CRONICA QUINTA

Fabio Brotto

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DISTANZA. E' un'esperienza fondamentale nella scuola, quella della distanza. E' fondativa. Fin dalle elementari, in cui i bambini dovrebbero imparare a dare del lei alle maestre, e invece le trattano come se fossero le loro mamme, dalle quali non avvertono alcuna distanza, in quanto non ne avvertono alcuna autorità. E senza autorità non v'è crescita, come mostra l'etimologia (da augere latino, che significa accrescere: tu se' lo mio maestro e 'l mio autore dice Dante a Virgilio nel primo canto dell'Inferno).

Ci sono molte distanze: c'è, ad esempio, quella del dirigente dagli insegnanti. Solitamente il dirigente scolastico è uno che in passato ha insegnato, non sempre con efficacia e passione, e che poi ha fatto il concorso a preside, una specie di lotteria: nessuna selezione in base a capacità reali. Il governo di sinistra ha separato anche contrattualmente i presidi, trasformati colla bacchetta magica in dirigenti, dal corpo docente (materia vile), che invece deve rimanere legato ad applicati e bidelli. La distanza tra dirigenti e docenti è spesso vissuta come reciproca, totale incomprensione: crescente in questi ultimi anni. Del resto, come può un manager avere una reale comunicazione con persone che ragionano in termini anzitutto educativi e culturali? Le logiche sono intrinsecamente differenti. Ma questa distanza, che in futuro si accentuerà ancora, diventando un abisso, non mi scandalizza né mi spaventa, sempre che non incida sulla libertà di insegnamento, particolarmente vitale nelle scienze dello spirito.

La distanza tra docenti e studenti è ben più preoccupante, soprattutto quando si presenta come il suo contrario, come non-distanza. Il rapporto pedagogico maestro-allievo funziona solo quando l'allievo percepisce che il maestro è bensì distante da lui, ma nello stesso tempo si trova su quella stessa strada che egli a sua volta intende percorrere, poiché l'allievo vuole diventare come il maestro in ciò in cui questi è maestro. Ma se la strada del maestro non interessa all'allievo, se lui sente che nessuna voce interiore lo spinge in quella direzione, se gli è del tutto indifferente avvicinarsi al maestro in ciò in cui questi è maestro, allora anche se la strada dell'allievo si avvicina a quella del maestro la loro distanza rimarrà immensa, incolmabile, parleranno per sempre lingue diverse. La vicinanza, quella falsa, è in ciò in cui il maestro non è maestro, nella comune umanità, ad esempio, nella simpatia aleatoria, nell'ambiguo rapporto umano. Questa falsa prossimità, in voga nei paesi avanzati, cercata ed esaltata dalla cultura dominante, che è sempre progressista sia a destra che a sinistra, produce solo equivoci e ignoranza. L'accanimento con cui si è voluto abbattere la distanza del maestro, espressa anche, simbolicamente, dal toglimento delle pedane che innalzavano le cattedre sopra il livello dei banchi, e facevano sì che l'insegnante salisse in cattedra, si inscrive in un sommovimento generale. The End of Culture, la fine della cultura, come suona il titolo del famoso (in America) libro di Eric Gans: la fine dell'elemento propriamente culturale, e della formazione mediante lo studio, inteso anche come strumento di promozione sociale, di permeabilità tra le classi sociali, la svalorizzazione della scuola, quindi, e di chi vi opera.

DECADENZA. La comune percezione che al crescere dei consumi, del benessere, della lunghezza della vita biologica, del numero dei santi proclamati, ecc. corrisponda una perdita in altri settori dell'esistenza umana, sì che il conto finale sia sempre lo stesso, questo sapere diffuso che spesso viene espresso in forme banali, deve pur contenere una qualche verità. Leggo in The Genealogy of Violence di Charles Bellinger, di cui dirò qualcosa in Due libri, che durante l'ultimo conflitto mondiale il presidente statunitense Roosevelt disse ad un suo collaboratore di aver capito molte cose del nazismo leggendo Kierkegaard, e penso a Bush, che probabilmente non si limita a non leggere filosofi, ma non legge proprio, così come Reagan prima di lui, ecc. C'è qui una caduta? E il ceto politico italiano di oggi rispetto a quello di mezzo secolo fa com'è? E' forse migliore? E i ministri della pubblica istruzione? Qui il discorso si complica, perché ministri abominevoli in quanto tali come De Mauro e Berlinguer sono professori universitari. Si potrebbe forse dire che la loro cultura particolare non è in grado di diventare sapere generale, non ha una dimensione etico-filosofica, come era in Gentile. De Mauro è un ottimo linguista, ma al di fuori del suo ristretto campo non è niente. In generale, il sapere degli uomini scienziati è profondissimo in un campo ristrettissimo, e questo tende a produrre dei cortocircuiti devastanti. D'altra parte il sapere della Brichetto alias Moratti è manageriale, cioè nullo, riducendosi al concetto ragionieristico del risparmio mediante tagli. Sicché qualunque insegnante può essere convinto che il ministro lo potrebbe fare anche lui, e che solo una certa posizione sociale ha portato la Brichetto al timone. Di qui il risentimento, tipico di ogni ordinamento democratico, in cui si è convinti che chiunque possa diventare governante. Ma se chiunque, perché non io?

Oggi, 14 ottobre, pur scioperando mi trovo a scuola, e vedo che nel mio liceo pochi colleghi si sono astenuti dalle lezioni. Qualcuno forse, animato da sacro antiberlusconiano furore, farà sciopero il 18 con la CGIL. Eppure le motivazioni dello sciopero di oggi mi sembrano importanti e giuste. E' vero che, tradizionalmente, i ceti intellettuali (e quello degli insegnanti lo è, nonostante tutto, ancora un pochino) presentano l'aspetto del tot capita tot sententiae, però mi chiedo se ora come ora esistano davvero tra noi e capita e sententiae. Confesso di aver raramente avuto modo di sorprendere un collega in atto di discutere qualcosa di culturale con un altro collega, o di cogliere qualcuno impegnato nella lettura di un libro nelle ore buche. Alas! Forse la nostra condizione socio-economica attuale, che par giù cotanto, è il frutto anche delle nostre mancanze. Certo questi insegnanti non otterranno nulla e sempre più saranno umiliati e offesi.

Cosa rimane, allora? A molti di noi si addice il servire, a molti il puramente sopravvivere, a molti anche il brigare italiota, a pochi lo stare, come Socrate oplita, fermi con corazza e lancia in pugno. Sapendo che i mulini degli dèi macinano lentamente sì, ma finemente.

DAY. Oggi vanno di moda i days. C'è un day per qualunque cosa. Le scuole celebrano i propri open days, in cui le famiglie con figli in età di iscrizione hanno accesso ai locali, ai laboratori, ecc., in un'ottica di competizione per la conquista dello studente-cliente (da noi non viene fatta vedere l'aula insegnanti della sede più frequentata perché è talmente ignobile per piccolezza e condizioni - con cassetti a livello del pavimento che costringono anche docenti d'età avanzata ad umilianti genuflessioni giornaliere - che i genitori potrebbero farsi l'idea che gli insegnanti siano dei pezzenti, sempre che quest'idea, com'è probabile, non l'abbiano già). Il ministero celebra lo School Day, che serve a far capire a tutti che l'inglese è importante. In questo day giustamente i giovani presenti alla cerimonia vengono in contatto con i modelli scelti come i più adatti per loro dal sistema (bella parola sessantottina da ripristinare): il conduttore televisivo, scusate, lo showman Frizzi, il giocatore di calcio Totti (che dichiara di aver abbandonato lo studio a 15 anni per la dura, ascetica vita del calciatore, tra gli applausi di tutti), ecc. Meravigliarsi? Non siamo mica ingenui. Dal canto mio, propongo un Revelation Day: una giornata in cui ciascun insegnante riveli i propri tempi di lavoro reali, e le spese connesse. Così si vedrebbe il professore di educazione fisica rivelare che lavora il pomeriggio nella sua palestra privata, e vi guadagna più che a scuola, dove batte la fiacca. Si vedrebbe la professoressa di lettere rivelare che dopo la laurea e il concorso non ha più letto un saggio, a parte qualche dispensa di metodologia. Si vedrebbe un altro rivelare che legge decine di libri all'anno (tutti comperati a sue spese) ecc., senza contare tutto ciò che trae dall'Internet (a sue spese), ecc. ecc. Del resto, dietro l'omologazione si celano le differenze. O no?

DEMENZA. Quos Deus vult perdere dementat prius. La mente è in crisi. Non viene fatta lavorare e si contrae, si chiude in sé stessa, svapora. "Sono un'insegnante anch'io". Chi di noi non se l'è sentito dire da qualcuno (quasi sempre da una donna, purtroppo) come esordio di un di solito insopportabile discorso, durante i colloqui coi genitori? Segue di norma un invito a non demotivare il figlio, ad incoraggiarlo, a stargli vicino nelle sue difficoltà. Poiché è tipico degli insegnanti non essere d'accordo fra loro (soprattutto se della stessa materia, e soprattutto se questa materia è italiano o latino), e l'insegnante che va al colloquio è una mamma, ed è un'insegnante- mamma oltre che una mamma insegnante, io detesto dal profondo del cuore i colloqui con un genitore-insegnante. In essi rischio la demenza. Mi assiste, per mia fortuna, Allah.

La mente di chi ci governa non lavora correttamente. Se lo facesse, arriverebbe alla conclusione che la scuola ha bisogno di: 1) strutture; 2) reale libertà di insegnamento; 3) stipendi decenti per gli insegnanti. La demenza si rivela nell'incapacità di pensare il futuro, di cogliere l'origine vera dei mali del presente, ché anzi i veri mali non sono affatto visti.

Io vorrei ricevere gli allievi. Vorrei che i docenti avessero non soltanto dei cassetti per le loro cose che non fossero a livello del pavimento (ma qualcuno nel mio liceo non ha nemmeno quelli, e ogni anno è una lotta), ma anche ciascuno un suo proprio studietto, con scrivania e scaffali per i libri, dove poter parlare con agio e calma con studenti e genitori. Ma le strutture non ci sono e non ci saranno, e cose del genere le continueremo a vedere solo nei film americani, i soldi non ci sono, la volontà di avere una bella scuola non c'è. E il demente sono io. E allora volete voi, dementi, le nozze coi fichi secchi? La folla prorompe in un formidabile "Sì!".

DEMOTIVAZIONE. Leggo che "un gruppo di esperti", spulciando i registri della ASL di Milano, ha scoperto che gli insegnanti negli ultimi tre anni hanno presentato molte richieste di riconoscimento di inabilità al lavoro. La frequenza delle patologie psichiatriche tra i docenti risulta da due a tre volte superiore a quella delle altre categorie: e nell'85% dei casi si è constatata, in relazione alle istanze presentate, la non idoneità all'insegnamento, mentre nel 7% addirittura l'inabilità permanente a qualunque lavoro. Sindrome di burnout (affaticamento fisico ed emotivo, atteggiamento distaccato ed apatico nei rapporti interpersonali, sentimento di frustrazione ecc.). Mi pare che anche in altri paesi avanzati gli insegnanti tendano ad essere bruciati più rapidamente e in numero percentualmente maggiore rispetto alle altre categorie di lavoratori. Il perché ciò non possa non accadere sta sotto gli occhi di tutti, ma si preferisce non vedere, e infatti i giornali che riportano queste rilevazioni non offrono commenti adeguati, e nessuno ne trae le conseguenze logiche. Le quali consisterebbero nell'irrefutabile constatazione che il mestiere dell'insegnante è oggi, per ragioni epocali e culturali, uno dei più duri e logoranti. Come tale dovrebbe essere valorizzato, anche economicamente, ma sappiamo benissimo che gli stati contemporanei tendono a vedere nella pubblica istruzione solo una spesa da contenere il più possibile. In realtà, il ruolo di maestro sarebbe di per sé uno dei più gratificanti: riconoscimento di un sapere posseduto, del proprio essere modello e medium, di una vivificante trasmissione da anima ad anime. "Aprici la mente, facci conoscere, o maestro, la via…". E' chiaro che dei due maestri umanamente possibili, Socrate e Don Ferrante (ché del Maestro con la M maiuscola non è qui il caso di parlare) è quest'ultimo a prevalere nella storia e nella coscienza collettiva, e anche nella letteratura ogni nazione ha le sue varianti sul tema dell'erudito pedante, dal Kien di Canetti al Casaubon di George Sand, ecc. Nelle scienze dello spirito la frustrazione dei docenti migliori ha questa causa profonda: ciascuno vorrebbe essere recepito come un socrate (con la s minuscola, certo) ed invece si accorge che gli studenti e le famiglie, il ministero e l'opinione pubblica si aspettano da lui che sia un ferrante, e che comunque lo vedono così, e vogliono vederlo in quel ruolo, per quanto faccia di tutto per apparire diverso.

Dunque non sono tanto i pochi denari dello stipendio a demotivare gli insegnanti, ma il mancato riconoscimento sociale dell'importanza della loro funzione. Quando un ceto sociale si sente giudicato marginale (e a ciò hanno contribuito anche uomini di sinistra come l'illustre ed ineffabile Maragliano con le sue strampalate idee sul ruolo dell'informatica) non può che cadere nella frustrazione. Da questa alla depressione e al burnout il passo è breve. Il professore prende fuoco, per echeggiare ancora Canetti, che nella sua autobiografia presenta alcuni indimenticabili ritratti di insegnanti-maestri. E brucia anche la scuola, anzi forse è già bruciata.

16 ottobre 2002

 

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