Fabio Brotto
Contra Ostellinum
La scuola italiana è idealista,
mentre quella anglosassone è empirista. La seconda va
bene, mentre la prima è arcaica, non adatta al mondo contemporaneo, è malata di
filosofia. Questo è il senso dell’intervento di Piero Ostellino sul Corriere
della Sera del 21 ottobre, dal lungo titolo La scuola malata insegna
a chiedersi il “perché” e non il “come” delle cose. Ora, io penso che la
scuola anglosassone sia afflitta oggi molti problemi e guai, e stia producendo
generazioni di semianalfabeti, come quasi tutte le scuole dei paesi
occidentali, e che quindi l’impostazione ostelliniana
sia minata da fallacie e sviante. È opportuno, tuttavia, leggere integralmente
la sua argomentazione, che non mi pare molto legata al dubbio, sotto la cui
rubrica (appunto Il Dubbio) è posta.
In Italia decenni di cultura ideologica impediscono una
metodologia empirica della conoscenza
Parlo a un seminario del Rotary per propri dirigenti e dico che, fra i mali che
affliggono questo Paese, c'è il panfilosofismo, cioè
l'incapacità della nostra scuola di insegnare ai giovani una metodologia
empirica della conoscenza. Non dico niente di nuovo. Scrive Giovanni Sartori: «La filosofia si impernia
su un concipere,
e per esso sul conceptum;
laddove la scienza si fonda su un percipere, e per esso sul perceptum. In filosofia il
"perché" delle cose è anteposto al
"come", a come le cose sono; laddove nel conoscere scientifico il
"come", e cioè la descrizione e l' accertamento, precedono e
condizionano il "perché", la spiegazione (...) Quand'è, allora, che
la filosofia esorbita dalle proprie competenze e mansioni? È presto detto:
quando la filosofia - o chi la cita e utilizza a sproposito - si presenta come
un sapere applicabile, come una
teoria suscettiva di attuazione pratica (...) Sono
venticinque secoli che tentiamo di applicare alla polis dei "programmi
filosofici": da Platone a Marx. Regolarmente,
sistematicamente, la conversione della filosofia in prassi fallisce: l'esito ha
sempre tradito le intenzioni e clamorosamente smentito le previsioni. Dal che non consegue che una filosofia politica che fallisca nella
sua traduzione operativa sia una filosofia sbagliata. No, lo sbaglio sta
nel voler applicare l'inapplicabile (...) Per intervenire (con successo) sulla
realtà occorre accertare come
è» («Antologia di scienza politica», ed. Il Mulino). Meglio non si
potrebbe dire. Nel corso del seminario, dico che un altro dei mali che
affliggono il Paese è la mania regolamentatrice dello
Stato. Oggi, dalla prescrizione a non pagare in contanti certe prestazioni
professionali all' imposizione, per chi espone l'Iva,
di avere un conto online
(è proibito tenere i soldi sotto il materasso?), dal pagamento delle tasse come
«dovere civico» alla «lotta all' evasione» come manifestazione dello Stato
etico che persegue il Bene. E quant'altro.
Anche qui non dico niente di nuovo. Da Bernard Mandeville («La favola
delle api») a David Hume, a John Locke,
fino a Frederic A. Hayek («Law, Legislation and
Liberty») il pensiero liberale dice, invece, che le società aperte e ricche
sono la conseguenza di comportamenti spontanei e inconsapevoli degli individui che producono effetti sociali non
desiderati, ma positivi. Insomma, nella «società
aperta», i vizi privati si trasformano volentieri in pubblici benefici (ad
esempio: chi dilapida i propri averi finisce col dare lavoro a tutti quelli che
gli forniscono i beni e i servizi che desidera). Un gruppo di liceali mi
obietta che il «mio» (?) individualismo liberale porta all' a-socialità,
al disordine, all' evasione fiscale (?!) e che lo Stato deve condizionare i
miei diritti di proprietà e di iniziativa economica all' «utilità sociale»
(obietto: non basterebbero, empiricamente, leggi ordinarie contro la proprietà
e l'iniziativa economica che danneggiano il prossimo, dall'inquinamento alla
sofisticazione?). A sua volta, un' insegnante mi
obietta che chiedersi «come» stiano le cose non ha senso in quanto ciò che
conta, e che lei insegna ai suoi allievi (i liceali presenti approvano), è
chiedersi il «perché» delle cose. È l'effetto di sessant'anni
di cultura ideologica. Che fa spesso della nostra democrazia,
nella prassi anche se non in dottrina, la «prosecuzione con altri mezzi dei
totalitarismi fascista e comunista del Ventesimo secolo». E il peggio, con questa scuola, deve forse ancora venire.
Solo
sull’estrema conclusione ritengo di poter concordare: per questa scuola il
peggio deve ancora venire. Ma non per i motivi che pensa Ostellino. Trovo che la
semplicità del suo discorso sia disarmante. Questi giornalisti che ad un certo
punto della loro vita vogliono assurgere al ruolo di maestri di pensiero sono velleitari, ma anche dannosi all’opinione
pubblica, alla quale servono pietanze semplici, appunto quelle che essa può
digerire. Quindi spazio ai luoghi comuni, e al
pensiero unificato. Nell’intervento di Ostellino troviamo anzitutto un compiaciuto riferimento
alla propria audience privilegiata:
non certo quel branco di insegnanti ideologizzati plagiatori e di studenti plagiati che si dimostrano del
tutto premoderni e incapaci di comprendere le sue tesi, ma esponenti del Rotary Club, crema della società, gente notabile e per
censo e per collocazione sociale. A costoro Ostellino
somministra un’idea (vogliamo chiamarla concetto?
Non si può, Ostellino non ama
i concetti) che gli sembra brillante,
e che non è sua, ma di uno che egli considera un Maestro, sotto la cui auctoritas si
pone, il sommo Giovanni Sartori. Secondo costui la
scienza si fonda sul percipere
e il perceptum,
mentre la filosofia, passatempo per menti oziose e improduttive, sul concipere e il conceptum. E per Ostellino la scuola italiana sarebbe pervasa di filosofia,
e questo la renderebbe premoderna e inadatta a
formare giovani atti a sostenere le sfide del mercato globale.
Sarebbe una scuola malata di filosofia. Ora, non è del tutto chiaro quale sia il concetto del conceptum e del perceptum che maneggia Sartori e
in seconda istanza il volonteroso Ostellino, ma certo
un concetto sarebbe se pur fosse fasullo. È evidente in Sartori
un concetto di scienza che potremo definire ingenuo o primitivamente
positivistico, secondo il quale questa fornirebbe il come della realtà oggetto di studio: cioè
ce la farebbe conoscere come essa è. Ma a quale realtà pensano i due? Non certo a quella di cui
si occupa la regina delle scienze contemporanee, ovvero la fisica, sennò i due
dovrebbero problematizzare il perceptum dei quanti o degli
elettroni, dovrebbero chiedersi cosa percepisca la teoria della relatività,
quale sia la posizione dell’osservatore nell’esperimento, e potrebbero anche
sconfinare nell’odiata filosofia. Dovrebbero mettere in rapporto il loro
concetto di perceptum
alla matematica superiore e alle geometrie non euclidee.
De hoc satis:
la scienza che i due hanno in mente non è certo questa. Forse pensano all’economia
e alla politologia. Forse pensano che queste forme di sapere, che appaiono a
molti così problematiche, ci facciano percepire la
realtà com’è. Secondo me i due infine pensano semplicemente questo: la gente
dovrebbe sapere che c’è una realtà oggettiva conoscibile, cioè
il Mercato con le sue bronzee regole, e i sistemi politici che ad esso si rapportano.
Basta. tutto il resto è ideologia. Dunque,
una scuola che si rispetti dovrebbe limitarsi a preparare le persone ad
accettare il come delle cose, senza chiedersi il perché debbano essere così e
non cosà. Ma siamo convinti
che la scienza non si ponga la domanda del perché? Il perché
è legato alla causa. Lo scienziato non si limita all’osservazione del
come di un fenomeno, ma si pone la questione del perché si
verifichi in determinate circostanze e non in altre. Se
si togliesse il perché dalla scienza cadrebbe la scienza. Lo stesso
esperimento, la base della scienza moderna, si fonda anche sul perché e non
solo sul come. Ma il limitarsi al come senza chiedersi perché
ha in realtà una sostanza pre-critica o anti-critica.
Si tratta di dogmatismo travestito da atteggiamento scientifico, di assolutizzazione metafisica
dell’esistente camuffata da apertura al progresso. Le società tradizionali
basate sul rito sono società del come e non del perché.
Ma nel
pezzo di Ostellino il senso
del tutto è un attacco alla scuola italiana e ai suoi insegnanti: degli inutili
o dannosi parassiti che indottrinano i giovani, riempiendo le loro teste di
idee sballate, di concetti, abituandoli a non percepire la realtà ma a concettualizzarla, chiedendosi vanamente il perché delle
cose.
Certo,
il principio di causa è un’astrazione, un concetto. La scuola dunque non
dovrebbe insegnarlo, né insegnare ai giovani ad applicarlo nell’analisi della
realtà. Dunque, leggendo il pezzo Ostellino-Sartori
io dovrei limitarmi a percepirlo,
senza chiedermi quali siano i concetti da cui muove e perché Ostellino l’abbia scritto. Siccome però sono un
vecchio docente laureato in filosofia e che tende a concettualizzare e ad
insegnare ai giovani a maneggiare i concepta in modo critico e anti-dogmatico, mi pongo la
domanda del perché Ostellino abbia sferrato questo attacco alla scuola italiana, e se sia un caso che
questo attacco compaia sul Corriere
proprio ora, nel momento in cui si combatte intorno al carrozzone della legge
finanziaria. Forse, oso pensare, non è un caso che Ichino
attacchi gli insegnanti fannulloni e Ostellino l’orientamento
generale della scuola italiana, in forma tanto rozza e demagogica quanto
concettualmente debole (per principio). Una buona parte della società non vuole
una scuola che produca cultura, una scuola che attui
il circolo virtuoso dei come e dei perché, ma una mera scuola del come, che
produca docili consumatori. Personalmente, io sono tutt’altro che un nemico della consumer society e del Mercato, ma so che un
mercato evoluto ha bisogno di produttori e consumatori aperti mentalmente e
critici, che sappiano pensare in termini e di come e di perché, esattamente
come la democrazia di cui si dice che sia il compagno. A meno che non si preferisca il modello cinese.
24 ottobre 2006-10-24