Fabio Brotto
REALTÀ I. Il vecchio Francisco Miranda, il rivoluzionario sudamericano che coi suoi ricordi occupa la parte finale di Una via nel mondo di V.S. Naipaul (A Way in the World, 1994, trad. it. di M. Dallatorre, Adelphi, Milano 1995), è un tipo umano che ricorda, per alcuni aspetti, quella astrattezza dei patrioti di cui scrisse Vincenzo Cuoco a proposito della mancata rivoluzione partenopea del 1799, ma che a me ricorda anche l’astrattezza dei Pedagogisti, quel loro mancato afferrare (begreifen) la realtà, che è una delle concause della rovina della scuola italiana di oggi. Sembra che esista, in effetti, un modello, un archetipo di legame mancato con la realtà, che si può riprodurre all’infinito, negli ambiti più disparati, ma sempre con le medesime caratteristiche, e con le stesse disastrose conseguenze. Le caratteristiche ricorrenti mi paiono chiaramente presenti nel passo di Naipaul. 1) Anzitutto, come l’interlocutore di Miranda vede bene, vi è la tendenza alla semplificazione delle cose. In questa i nostri esponenti del Potere Pedagogico Sovrano hanno raggiunto un livello eccelso, ed eccellono tuttora. La realtà essendo complessa, il pensiero pseudopedagogico, che non sa adeguarsi a tale complessità, opera semplificazioni, rettifica ciò che è contorto, copre le asperità e dispone un fragile tappeto di ramoscelli sopra le voragini. Che però rimangono, pronte a ingoiare chi vi si avventura fidandosi. Quindi, anche senza volerlo, il Pedagogista è ingannatore e fraudolento: la pseudopedagogia è la pedagogia che mente. 2) Come a Miranda, così ai nostri mirabili Pedagogisti e Riformatori quasi tutte le idee sono state ispirate da conversazioni e letture fatte all’estero, e soprattutto nei Paesi anglosassoni, verso i quali essi provano un senso misto di reverenza ed invidia. Parafrasando Naipaul, possiamo aggiungere che anche ai Nostri è accaduto che la realtà che si sono creati nella mente è diventata sempre più simile alla realtà dei paesi di cui parlavano i libri che leggevano. E la forma-studente su cui costruivano i loro modelli era quella di uno studente de-realizzato, in-esistente, iper-uranico. Invero, il P.P.S. sa bene che esiste una resistenza del reale alle sue teorizzazioni, ma pensa di superarla semplicemente ignorandola. 3) Gli studenti reali, quelli per esempio che non vogliono studiare, gli studenti che negano se stessi come studenti, per così dire, e che sono moltissimi, al Pensiero Pedagogico Sovrano paiono elementi accidentali rispetto alla verità a cui sta da sempre pervenendo. Essi sono dunque rigorosamente esclusi dai testi pedagogici, o la loro non volontà di studio è ridotta ad accidente psicologico, superabile mediante l’intervento di opportune tecniche, e non appare come un fenomeno storico, legato alle trasformazioni strutturali della società occidentale, dei suoi miti fondanti, e del Mercato che li sostiene e li media. Né può apparire come libera scelta operata da un soggetto autonomo, capace di atti di volizione negativi (il soggetto in generale, a ben guardare, non è amato dalla moderna prassi pedagogica). 4) Non avendo fondamenti in un pensiero veramente pensante, la Pedagogia Dominante oscilla, ha due o più idee della stessa realtà perché non ne ha nessuna, e di se stessa ha due, tre, quattro idee perché non ne ha nessuna, e non ne ha nessuna perché essa come pedagogia è puramente e semplicemente un nulla. Leggiamo Naipaul:
« In tutti gli anni
durante i quali ha scritto sul Venezuela
e sul Sudamerica lei ha semplificato le cose, generale. Ha parlato degli inca e dei bianchi. Ha parlato di persone degne della
repubblica di Platone. Ha
trascurato due colori, però: ha dimenticato i neri e i mulatti. Forse perché
era così lontano? ».
« No. L’ho fatto perché,
intellettualmente, mi era più facile. Quasi tutte le mie idee di libertà mi
sono state ispirate da conversazioni e
letture fatte all’estero, perciò il paese che mi sono creato nella mente è
diventato sempre più simile ai paesi di cui parlavano i libri che leggevo. Non
c’erano negri in Tom Paine o Rousseau. E quando ho cercato di essere come loro mi è stato difficile inserire i negri.
Sapevo che esistevano, naturalmente, ma mi parevano elementi accidentali rispetto alla verità a cui stavo pervenendo. Quando ho cominciato a mettere
per iscritto le mie idee mi sono sentito in dovere di escluderli dai miei
testi. Proprio per il modo in cui sono vissuto, sempre in paesi altrui, sono
sempre riuscito ad avere in mente due o più idee della
stessa realtà: due idee del mio paese; due, tre, quattro idee di me stesso.
È una cosa che ho pagato a caro prezzo. Non deve
muovermi dei rimproveri, adesso ». (pp. 396-397) [Il grassetto è mio.]
BREVE. Breve e furente, il libello di Emilio Parresiade La scuola
del P(L)OF (Michele Di Salvo Editore, Napoli 2004) dà, nella sua brevità,
alcune misure. La misura, anzitutto, dell’indignazione ancora
viva (ma per quanto ancora?) in una parte degli insegnanti italiani. Un’indignazione che difficilmente si traduce in discorsi, e che
quando riesce a farsi parola e argomentazione non trova, di solito, ascoltatori
adeguati. Parresiade è pseudonimo, e si
capisce perché debba esserlo: il furore sacrosanto qui trabocca e si fa
invettiva, che colpisce a destra e a manca, coinvolgendo una quantità di
persone e di responsabilità. Dà anche la misura, questo libretto, dello scarso
numero dei docenti ancora sensibili alla cultura più che al soldo ad ogni
costo, e della poca forza che essi possono opporre alla
valanga del degrado. Infine, la scarsa diffusione di questo pamphlet, scritto
da un docente indipendente, dà la misura della difficoltà che gli appartenenti
alla decaduta casta degli insegnanti della scuola media superiore trovano nel
far circolare le loro idee sulla scuola, se sono idee libere. Ad essi nessuno chiede nulla, se non di assicurare un
tranquillo funzionamento degli istituti, promuovendo possibilmente sempre
tutti, anche i più asini. Nessuno si sogna, ad esempio, di assicurarsi una vera
adesione ai progetti di riforma da parte degli insegnanti: essi sono
considerati una massa debole e non pensante, priva di capacità di autonomia e di resistenza. Temo che in
effetti le cose stiano proprio così, e che soprattutto le nuove leve
siano particolarmente poco dotate di autonomia spirituale, e incapaci di dire
no ancora più delle vecchie generazioni, e che libelli come quello di Parresiade (e queste Croniche stesse) siano come i canti di
battaglia degli Indiani d’America, che si preparavano alla sconfitta e alla
morte.
Un
piccolo saggio della scrittura di Parresiade, che mi
sembra rappresentare bene il procedere della sua ostensione della verità: la didattica breve definita, ovvero
giustiziata, in poche righe (né vi è altro modo per renderle giustizia).
Supporto
inevitabile alla flessibilità oraria escogitato per concentrare l’assimilazione
di contenuti sempre più ampi in tempi sempre più brevi. Ovvero: la storia romana in tre lezioni e la trigonometria in
cinque unità di dieci minuti ciascuna. I teorici della d.b. credono fermamente che il tempo sia un’opinione ed il
cervello umano un CDRom, o la borsa di Mary Poppins. Pranzare sette volte la
settimana equivale, per loro, ad ingurgitare in un solo pranzo il cibo di sette
giorni. L’utente-pollo d’allevamento sarà sottoposto a
nutrimento intensivo a base di pillole, condensati e distillati didattici.
Scoppierà di scienza. Esploderà di sapere. Tanto saprà, che non saprà di
sapere. Inghiottirà in una vita la cultura di mille generazioni. Insomma: vita longa, ars (didactica) brevis. (pp.
28-29)
REALTÀ II. Guardiamo i nostri allievi, consideriamo quella che ci appare essere la
loro realtà; guardiamo poi il nostro volto allo specchio, consideriamo quella
che ci appare essere la nostra realtà. Quindi leggiamo il seguente passo da Presso la torre saracena di Ernst Jünger
(Am Sarazenenturm,
1955, trad. it. di Quirino Principe nell’antologia Il contemplatore solitario, Guanda, Parma 2000). Chiediamoci se la condizione del
povero doganiere con cui il grande scrittore tedesco parla nella Sardegna del
1954 non presenti delle analogie con quella nostra, di docenti di qualità sempre peggiore che vivono entro i limiti di una condizione subalterna in una scuola in cui l’intelligenza non conta nulla, sperimentando il destino umano di essere infelici nel quadro della propria
professione.
L’ho interrogato sulle
sue prospettive di vita e di lavoro; non sembrano davvero grandiose. Qui vige un sistema di promozioni e di avanzamenti che in fondo altro non è se non un passo di
lumaca entro i limiti di una condizione subalterna. Qualcosa di simile
avviene da noi: nel nostro paese esistono impieghi professionali di second’ordine ai quali si affibbia
ogni vent’anni un nuovo nome, tanto per rinfrescarli con una mano di vernice.
Devo ammettere che la prospettiva di essere ancora caporale in questo caldo
nido dopo trent’anni di servizio non è molto allettante. Qui c’è un « confine
povero », come dice il
doganiere — ciò significa che c’è ben poco da sequestrare. Ci si sposa quanto
prima è possibile, ogni anno arriva un bambino, negli anni buoni anche due. Nel
paese c’è sovrabbondanza di un famelico ceto impiegatizio con personaggi che
si direbbero tratti da Lazarillo de Tormes, soprattutto
da quando l’Italia ha perduto le colonie.
Il brav’uomo
si concede un bicchiere di quel vino scuro e mi guarda con aria melanconica:
« Sa, in Italia l’intelligenza non conta nulla;
qui vale soltanto il denaro. I miei compagni di scuola sono già tutti
avvocati e medici; io ho dovuto lasciare gli studi molto presto. I miei
genitori non avevano i denari. Però, nella mia vita
scolastica ho sempre studiato, anche quando gli altri giocavano; non conosco
nulla di più bello. Alla fine, quando ho fatto un bel pacco dei miei
libri, ho pianto ».
Dunque, uno scolaro
modello, e lo si nota già nella conversazione.
Musica: Bach, Mozart, Beethoven, Wagner, Verdi. Letteratura tedesca: Klopstock, Lessing, Schiller, Goethe con Iphigenie,
Tasso, Faust che egli pronuncia « Foost ». Insetti: lepidotteri, coleotteri, imenotteri. Sa
molte cose a memoria, con eccellente precisione.
Se rammento simili compagni di scuola, e se penso
alle occasioni in cui li ho incontrati nel corso della vita per la quale la
scuola a quel che si dice dovrebbe preparare, mi sembra proprio di averli
trovati in un analogo stato d’animo. Essi appartengono in maggioranza al tipo
umano del primo della classe in una sua variante: il sottotipo dello studente
scrupoloso e infaticabile, tagliato su misura per quel ruolo scolastico: una vocazione naturale. L’altro sottotipo di primo della classe
è quello geniale, che svolge i compiti con facile
maestria, «giocando ». Quest’ultimo può venire a noia dopo la pubertà; può fallire
negli obiettivi cui le sue doti lo predisponevano, oppure svilupparsi con
successo e mettersi trionfalmente in luce, come se il suo precoce talento
dell’infanzia fosse un preannuncio di gloria.
Nella
concorrenza sempre più aspra che si sta sviluppando nelle nostre scuole, è da
temere che la selezione favorisca i bravi secchioni
che imparano tutto a memoria. Privilegiare costoro è per gli insegnanti, i
quali sono anch’essi di qualità sempre peggiore, il compito più facile. Così, nei gradi più alti della gerarchia sociale
s’insedia una risma di sgobboni, di uomini che non
hanno mai tempo per nulla. Ma ogni tipo umano superiore
è invece riconoscibile dal fatto che ha tempo e non regola la propria vita
sull’orologio. Dinanzi all’alternativa, egli preferirà
vivere alla giornata piuttosto che condurre un’esistenza da pedante.
Del resto, il dominio
dei pedanti è sempre soppiantato dalla rivolta dei
falliti geniali. E una di quelle rivoluzioni che ritornano, indipendentemente
dai temi che di volta in volta sono di moda. Così si
mette in luce l’aristocratico fra i giacobini, e come lui altri tipi umani che
ognuno conosce. Si può indovinare il futuro proprio dai grandi temi di cui si
occupano simili spiriti dopo che la vita li ha traditi.
Quanto allo stato d’animo di cui
soffre il doganiere, nella consapevolezza di una professione mancata, mi domando
da molto tempo se esso non filtri più in profondità di quanto non si pensi,
anzi, se non sia proprio esso il fallimento più autentico e diffuso. Se paragoniamo gli
esseri umani a pallottole di diverso calibro, la vita li scuote, li setaccia e
li fa passare attraverso crivelli di misura diversa fino a quando essi
rotolano nell’alloggiamento che corrisponde al loro calibro. In questo senso ciò che chiamiamo
il destino umano può consistere nel fatto di essere infelici nel quadro della
propria professione. (pp. 116-117) [Il grassetto è mio].
2 marzo 2005 A.D.