CRONICA  XLIII

Fabio Brotto

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CATTIVI INSEGNANTI. Si può essere cattivi insegnanti in molti modi, anzi in moltissimi,  e lo si può essere anche a dispetto di una viva intelligenza e grande apertura culturale, della pratica delle innovazioni didattiche, e anche del successo conseguito presso allievi e famiglie, se lo spirito è intimamente guasto. Una delle tante anime grandi liquidate dalla Rivoluzione sovietica, e una delle supreme, Pavel Florenskij, raccontando ai figli la sua giovinezza ( Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2003), evoca ad un certo punto una figura della quale era stato intimo amico prima di scoprirne la tabe profonda: El'čaninov, che fece l’insegnante.

 

Per ogni occasione inventava nuovi metodi di insegnamento, risvegliava le menti e l'interesse, stimolava. Con lui si studiava con passione, ai suoi ammonimenti si obbediva volentieri e li si adempiva persi­no, e nella maggior parte dei casi egli poteva portare i suoi allievi dovunque volesse; solo di rado gliene capitavano di tali a cui non ispirava fiducia e che non lo amavano affatto. Il programma di studio veniva assimilato e tutto pareva filare liscio. Di fatto, inve­ce, El'čaninov strappava il bambino alla sua famiglia e, senza che il poveretto se ne rendesse conto, gli istillava la sfiducia verso il prossimo e gli insegnava a prendere le distanze dagli altri; l'allie­vo scopriva un punto di vista nuovo per lui, vuoi di sufficienza sprezzante, vuoi di biasimo e riprovazione verso i suoi genitori e tutti gli altri; da quel momento tutto e tutti gli parevano meschini, prosaici, gretti, così come convenzionali e insignificanti erano gli obblighi e i rapporti quotidiani. Era una sorta di ebbrezza, ma non come l'ebbrezza era innocente. Strappati i fili della vita e andato­sene, El'čaninov lasciava nell'anima la zizzania, un senso di vuoto e una ferita alla quale si univano il veleno di un'eccessiva autosti­ma e le pretese alla vita che essa implicava. (p. 260)

 

Questo passo mi ha ricordato un episodio significativo della mia giovinezza di insegnante. Il peggiore. Ottobre 1977. Mi hanno appena nominato (dall’anno prima sono incaricato a tempo indeterminato) in un liceo scientifico. Due classi. Entro in una delle due (una quarta) e trovo tutti gli studenti seduti coi banchi disposti in cerchio. Alla mia osservazione immediata che preferirei una disposizione tradizionale, mi rispondono che così sono stati abituati dal rimpiantissimo insegnante di italiano dell’anno precedente, che è passato all’università e di cui serbano un ricordo struggente (ovviamente di ciò la Preside non mi ha minimamente avvertito –  si sa che gli insegnanti giovani sono carne da cannone, e d’altro canto non c’è di peggio che dover sostituire in cattedra un idolo). Mi dicono che loro in classe non facevano lezioni, ma tenevano seminari. Non si sentono studenti comuni, secondo il modello della società borghese. L’insegnante-idolo, a sua volta, doveva sentirsi una specie di Lacan. Infatti, andando a vedere i registri dell’anno prima, mi accorgo che non sono annotati argomenti di lezioni, ma vaghissimi Seminario su Propp, Seminario su Deleuze, e così via). Canti della Divina Commedia letti: zero. Professore tuttavia giudicato eccelso da studenti e famiglie. Convinzione radicata in tutta la classe che la malattia mentale non esista, e i pazzi siano i borghesi che si ritengono sani, che la società sia di merda, e così via. Ovviamente nella classe c’è un allievo leader. Un autonomo, membro di un collettivo violento. Non studia nulla. Fuma molta erba. Sa tutto quello che deve sapere, sul mondo e l’ultramondo. Gli altri allievi, comprese le figlie di famiglie ricche e potenti, perdono le bave per lui. Fanno tutto quello che dice, obbediscono a ogni suo cenno. L’idolatria che si riversava sul professore ora è diretta al compagno. Durante l’anno scolastico 1977-1978 ne succedono di ogni sorta. Compreso un attentato dinamitardo alla casa della Preside. Il giovane leader finisce per alcuni giorni in carcere. Torna a scuola con l’aureola del martirio.

Quell’anno sono riuscito a spiegare due canti di Dante. Per descrivere bene quella situazione, occorrerebbe un Dostoevskij.

Anni dopo venni a sapere che un ragazzo della classe, che allora mi era sembrato un innocuo pacioccone, si trovava rinchiuso in carcere, condannato per rapina a mano armata.

Parafrasando appena Florenskij, potremmo dire che quel docente mio predecessore aveva lasciato nell'anima degli studenti di quelle classi la zizzania, un senso di vuoto e una ferita alla quale si univano il veleno di un'eccessiva autosti­ma e le pretese alla vita che essa implicava. Se v’è un modo malsano di accrescere l’autostima dei ragazzi e delle ragazze, e trasformarla in veleno, questo modo nella scuola v’è stato e vi è ancora. Ma è un modo plurale, anche se la sua radice è una sola: la fuga dalla ragione.

 

LEGGEREZZA. Corriere della Sera del 4 settembre, pag. 17, a mezza pagina. Il nume tutelare del CENSIS, Giuseppe De Rita, viene intervistato sulla proposta di scaglionare le ferie estive, in modo che non si concentrino quasi tutte nel mese d’agosto. Titolo: Ma le vacanze scaglionate esistono già. E poi chi li convince gli insegnanti?. Appare subito chiaro dunque che nel pezzo saranno gli insegnanti ad essere indicati come l’impedimento massimo alla diluizione delle ferie. “Però i dipendenti pubblici…” insinua infatti ad un certo punto il giornalista. Risponde il Solone della statistica: “L’occupazione del tempo libero di molte famiglie è condizionata dalla scuola. Ma lo voglio vedere il governo che prova a levare tre-quattro mesi di vacanza agli insegnanti!  O li voglio sentire i magistrati, gli impiegati costretti a rinunciare alle lunghe pause estive! Il ministro Fioroni non mi è parso entusiasta…”. Questo il passo che mi interessa. Ora, l’intervista in sé non sarebbe un gran che, e taluno la potrebbe giudicare trascurabile—roba estiva, d’estate se ne dicono tante—ma a me pare molto significativa di un elemento caratterizzante la vita italiana di oggi. Questo elemento è la leggerezza.

Dunque, non un avventore di una qualsiasi osteria del Triveneto, colto di sorpresa da una sprovveduta intervistatrice sottopagata di un TV locale mentre sorseggia il quinto calice di prosecco della mattinata, ma una persona di grande cultura e non indifferente peso parla di tre-quattro mesi di vacanza degli insegnanti. Uno dei luoghi comuni più infondati e da molti anni ormai privo di qualunque sostegno nella realtà. Non solo la categoria godrebbe di un massimo di quattro mesi di vacanza, ma sarebbe disposta a difenderlo con le unghie e coi denti! Gli insegnanti, pensa De Rita, godono di un potere immenso. Categoria di ferro. Togliete le vacanze agli insegnanti, e i camionisti del Cile vi sembreranno degli agnellini. Gli insegnanti dal 1 giugno al 1 ottobre sono al mare, i loro lauti stipendi, guadagnati anche senza far nulla (ché la categoria è imbottita di fannulloni, lo si chieda a Ichino), finiscono nelle tasche di agenti di viaggio, book-maker, noleggiatori di barche a vela cabinate, ecc. Non rinunceranno a questi privilegi senza combattere. Negli ultimi cinquant’anni di privilegi ne hanno conquistati tanti, non hanno mai rinunciato a nulla. Nessuno ha mai osato toccarli. Scenderanno in piazza sotto forma di orde selvagge, faranno tremare i palazzi del potere. Il Governo rischierà di cadere. Sottoposto ad un simile ricatto, dunque, nessun governo, pensa De Rita, ardirà mai tentare di scaglionare le ferie.

Quanta leggerezza, quale vaporosa inconsistenza, per cui le persone che occupano posizioni alte nella nomenklatura di questo Paese parlano di questioni che di per sé sarebbero importanti senza alcuna considerazione dei dati reali, ma così, per imagines, per battute più o meno ben riuscite. Abbiamo una riedizione mediatizzata e involgarita di quel parlare salottiero vivacissimo e superficialissimo, tutto teso all’efficacia del bon mot, dei circoli aristocratici degli anni 1780. Tanto, nessuno verrà a chiedere conto di ciò che si è detto. Tutto scivola via. Ma forse sotto il baluginare delle parolette brevi si nasconde il macigno del disprezzo per la scuola e per gli insegnanti, questa oscura massa improduttiva.

 

LABILITÀ. Ci sono sempre cose più importanti, questo è certo. Non accadrà mai che il Paese si ponga davvero la questione dell’istruzione come prioritaria per il futuro. Sempre ci sono e ci saranno emergenze e contingenze—economiche anzitutto, politiche, sociali, sportive e militari—che faranno sì che la scuola venga posta dietro, dopo, nel futuro. Inutile farsi illusioni. Anche il Governo dell’Unione fa qualcosa di buono (eliminazione del famigerato e velleitario portfolio ecc.) ma subito ripiomba nella bizzarria degli esami con la commissione mezz’e mezzo, che sembrano equi e invece sono massimamente irrazionali, un ircocervo  nato per mediare, e destinato al fallimento. Ma nel continuo mutare delle regole e delle prospettive, in questo orizzonte cangiante dove viene spacciata per progressiva una realtà scolastica in pieno sfacelo, quel che più colpisce è la labilità. Ci sono, in Italia, pensioni d’annata, ma ci sono anche diplomati d’annata. “Tu che cos’hai preso all’esame di maturità?” chiede uno. E l’altro: “Ho preso sessanta”. “Ah, sei uscito per il rotto della cuffia”. “Ma no! Ho avuto il massimo dei voti, l’ho fatto nel 1991”. E nel mondo del lavoro ci sono ancora licenziati dal 1968 in là, che hanno fatto l’esame su tutte le materie, con voti distinti. E sarà interessante seguire le annate  secondo la composizione delle commissioni. “La mia nel 1990 era ancora tutta esterna, col membro interno, commissari dall’Abruzzo e dalla Lombardia, il presidente un siciliano”. “La mia nel 1995 era fatta su base provinciale, ancora tutta esterna, i professori venivano però quasi tutti dal liceo scientifico vicino, quello di filosofia è venuto per tre anni di seguito a fare gli esami nella mia sezione, ce l’aveva a morte con la mia scuola, sembrava che volesse vendicarsi di qualche torto subito dai suoi allievi, che erano stati esaminati dai professori del mio liceo”. “La mia commissione nel 2000 invece era composta per metà di insegnanti della classe e per l’altra metà da commissari esterni”. “La mia nel 2005 era tutta interna, c’erano gli insegnanti della classe e basta”. “La mia nel 2007 era metà e metà”.  E siamo alle solite in Italia: il potere ordina e manda secondo ch’avvinghia, e i sottoposti debbono arrangiarsi, fare e disfare e di nuovo fare e di nuovo disfare.

 

 GIOVANNONE. Gianfranco Giovannone, l’autore di Perché non sarò mai un insegnante, ha fondato un sito web DocentINclasse (http://www.docentinclasse.it/) che ritengo molto interessante per i docenti italiani. Nelle intenzioni, dovrebbe essere un luogo di confronto e di scambio di informazioni per tutti quelli che credono che le sorti del sistema dell’istruzione oggi in Italia dipendano soprattutto dalla professionalità degli insegnanti, dal loro valore, dalle loro capacità di insegnamento, dal loro fare scuola. E che questi elementi siano legati ad un riconoscimento sociale e anche economico. Giovannone crede ancora possibile uno scatto d’orgoglio della categoria, un suo, per dir così, prendere nelle proprie mani il suo stesso destino. Lo stimo per questo e lo ammiro. Sono però fermamente convinto che le condizioni che sarebbero necessarie perché potesse darsi la svolta epocale da lui auspicata nella scuola italiana non esistano ora e non esisteranno nei prossimi anni. E questo anche per il fatto che i colleghi che si riconoscono nelle posizioni di Giovannone (e nelle mie) non sono affatto la maggioranza. Infine, anche quella di morire combattendo con onore è una prospettiva: occorrerebbe  però che vi fosse qualcuno a riconoscere l’onore.

 

MERCATI. A tutti coloro che parlano di mercato, in tutte le accezioni e sfumature che questa importante parola oggi conosce, farebbe bene fare ogni tanto una passeggiata tra le bancarelle dei mercati cittadini e rionali, dove si va a comperare l’insalata o le mutande. Nella mia città, Treviso, c’è mercato il martedì e il sabato. Centinaia di bancarelle. Tra i venditori sono ormai numerosissimi i cinesi. Tra i clienti, un colpo d’occhio che colga le differenti fogge del vestiario e l’orecchio che colga la varietà di favelle ci dicono che almeno un trenta per cento della folla è costituito da albanesi, moldavi, cingalesi, marocchini, senegalesi. Del resto, basta girare la sera per il mio quartiere e si incontrano soprattutto persone dalla pelle scura: con tanti bambini. Questo in una città famosa per essere governata da molti anni da un monocolore leghista. Io sono molto interessato alle culture altre, soprattutto a quella musulmana, e tuttavia non sono un’anima bella che si incanti davanti alle sirene del multiculturalismo, soprattutto quando questo è puro vaniloquio, o quando è riducibile ad una variante del celebre italico armiamoci e partite. Tutta la storia umana ci dimostra che la convivenza di culture molto differenti non è mai stata rose e fiori, ma sempre è estremamente problematica, e il più delle volte connotata dalla violenza. L’integrazione è cosa seria e molto, molto difficile. Gli Italiani la stanno affrontando con faciloneria, e una buona dose della solita retorica buonista, retorica che ci sorbiremo ancora una volta nella giornata celebrativa di apertura dell’anno scolastico del 18 settembre (non si chiamerà più, spero, School Day), quando i molto onorevoli Napolitano e Fioroni proclameranno per l’ennesima volta quanto sia bella la scuola, quanto sia importante il lavoro degli insegnanti, quanto siano generosi i giovani, ecc. ecc. C’è un’emergenza integrazione nelle scuole. Soprattutto nelle elementari e nelle medie accade spesso che l’integrazione consista nel semplice gettare in una classe uno o più ragazzi stranieri che non hanno una conoscenza della lingua italiana adeguata al livello degli studi, o che non ne hanno alcuna, affidando tutto alla buona volontà di maestre e professoresse (uso il femminile apposta, perché ormai la scuola è nelle mani delle sole donne—e questo è un altro gravissimo problema, di cui nessuno parla). Mentre ragione vorrebbe che prima di essere immessi nelle normali classi gli immigrati apprendessero la lingua italiana in corsi specifici. I corsi dedicati all’insegnamento dell’italiano agli immigrati costano, si sa. Molto più comoda è l’immissione in una classe (magari a metà dell’anno scolastico), e morta là. Ti dicono che l’avere nella scuola tante culture differenti è un arricchimento per tutti. Rispondo che è vero in se è per sé, in astratto, ma nella realtà poi tutto dipende da come la cosa è trattata. Si possono anche venire a creare ghetti in cui si rifugiano i ragazzi che non parlano bene la lingua italiana, ghetti dove può nutrirsi il risentimento, con ciò che ne consegue per la convivenza civile. Certamente la massiccia presenza di immigrati nella scuola non contribuisce, in generale, così come attualmente è gestita da noi, alla qualità degli studi. Ma questa sembra interessare a pochi. Temo però che la sentenza del Mercato, quello globale, non sarà molto favorevole all’Italia.

E qui si può inserire una lettura e una meditazione del libro da poco uscito, a cura di G. Ballarino e D. Checchi, Sistema scolastico e disuguaglianza sociale, che mostra come in Italia oggi la scuola non abbia quasi alcuna incidenza sulla collocazione sociale delle persone: studiare, insomma, non consente di per sé al figlio di un operaio di raggiungere nella scala sociale il figlio di un avvocato. I fattori che contano, nel paese del familismo amorale, sono altri. Ed è peggio ora che negli anni Sessanta. Ma che paese democratico è mai un paese in cui la mobilità sociale non è garantita per nulla dal sistema dell’istruzione? È, in effetti, lo stesso paese che prende un piccolo nigeriano che non sa una parola di italiano e lo sbatte in una classe di ragazzi italiani nel mese di febbraio.

 

11 settembre 2006 A.D.

 

 

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