanto gli uomini ingannano loro medesimi: ciascuno reputa brutti e peccati che lui non fa, leggieri quegli che fa; e con questa regola si misura spesso el male e el bene, più che col considerare e gradi e qualità delle cose” (Ricordi, 122).

 

Due domande mi sembrano ovvie. Come può combattere l’uso delle droghe una società la cui classe dirigente (intesa in senso molto ampio) e visibile consuma molta cocaina, finanziando così la grande criminalità? Come può la scuola presentare ai giovani, senza cadere nell’ipocrisia, dei modelli di vita differenti da quelli che godono del massimo prestigio sociale, mentre gli insegnanti non hanno affatto modelli da offrire, né prestigio alcuno?

 

PESTE. Vi ricordate le immagini dello sterminio delle vacche nell’Inghilterra di qualche anno fa, allorquando si diffuse il terrore della mucca pazza (espressione forte, in cui si fondono insieme i due orrori: la follia e l’epidemia)? Migliaia di grandi corpi ammucchiati e sepolti dalle ruspe. La polemica sull’alimentazione dei bovini, sulle condizioni degli allevamenti, sui controlli delle carni, ecc. ecc. Per anni non s’è potuta mangiare una bistecca fiorentina, benché mai una vacca toscana sia stata trovata positiva ai test della BSE. Prevenzione o follia? Eclissi della ragione nei grandi organismi statali e superstatali, nelle grandi corporazioni medico-industriali, nelle reti sanitarie globali? L’incubo del crollo della civiltà causato dal contagio: AIDS, SARS, BSE, H5N1. Moriremo a milioni, le nazioni saranno sconvolte. La peste del bestiame, del resto è la quinta delle piaghe d’Egitto di cui parla nella Bibbia il libro dell’Esodo. Da millenni le epidemie che falcidiano il bestiame domestico sono presenti nella coscienza collettiva come quelle di cui muoiono gli umani. La scienza aumenta le conoscenze, ma queste debbono sempre essere mediate dalla coscienza collettiva, abitata da molti fantasmi, alcuni dei quali inestirpabili, perché dai nostri inizi umani sono già da sempre lì.

E ora le immagini dei polli che vengono da Oriente. Ancora vivi, chiusi nei sacchi di plastica, allucinanti contenitori che si muovono convulsamente, gettati sui roghi. Il virus non ha ancora fatto il temuto grande balzo intraspecifico e pandemico in Cina (perché vi sia un contagio di massa in Occidente fra gli umani deve prima darsi un contagio di massa tra gli umani in Oriente) ma già la rete mondiale dei media diffonde il terrore. Mentre scrivo queste note guardo dalla finestra il ruscello che scorre vicino a casa mia, e lambisce il prato dei vicini. Su quel prato vive un gallo con alcune galline, e sulle sponde del ruscello nidificano i germani reali, una specie d’anatra onnipresente, i cui maschi hanno il bel collo verde smeraldo che tutti conoscono, l’anatra per eccellenza. Arrivano in volo e scendono, si alzano a volo e vanno qua e là, Treviso città d’acque ne ospita una fitta colonia. Dovrei vivere nella paura? Qui sotto, in effetti, il contatto tra anatre e galline è visibilissimo. Il genere umano è sempre vissuto nelle paure. Alcuni hanno creduto che la luce della conoscenza scientifica avrebbe liberato gli umani da questa sofferenza: ma la scienza, come si è visto, diviene essa stessa oggetto di paura (cosa staranno facendo nei laboratori, quali virus sono usciti dalle provette, le multinazionali che producono i vaccini non sono forse massimamente interessate alla diffusione delle epidemie?). Fino alla inevitabile conclusione che i virus sono creazioni umane, di cui bisogna ricercare i colpevoli. Gli untori. Saranno senz’altro in America. Il capro espiatorio è costitutivo del nostro orizzonte ermeneutico.

Vi sono delle costanti nell’atteggiamento degli umani, che cambiando i tempi e la cultura mutano solo in superficie. Una costante riguarda la reazione alle epidemie, per le quali si cercano gli untori, un’altra le condizioni meteorologiche, che non sono più quelle di una volta. Non sembri strano questo brusco salto dal virus dei polli ai Pensieri di Giacomo Leopardi (XXXIX), il quale riallacciandosi a quanto scritto da Baldassar Castiglione sulle ragioni del costume dei vecchi di lodare il tempo loro a detrimento del presente, a sua volta scrive:

 

A confer­mazione del quale si può considerare che i vec­chi pospongono il presente al passato, non solo nelle cose che dipendono dall’uomo, ma ancora in quelle che non dipendono, accusandole simil­mente di essere peggiorate, non tanto, com’è il vero, in essi e verso di essi, ma generalmente e in se medesime. Io credo che ognuno si ricordi ave­re udito da’ suoi vecchi più volte, come mi ricor­do io da’ miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl’inverni più lunghi; e che, al tempo loro, già verso il dì di pasqua si solevano lasciare i panni dell’inverno, e pi­gliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e tal­volta di giugno, si può patire. E non ha molti anni, che fu cercata seriamente da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle stagioni, ed allegato da chi il diboscamento del­le montagne, e da chi non so che altre cose, per ispiegare un fatto che non ha luogo: poichè anzi al contrario è cosa, a cagione d’esempio, notata da qualcuno per diversi passi d’autori antichi, che l’Italia ai tempi romani dovette es­sere più fredda che non è ora. Cosa credibilissi­ma anche perchè da altra parte è manifesto per isperienza, e per ragioni naturali, che la civiltà degli uomini venendo innanzi, rende l’aria, ne’ paesi abitati da essi, di giorno in giorno più mite: il quale effetto è stato ed è palese singolar­mente in America, dove, per così dire, a memo­ria nostra, una civiltà matura è succeduta par­te a uno stato barbaro, e parte a mera solitudine. Ma i vecchi, riuscendo il freddo all’età loro as­sai più molesto che in gioventù, credono avve­nuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell’aria o nella ter­ra. La quale immaginazione è così fondata, che quel medesimo appunto che affermano i nostri vecchi a noi, affermavano i vecchi, per non dir più, già un secolo e mezzo addietro, ai contem­poranei del Magalotti, il quale nelle Lettere fa­miliari scriveva: « egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mez­zi tempi non vi son più; e in questo smarri­mento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di pa­squa di resurrezione, ognuno si rivestiva da sta­te. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno ».

Questo scriveva il Magalotti in data del 1683. L’Italia sarebbe più fredda oramai che la Groen­landia, se da quell’anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella propor­zione che si raccontava allora. È quasi soverchio l’aggiungere che il raffreddamento continuo che si dice aver luogo per cagioni intrinseche nella massa terrestre, non ha interesse alcuno col pre­sente proposito, essendo cosa, per la sua lentezza, non sensibile in decine di secoli, non che in po­chi anni.

 

L’unica differenza rispetto ai tempi di Magalotti e Leopardi è che noi, più avanzati nel pensiero vittimario, possiamo individuare un capro espiatorio anche per la meteorologia: la civiltà industriale, la nostra.

 

 

21 ottobre 2005 A.D.

 

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