Fabio Brotto
CATTIVI INSEGNANTI. Si può essere cattivi insegnanti in molti modi,
anzi in moltissimi, e lo
si può essere anche a dispetto di una viva intelligenza e grande
apertura culturale, della pratica delle innovazioni didattiche, e anche del
successo conseguito presso allievi e famiglie, se lo spirito è intimamente
guasto. Una delle tante anime grandi liquidate dalla
Rivoluzione sovietica, e una delle supreme, Pavel Florenskij, raccontando ai
figli la sua giovinezza
( Ai miei figli. Memorie di giorni
passati, Mondadori, Milano 2003), evoca ad un certo punto una figura della quale era
stato intimo amico prima di scoprirne la tabe
profonda: El'čaninov, che fece l’insegnante.
Per ogni occasione
inventava nuovi metodi di insegnamento, risvegliava le menti e l'interesse, stimolava. Con lui si
studiava con passione, ai suoi
ammonimenti si obbediva volentieri e li si adempiva
persino, e nella maggior parte dei
casi egli poteva portare i suoi allievi dovunque volesse; solo di rado gliene
capitavano di tali a cui non ispirava
fiducia e che non lo amavano affatto. Il programma di studio veniva assimilato
e tutto pareva filare liscio. Di fatto, invece, El'čaninov strappava il bambino alla
sua famiglia e, senza che il poveretto
se ne rendesse conto, gli istillava la sfiducia verso il prossimo e gli insegnava a prendere le distanze
dagli altri; l'allievo scopriva un punto di vista nuovo per lui, vuoi di
sufficienza sprezzante, vuoi di
biasimo e riprovazione verso i suoi genitori e tutti gli altri; da quel momento
tutto e tutti gli parevano meschini, prosaici,
gretti, così come convenzionali e insignificanti erano gli obblighi e i rapporti quotidiani. Era una sorta di ebbrezza, ma non come l'ebbrezza era innocente. Strappati i fili della vita e andatosene, El'čaninov lasciava nell'anima la zizzania, un senso di vuoto e una ferita alla quale si univano il veleno di
un'eccessiva autostima e le pretese
alla vita che essa implicava.
(p. 260)
Questo
passo mi ha ricordato un episodio significativo della
mia giovinezza di insegnante. Il peggiore. Ottobre 1977.
Mi hanno appena nominato (dall’anno prima sono
incaricato a tempo indeterminato) in un liceo scientifico. Due classi. Entro in
una delle due (una quarta) e trovo tutti gli studenti seduti coi
banchi disposti in cerchio. Alla mia osservazione immediata che preferirei una disposizione tradizionale, mi rispondono che
così sono stati abituati dal rimpiantissimo insegnante di italiano dell’anno precedente, che è passato all’università e di cui serbano un
ricordo struggente (ovviamente di ciò la Preside non mi ha minimamente
avvertito – si sa che gli insegnanti
giovani sono carne da cannone, e d’altro canto non c’è di peggio che dover
sostituire in cattedra un idolo). Mi dicono che loro in classe non facevano
lezioni, ma tenevano seminari. Non si sentono studenti
comuni, secondo il modello della società borghese. L’insegnante-idolo, a sua
volta, doveva sentirsi una specie di Lacan. Infatti,
andando a vedere i registri dell’anno prima, mi accorgo che non sono annotati
argomenti di lezioni, ma vaghissimi Seminario su Propp, Seminario
su Deleuze, e così via). Canti della Divina Commedia
letti: zero. Professore tuttavia giudicato eccelso da studenti e famiglie.
Convinzione radicata in tutta la classe che la malattia mentale non esista, e i pazzi siano i borghesi che si ritengono sani,
che la società sia di merda,
e così via. Ovviamente nella classe c’è un allievo leader. Un autonomo, membro
di un collettivo violento. Non studia nulla. Fuma molta erba. Sa tutto quello
che deve sapere, sul mondo e l’ultramondo. Gli altri allievi, comprese le
figlie di famiglie ricche e potenti, perdono le bave per lui. Fanno tutto
quello che dice, obbediscono a ogni suo cenno.
L’idolatria che si riversava sul professore ora è diretta al compagno. Durante
l’anno scolastico 1977-1978 ne succedono di ogni sorta. Compreso un attentato dinamitardo alla casa
della Preside. Il giovane leader finisce per alcuni giorni in carcere. Torna a
scuola con l’aureola del martirio.
Quell’anno
sono riuscito a spiegare due canti di Dante. Per descrivere bene quella
situazione, occorrerebbe un Dostoevskij.
Anni
dopo venni a sapere che un ragazzo della classe, che allora mi era sembrato un
innocuo pacioccone, si trovava rinchiuso in carcere, condannato per rapina a
mano armata.
Parafrasando
appena Florenskij, potremmo dire che quel docente mio
predecessore aveva lasciato nell'anima degli studenti
di quelle classi la zizzania, un senso di vuoto e una ferita alla quale si univano il veleno di un'eccessiva autostima e le pretese alla vita che essa implicava. Se v’è un modo malsano di accrescere l’autostima dei ragazzi
e delle ragazze, e trasformarla in veleno, questo modo nella scuola v’è stato e
vi è ancora. Ma è un modo plurale, anche se la sua
radice è una sola: la fuga dalla ragione.
LEGGEREZZA. Corriere
della Sera del 4 settembre, pag. 17, a mezza pagina. Il nume tutelare del CENSIS,
Giuseppe De Rita, viene intervistato sulla proposta di
scaglionare le ferie estive, in modo che non si concentrino quasi tutte nel
mese d’agosto. Titolo: Ma le vacanze
scaglionate esistono già. E poi chi li convince gli
insegnanti?. Appare subito chiaro dunque che nel pezzo saranno gli
insegnanti ad essere indicati come l’impedimento massimo alla diluizione delle
ferie. “Però i dipendenti pubblici…” insinua infatti
ad un certo punto il giornalista. Risponde il Solone
della statistica: “L’occupazione del tempo libero di molte famiglie è
condizionata dalla scuola. Ma lo voglio vedere il
governo che prova a levare tre-quattro mesi di
vacanza agli insegnanti! O li voglio sentire i magistrati, gli impiegati costretti a
rinunciare alle lunghe pause estive! Il ministro Fioroni
non mi è parso entusiasta…”. Questo il passo che mi interessa.
Ora, l’intervista in sé non sarebbe un gran che, e taluno la potrebbe giudicare
trascurabile—roba estiva, d’estate se ne dicono tante—ma a me pare molto significativa di un elemento caratterizzante la vita
italiana di oggi. Questo elemento è la leggerezza.
Dunque,
non un avventore di una qualsiasi osteria del Triveneto, colto di sorpresa da
una sprovveduta intervistatrice sottopagata di un TV locale
mentre sorseggia il quinto calice di prosecco della mattinata, ma una persona
di grande cultura e non indifferente peso parla di tre-quattro mesi di vacanza degli insegnanti. Uno dei luoghi
comuni più infondati e da molti anni ormai privo di qualunque sostegno nella
realtà. Non solo la categoria godrebbe di un
massimo di quattro mesi di vacanza, ma sarebbe disposta a difenderlo con le
unghie e coi denti! Gli insegnanti, pensa De Rita, godono di
un potere immenso. Categoria di ferro. Togliete le vacanze agli insegnanti, e i
camionisti del Cile vi sembreranno degli agnellini. Gli insegnanti dal 1 giugno
al 1 ottobre sono al mare, i loro lauti stipendi, guadagnati anche senza far
nulla (ché la categoria è imbottita di fannulloni, lo
si chieda a Ichino), finiscono nelle tasche di agenti
di viaggio, book-maker, noleggiatori di barche a vela cabinate, ecc. Non
rinunceranno a questi privilegi senza combattere. Negli ultimi cinquant’anni di
privilegi ne hanno conquistati tanti, non hanno mai
rinunciato a nulla. Nessuno ha mai osato toccarli. Scenderanno in piazza sotto
forma di orde selvagge, faranno tremare i palazzi del
potere. Il Governo rischierà di cadere. Sottoposto ad un simile ricatto,
dunque, nessun governo, pensa De Rita, ardirà mai tentare di scaglionare le
ferie.
Quanta
leggerezza, quale vaporosa inconsistenza, per cui le
persone che occupano posizioni alte nella nomenklatura
di questo Paese parlano di questioni che di per sé sarebbero importanti senza
alcuna considerazione dei dati reali, ma così, per imagines, per battute più o meno ben
riuscite. Abbiamo una riedizione mediatizzata e involgarita di quel parlare
salottiero vivacissimo e superficialissimo, tutto teso all’efficacia del bon mot, dei circoli aristocratici degli
anni 1780. Tanto, nessuno verrà a chiedere conto di ciò che si è detto. Tutto
scivola via. Ma forse sotto il baluginare delle parolette
brevi si nasconde il macigno del disprezzo per la scuola e per gli insegnanti, questa oscura massa improduttiva.
LABILITÀ. Ci sono sempre cose più
importanti, questo è certo. Non accadrà mai che il Paese si ponga
davvero la questione dell’istruzione come prioritaria per il futuro. Sempre ci
sono e ci saranno emergenze e contingenze—economiche anzitutto, politiche,
sociali, sportive e militari—che faranno sì che la scuola venga
posta dietro, dopo, nel futuro. Inutile farsi illusioni. Anche il Governo
dell’Unione fa qualcosa di buono (eliminazione del famigerato e velleitario portfolio ecc.)
ma subito ripiomba nella bizzarria degli esami con la commissione mezz’e mezzo, che sembrano
equi e invece sono massimamente irrazionali, un ircocervo nato per mediare, e destinato al fallimento.
Ma nel continuo mutare delle regole e delle prospettive, in questo
orizzonte cangiante dove viene spacciata per progressiva una realtà
scolastica in pieno sfacelo, quel che più colpisce è la labilità. Ci sono, in
Italia, pensioni d’annata, ma ci sono
anche diplomati d’annata. “Tu che
cos’hai preso all’esame di maturità?” chiede uno. E
l’altro: “Ho preso sessanta”. “Ah, sei uscito per il rotto della cuffia”. “Ma no! Ho avuto il massimo dei voti, l’ho
fatto nel 1991”. E nel mondo del lavoro ci sono ancora licenziati dal 1968 in
là, che hanno fatto l’esame su tutte le materie, con
voti distinti. E sarà interessante seguire le
annate secondo la composizione delle
commissioni. “La mia nel 1990 era ancora tutta esterna, col membro interno,
commissari dall’Abruzzo e dalla Lombardia, il presidente un
siciliano”. “La mia nel 1995 era fatta su base provinciale, ancora tutta
esterna, i professori venivano però quasi tutti dal liceo scientifico vicino,
quello di filosofia è venuto per tre anni di seguito a fare gli esami nella mia
sezione, ce l’aveva a morte con la mia scuola,
sembrava che volesse vendicarsi di qualche torto subito dai suoi allievi, che
erano stati esaminati dai professori del mio liceo”. “La mia commissione nel
2000 invece era composta per metà di insegnanti della
classe e per l’altra metà da commissari esterni”. “La mia nel 2005 era tutta
interna, c’erano gli insegnanti della classe e basta”. “La mia nel 2007 era
metà e metà”. E siamo alle solite in
Italia: il potere ordina e manda secondo ch’avvinghia,
e i sottoposti debbono arrangiarsi, fare e disfare e di nuovo fare e di nuovo
disfare.
GIOVANNONE. Gianfranco Giovannone,
l’autore di Perché non sarò mai un
insegnante, ha fondato un sito web DocentINclasse (http://www.docentinclasse.it/)
che ritengo molto interessante per i docenti italiani. Nelle intenzioni,
dovrebbe essere un luogo di confronto e di scambio di informazioni
per tutti quelli che credono che le sorti del sistema dell’istruzione oggi in
Italia dipendano soprattutto dalla professionalità degli insegnanti, dal loro
valore, dalle loro capacità di insegnamento, dal loro fare scuola. E che questi elementi siano legati ad un riconoscimento sociale e
anche economico. Giovannone crede ancora
possibile uno scatto d’orgoglio della categoria, un suo, per dir così, prendere
nelle proprie mani il suo stesso destino. Lo stimo per questo e lo ammiro. Sono
però fermamente convinto che le condizioni che sarebbero necessarie perché
potesse darsi la svolta epocale da lui auspicata nella
scuola italiana non esistano ora e non esisteranno nei prossimi anni. E questo
anche per il fatto che i colleghi che si riconoscono
nelle posizioni di Giovannone (e nelle mie) non sono
affatto la maggioranza. Infine, anche quella di morire combattendo con onore è
una prospettiva: occorrerebbe però che
vi fosse qualcuno a riconoscere l’onore.
MERCATI. A tutti coloro che
parlano di mercato, in tutte le
accezioni e sfumature che questa importante parola oggi conosce, farebbe bene
fare ogni tanto una passeggiata tra le bancarelle dei mercati cittadini e
rionali, dove si va a comperare l’insalata o le mutande. Nella mia città,
Treviso, c’è mercato il martedì e il sabato. Centinaia di bancarelle. Tra i
venditori sono ormai numerosissimi i cinesi. Tra i clienti, un colpo d’occhio
che colga le differenti fogge del vestiario e l’orecchio che colga la varietà
di favelle ci dicono che almeno un trenta per cento della folla è costituito da
albanesi, moldavi, cingalesi, marocchini, senegalesi.
Del resto, basta girare la sera per il mio quartiere e si incontrano
soprattutto persone dalla pelle scura: con tanti bambini. Questo
in una città famosa per essere governata da molti anni da un monocolore
leghista. Io sono molto interessato alle culture altre, soprattutto a quella musulmana, e tuttavia non sono un’anima
bella che si incanti davanti alle sirene del
multiculturalismo, soprattutto quando questo è puro vaniloquio, o quando è
riducibile ad una variante del celebre italico armiamoci e partite. Tutta la storia umana ci dimostra che la
convivenza di culture molto differenti non è mai stata rose
e fiori, ma sempre è estremamente problematica, e il più delle volte connotata
dalla violenza. L’integrazione è cosa seria e molto, molto difficile. Gli
Italiani la stanno affrontando con faciloneria, e una buona dose della solita
retorica buonista, retorica che ci sorbiremo ancora
una volta nella giornata celebrativa di apertura
dell’anno scolastico del 18 settembre (non si chiamerà più, spero, School Day), quando i molto onorevoli Napolitano e Fioroni proclameranno per l’ennesima volta
quanto sia bella la scuola, quanto sia importante il lavoro degli insegnanti,
quanto siano generosi i giovani, ecc. ecc. C’è un’emergenza integrazione nelle
scuole. Soprattutto nelle elementari e nelle medie accade spesso che
l’integrazione consista nel semplice gettare in una classe uno o più ragazzi
stranieri che non hanno una conoscenza della lingua italiana adeguata al
livello degli studi, o che non ne hanno alcuna, affidando tutto alla buona
volontà di maestre e professoresse (uso il femminile apposta, perché ormai la
scuola è nelle mani delle sole donne—e questo è un altro gravissimo problema,
di cui nessuno parla). Mentre ragione vorrebbe che prima di
essere immessi nelle normali classi gli immigrati apprendessero la lingua
italiana in corsi specifici. I corsi dedicati all’insegnamento
dell’italiano agli immigrati costano, si sa. Molto più comoda è l’immissione in una classe (magari a metà
dell’anno scolastico), e morta là. Ti dicono che l’avere nella scuola tante
culture differenti è un arricchimento per tutti. Rispondo che è vero in se è
per sé, in astratto, ma nella realtà poi tutto dipende da come la cosa è
trattata. Si possono anche venire a creare ghetti in cui si rifugiano i ragazzi
che non parlano bene la lingua italiana, ghetti dove può nutrirsi il
risentimento, con ciò che ne consegue per la convivenza civile. Certamente la
massiccia presenza di immigrati nella scuola non
contribuisce, in generale, così come attualmente è gestita da noi, alla qualità
degli studi. Ma questa sembra interessare a pochi.
Temo però che la sentenza del Mercato, quello globale,
non sarà molto favorevole all’Italia.
E
qui si può inserire una lettura e una meditazione del libro da poco uscito, a
cura di G. Ballarino e D. Checchi,
Sistema scolastico e disuguaglianza
sociale, che mostra come in Italia oggi la scuola non abbia quasi alcuna incidenza sulla collocazione sociale delle persone:
studiare, insomma, non consente di per sé al figlio di un operaio di
raggiungere nella scala sociale il figlio di un avvocato. I fattori che
contano, nel paese del familismo amorale, sono
altri. Ed è peggio ora che negli anni Sessanta. Ma che paese democratico è mai un paese in cui la mobilità
sociale non è garantita per nulla dal
sistema dell’istruzione? È, in effetti, lo stesso paese che prende un piccolo
nigeriano che non sa una parola di italiano e lo
sbatte in una classe di ragazzi italiani nel mese di febbraio.
11 settembre 2006 A.D.