CRONICA  XXXIX

Fabio Brotto

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VOLITIVI. Tra volontà e velleità il confine c’è, ma per molti è spesso difficile scorgerlo. Soprattutto se si tratta di volontà e velleità collettive. “Per poter giudicare uno stato di cose”, scrive Ernst Jünger nella sua lunga prefazione alla raccolta di massime di Antoine de Rivarol Rivarol. Massime di un conservatore (Rivarol, 1978. Trad. it di B. Lotti e M. Monaldi, Guanda, Parma, 1992, 2004) “occorrono sempre dei criteri che sono stati acquisiti andando oltre i limiti di quello stesso stato, e che Rivarol si guadagnò attraverso la disciplina spirituale. Al contrario, il tentativo di venire a capo di un’epoca con i soli mezzi offerti da questa, si consuma nel girare a vuoto intorno ai suoi luoghi comuni: non può riuscire. È questo il motivo per cui si vedono fallire spiriti volitivi ma limitati” (p. 12). Di simili fallimenti è pieno il mondo intorno a noi. Il mondo scolastico, ad esempio, ne rigurgita. Individui volitivi ma limitati affollano i luoghi in cui viviamo e operiamo. Essi si sforzano di adeguarsi pienamente alle pretese pedagogistiche dell’epoca, o a quelle che sembrano tali, e, convinti di essere in sintonia col nuovo e col moderno, liquidano come vecchiume tutto ciò che si sforza di assumere le vesti della critica e del pensiero libero. Essendo limitati, tagliano fuori tutto ciò che oltrepassa la loro breve misura. In effetti, la mera espressione disciplina spirituale, che secondo Jünger consente di andare oltre i limiti dello stato di cose in cui ci si trova inviluppati, è oggi nella nostra scuola incomprensibile e impronunciabile.

 

DOPPI. Ne La doppia vita del giudice Savage (Judge Savage, 2003, trad. it. di S. Artoni, Adelphi, Milano 2005) Tim Parks narra la storia di un giudice molto ligio ai suoi doveri professionali, ma affetto da una irrefrenabile passione per le donne, che lo porta a condurre appunto una doppia vita. Apparentemente, Savage è un giudice (di colore, nell’Inghilterra di Blair) serio e coscienzioso, e lo è davvero, ma la sua persona non si esaurisce nella sua funzione. In questa la sua moralità è specchiata, nella vita al di fuori del suo ufficio egli è incerto e confuso. Si rende conto che nei processi penali che vengono celebrati la verità è sostanzialmente inattingibile, e ci si deve accontentare di apparenze ragionevolmente probabili. Ma il ragionevolmente probabile non è mai la verità. Mentre si celebra un processo, altri se ne preparano, la macchina della giustizia deve funzionare senza sosta. Come la giustizia, anche la scuola deve funzionare senza sosta. Pure, la macchina della giustizia inglese, di cui il libro di Parks evidenzia il funzionamento regolare ma vacuo, non è percepita essere in crisi profonda, come invece avviene per il sistema scolastico. Metà degli allievi delle scuole elementari britanniche risulta essere sotto lo standard medio, moltissimi di quelli che escono dalle secondarie non sanno scrivere correttamente qualche riga, le università si apprestano a richiedere agli studenti che presentano una tesi un affidavit che garantisca che non vi sia stata copiatura totale (l’internet, bisogna pur dirlo, alla scuola ha arrecato molto più danno che vantaggio). La scuola inglese è a pezzi, e il Governo di Blair che fa? Privatizza. L’Education Bill è perfettamente in linea con l’ideologia neo-borghese della scuola che è oggi dominante. Un’ideologia che ritrovo in pieno nell’articolo di Federico Punzi riportato nel sito dei Radicali italiani http://www.radicali.it/view.php?id=48761. Qui si trova in tutta la sua purezza l’ideologia borghese astratta del bene come esito necessario della concorrenza: ciò che funziona in economia deve funzionare in ogni altro ambito, istruzione compresa. Scrive infatti il Punzi:

 

Se l'obiettivo è la qualità della formazione, se al centro devono ritornare gli studenti e le loro famiglie, i mezzi non possono che essere concorrenza spietata e meritocrazia, proprio i due principi su cui Blair ha fondato la sua politica scolastica.

 

Concorrenza spietata sa terribilmente di darwinismo sociale. Qualcosa che tutti i governanti occidentali, politicamente corretti, dicono di aborrire, mentre predicano le pari opportunità. La natura del potere (anche quello del governo democratico) da un lato, e l’ideologia della sostanziale uguaglianza basata sullo scambio, dall’altro, fanno sì che tutti i governanti occidentali non possano non essere doppi. Anche quando legiferano sulla scuola, essi non sono mai nelle condizioni di poter indicare apertamente i loro fini reali e realistici, ma debbono limitarsi ad esporre princìpi generalissimi ed un gran numero di puri mezzi. Tuttavia, si potrebbe ingenuamente pensare che i riformatori occidentali alla Blair ritengano di dover introdurre o reintrodurre una concorrenza tra gli studenti, desiderosi di apprendere il più possibile, di perfezionarsi nelle discipline, per acquisire le competenze che serviranno loro per emergere nel mondo del lavoro e delle professioni. Una concorrenza tra gli studenti che si sforzano di ottenere i migliori risultati. La meritocrazia scolastica del tempo, insomma, in cui il figlio di un ortolano, studiando accanitamente come i cinesi e gli indiani di oggi, poteva puntare ad una laurea forte, e alla conseguente promozione sociale. Si potrebbe pensare questo, davvero, ma si sbaglierebbe. La meritocrazia che è nella testa dei riformatori occidentali alla Blair non è affatto quella degli studenti: è quella degli insegnanti. Ecco infatti cosa scrive il Punzi.

 

Meritocrazia soprattutto nei confronti del corpo docente. Blair ha introdotto la "performance related pay". Ai gradoni retributivi per scatti d'anzianità ha aggiunto un gradone per merito. I docenti possono integrare il loro stipendio base in modo anche molto cospicuo superando test annuali di valutazione, che non si basano su improbabili corsi d'aggiornamento appaltati ai sindacati, ma sulla conoscenza dell'attualità della materia insegnata, sulla competenza dimostrata nella scelta dei metodi pedagogici e soprattutto sui risultati degli allievi dell'insegnante in questione accertati con una rilevazione quantitativa. Quali risultati ottengono gli studenti del prof. Rossi agli esami nazionali? Se il prof. Rossi va molto male in più test viene licenziato.

 

Più chiaro di così. La rilevazione quantitativa è la quintessenza della moderna idolatria della quantità. Appare evidente come la rilevazione quantitativa non possa assolutamente riguardare gli aspetti della formazione che realmente contano, come lo sviluppo dello spirito critico o la valorizzazione dell’eleganza e del rigore delle formulazioni  o il senso della bellezza, e in generale tutto ciò che è sottile, organico e complesso. Ovvero, più semplicemente, la rilevazione quantitativa si addice ad un’impostazione bassamente nozionistica e, in fondo, molto demagogica e ben poco scientifica.

 

Blair è partito dalla constatazione che l'istruzione statale non avesse speranze di essere all'altezza dei compiti che le sono affidati finché non fosse messa sotto pressione dalla competizione. Ci ha visto giusto e ha mirato a creare competizione tra istituti presi singolarmente, non secondo lo stereotipo dei due blocchi, statale contro privato. Per creare un mercato dell'istruzione in cui gli studenti e le loro famiglie fossero liberi di scegliere da consumatori. Blair ha aperto la scuola ai finanziatori privati — aziende, fondazioni, onlus, enti religiosi, anche associazioni di genitori — che hanno quindi voce in capitolo sulla gestione dell'istituto e sui programmi. Ai finanziamenti privati si aggiungono quelli statali.

 

Consumer society, appunto. Studenti e famiglie come consumatori. Di che cosa? Qual è l’oggetto del loro consumo? Consumeranno le meningi, spremendole nello studio come studenti di Pechino o Delhi? Consumeranno i libri a forza di compulsarli? Il consumatore è, in realtà, il punto finale della catena della produzione. Qui si vedono gli studenti acquistare l’istruzione come un qualsiasi altro bene, ovviamente pagandolo. Per consumare bisogna infatti prima spendere. La scuola è in definitiva, come mostra eloquentemente lo sfondo della nostra pagina Scuola e non scuola, una faccenda di soldi. Poi, la ragione astratta troverà molti modi di colorire questa nuda realtà, e molti ne sono già ingannati. Come sempre negli ultimi duecento anni, dal tempo del trionfo della borghesia, domina la falsa coscienza. Infine però, come scrive Tim Parks, e come tutti noi vediamo ogni giorno nelle nostre scuole, “la ragione astratta si dissolve nell’acido dell’interesse personale” (p. 215).

 

BEDUINI. Secondo una credenza molto diffusa in Damasco, nell’ultimo giorno Gesù scenderà dal cielo su di un minareto della grande moschea degli Ommeyadi, e di là giudicherà gli uomini, separando i buoni dai cattivi. Dividerà forse anche i buoni insegnanti dai cattivi. Tra i buoni è senz’altro da annoverare il maestro bedù di cui raccoglie la testimonianza Stefano Cammelli, nel suo bel libro Il minareto di Gesù (il Mulino, Bologna 2005). Quest’insegnante è uno che si spende per rispondere ad un bisogno di sapere. Il suo è un atteggiamento che nel mondo occidentale molti insegnanti avrebbero ancora, se fosse stimolato o anche solo consentito dalle condizioni in cui si presentano loro gli allievi, e dalla situazione della scuola in generale. Soprattutto mi pare che il maestro bedù colga un elemento essenziale: vi è un momento decisivo nella storia personale di ogni giovane vita in cui si gioca tutto. Lo sviluppo della curiosità culturale e del sapere dipendono da quel momento. E in quel momento è determinante il rapporto con la persona che sta sulla cattedra (reale o figurata). È un kairós, un attimo fuggente. Nessun pedagogismo sissino può darti la capacità di coglierlo. Fere lo sol lo fango tutto ‘l giorno / vile reman…, per dirla con Guido Guinizelli.

 

È cominciata così, tornando dai miei parenti sotto le ten­de durante le vacanze estive. Quando la sera mi chiedevano se magari potevo insegnare qualcosa ai bambini approfittando del fatto che io ero lì. I ragazzi che vivono nel deserto non hanno solo i denti sani, sa? Sarebbe interessante capire come e perché siano così, ma sono più lucidi. Arrivano con mag­giore semplicità al senso delle cose e colgono più velocemen­te degli altri dove devono andare. Forse perché non ascolta­no, o non si lasciano frastornare dalle troppe parole come in ogni città, o semplicemente perché ne hanno più voglia e non intendono lasciarsi sfuggire nessuna occasione. Fatto sta che quando alla fine dell’estate io dovevo tornare a insegnare e li lasciavo… era una grande tristezza. Insegno da anni: questa voglia di apprendere, questa curiosità verso un mondo ester­no e difficile non è perenne. È un attimo. Se la si coglie la cu­riosità del ragazzo cresce e con questa la sua cultura, se la si lascia cadere a volte è persa per sempre.   (p. 129)

 

PROGRAMMI. Prossime essendo le Elezioni, mi pare opportuno esaminare i Programmi dei due schieramenti per quanto in essi riguarda la scuola. Come è noto, il Programma della CDL è molto sintetico, mentre quello dell’Unione è molto vasto, con moltissimi punti. Anche per quel che concerne in particolare la scuola, è ovvio che all’estrema sintesi dell’uno corrisponda un ampio dispiegarsi dell’altro. Vero è che una sintesi potrebbe essere sostanziosa, e un ragionare diffuso potrebbe essere vacuo. Vediamo dunque le cose da vicino. Cominciamo dalla brevità della CDL. Mi devo subito correggere, qui non di brevità si tratta, ma di assenza. Non vi è, infatti, un punto specifico che riguardi il sistema dell’istruzione. La scuola è citata nel passaggio introduttivo dedicato alle intenzioni future (5. 6) di aiuto alla famiglia: “garantendo servizi pubblici sempre più di qualità nella scuola e nella sanità”. Poi al Punto 1, dedicato ancora alla famiglia, si legge al sottopunto 3 : “Creazione sul modello francese, di un libretto vincolato per ogni nuovo nato, per aiutare le famiglie nel costo degli studi. Sostegno alle famiglie per una effettiva libertà di scelta educativa tra scuola pubblica e scuola privata”. Poi al Punto 8, Ricerca ed Energia, leggiamo: “Libera trasformabilità delle Università in Fondazioni, in modo da aprire le università italiane ai contributi della società civile, al mercato, all’estero”. Qui è interessante notare come dei nove sottopunti solo i primi due siano dedicati alla ricerca, e i rimanenti sette all’energia. Infine al punto 9, Solidarietà sociale, è scritto: “Continuità nell’assegnazione di libri di scuola gratuiti per le famiglie meno agiate ed estensione fino al 18° anno di età per garantire la fruizione del diritto/dovere all’istruzione”. Potremmo concludere che la CDL vede la scuola come un problema risolto (dalla Riforma Brichetto alias Moratti) e in ogni caso come una realtà secondaria. La cultura in sé per la CDL sembra non essere un valore per il sistema dell’istruzione.

 

Passiamo all’Unione. Qui il discorso è più complesso (in apparenza). Qui varie pagine sono espressamente dedicate alla scuola, l’intero capitolo intitolato Conoscere è crescere (p. 224 e sgg.). Comincia così: “Apprendere lungo tutto il corso della vita è un diritto inalienabile di ciascuno. Per questo è necessaria una scuola inclusiva, di qualità, che non lascia indietro nessuno”. Ahi! Che belle parole! Mi sembra di riconoscere il pathos del Ministro Berlinguer. Già l’inizio dice che qui trionfa il buonismo, unito alla capacità di sognare. La scuola inclusiva di qualità non mi risulta esistere in alcun paese del mondo. Includere tutti e mantenere la qualità è difficilissimo. In effetti, poi, non è chiaro che cosa si intenda per qualità. Inclusivo è il contrario di esclusivo, e il pari diritto di tutti ad accedere all’istruzione è già scritto nella nostra Costituzione. Tuttavia, una cosa sono i sacrosanti princìpi, un’altra le letture che ne vengono fatte. L’inclusività della Costituzione si coniugava con l’idea della capacità e del merito. L’art. 34 recita infatti che “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. L’inclusività è una bella cosa quando si traduce in accoglienza vera degli handicappati e degli stranieri: è abominevole quando annienta le differenze tra i capaci e gli incapaci, i meritevoli e i fannulloni. La storia dell’inclusività nel nostro sistema scolastico è molto più legata al rifiuto di ogni selettività, di ogni meritocrazia, che al giusto inserimento dei deboli, degli extracomunitari e dei disabili (e io ne so qualcosa, avendo un figlio autistico ed essendo presidente di una associazione di genitori di persone con autismo: la preparazione degli insegnanti di sostegno è quel che è, ecc. ecc.).

C’è, tuttavia, un passaggio che apprezzo. “È infatti nella scuola che si forma la cittadinanza. Qui tutti crescono insieme, qui si costruisce la Repubblica, qui si gettano le fondamenta di un’etica pubblica laica e condivisa, rispettosa delle scelte, delle fedi, delle convinzioni di ognuna e ognuno. La scuola è una garanzia per la democrazia. È indispensabile rifondarne il ruolo pubblico, valorizzare la professionalità e l’autorevolezza degli insegnanti. Sono parole nobili, l’Unione sembra aver compreso che senza il contributo fondamentale della scuola e degli insegnanti l’Italia non andrà da nessuna parte. Però parole del genere le ho già udite, e da molti anni. Di molto simili ne ha pronunciate anche, anni fa, all’inizio del suo nefasto mandato, Berlinguer Arcidiavolo. E poi per valorizzare i docenti ha escogitato il Preside-Dirigente, il Vicario nominato dal Dirigente, il Concorsaccio.

“La scuola è una macchina complessa che ha bisogno di un progetto condiviso e di lungo periodo per dispiegare l'efficacia della sua azione educativa”, recita quindi il Programma di Prodi. Come non essere d’accordo? Solo che poi si aggiunge qualcosa che mi insospettisce: “Un tale modello di scuola non può che essere costruito intorno agli studenti di ogni età, alle loro potenzialità, alle loro domande. Solo così si potrà riattivare la comunicazione tra adulti e nuove generazioni.  Siamo alle solite: centralità dello studente-cliente. Le domande qui non sono quelle culturali dello studente curioso al professore, sono la domanda (lo studente che Destra e Sinistra hanno in mente, al di là degli ornamenti che le differenziano, è anzitutto homo oeconomicus) cui corrisponde l’offerta (formativa).

In un passo successivo si legge: “Dovremo promuovere l’istruzione scientifica e tecnica, mettere in comunicazione la scuola e il mondo, l’istruzione e il lavoro, innalzare ed estendere il livello d’istruzione del Paese per essere competitivi in Europa e nel mondo”. Innocenti luoghi comuni sull’istruzione, dirà qualcuno. Ma non è forse preoccupante che siano scanditi senza tregua da decenni? Dunque il fine supremo dell’istruzione è per ognuno dei due schieramenti essere competitivi in Europa e nel mondo. De hoc satis.

Per rendere giustizia al programma dell’Unione, occorre rilevare come in esso sia contenuto un po’ di tutto, e forse anche vi coesistano linee di tendenza alla lunga incompatibili, alcune delle quali mi sembrano, sulla carta almeno, condivisibili e apprezzabili. Tra queste spicca quella che si esprime nelle seguenti righe: “Dobbiamo inoltre garantire a tutti i docenti la libertà di insegnamento prevista dall’art. 33 della Costituzione. Solo tramite tale libertà si promuove infatti la piena formazione della personalità degli alunni. Dovremo inoltre garantire l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca. È necessario, pertanto, che a livello regionale e nazionale siano costituti organi di rappresentanza e garanzia dell’autonomia della libertà di insegnamento”. Queste righe sono inserite nel capitolo dedicato all’autonomia scolastica. Di questa, e di come sia stata intesa in questi anni, sono davvero stanco di scrivere e di parlare. Io sono, del resto, un’ammuffita reliquia del vecchio liceo, unitario su tutto il territorio dell’Italia unita, e tenuto insieme anche dall’esame di maturità con commissione tutta esterna. Non ho quindi, in realtà, alcun diritto di critica. Ma, arrogandomelo comunque, sentenzierò che il salto argomentativo dall’affermazione della libertà di insegnamento alla creazione di organi di rappresentanza a garanzia mi lascia perplesso. Non potrò mai dimenticare, infatti, che è stato un Governo di Sinistra a togliere ai docenti il diritto di designare i collaboratori del Preside, facendo del Vicario quella figura totalmente non democratica e totalmente burocratico-dirigenziale che è oggi nelle nostre scuole. Si sarebbe dovuto correggere così il passo sopra citato “ La scuola è una garanzia per la democrazia, ma questa, come la libertà di insegnamento, non è garantita agli insegnanti all’interno delle singole scuole. Occorreranno pertanto Organi regionali e nazionali di garanzia”. Organi, magari, che offrano possibilità di incarichi, consulenze e buone prebende.

 

Chiunque vincerà queste elezioni, per le nostre scuole non mi attendo nulla di veramente buono.

 

 

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