CRONICA XXVIII
Fabio Brotto
DANCE.
"All dances are, more
or less, rituals of mating choreographed by Eros" queste parole di Robert
Polhemus (vedi http://www.bibliosofia.net/files/DUE_LIBRI_49.htm
) mi vengono in mente udendo al telefono il racconto che una signora mi fa di
una strana faccenda scolastica, un tenebroso affare. Una sua amica le ha detto
di essere sconvolta per aver ricevuto dal Dirigente del liceo frequentato da
suo figlio una inattesa comunicazione sul libretto
scolastico: lo studente sarebbe potuto entrare il giorno dopo in classe solo se
accompagnato direttamente da un genitore, che era chiamato a conferire col
Dirigente a causa di una mala azione del figlio. Questi, insieme ad un suo amico – gli unici due maschi della classe – si
sarebbe rifiutato di partecipare ad una lezione di lap dance, lezione che si teneva durante le ore di educazione fisica.
La signora mia amica mi chiede se un fatto del genere possa accadere realmente
nella scuola italiana di oggi, o se si dovesse pensare
ad un possibile fraintendimento da parte della sua amica. "Ma certo che
può accadere, mia cara" le rispondo, "senza arrivare all'incredibile
lezione pratica di educazione sessuale che si vede nel
film dei Monty Python Il senso della vita, in cui due
insegnanti si accoppiano sulla cattedra per dare una dimostrazione sperimentale
delle teorie apprese dagli allievi, tra il disinteresse totale della classe e
la confusione generale. Senza arrivare (ancora) a quel punto, certamente, ma
fatti del genere possono davvero accadere. Forse non si trattava di lap dance, la tua amica avrà capito male,
ma il senso non cambierebbe molto. Probabilmente si
sarà trattato di un ballo con strofinamento (lambada o simile). Un fatto del genere può accadere benissimo. Può
accadere per i seguenti motivi: 1. Il concetto di educazione
fisica si è molto allargato. Mia figlia, ad esempio, ha subito, con tutta la
sua classe, delle lezioni di ballo latinoamericano. 2. Il conformismo deve
essere assoluto. Non è ammissibile, ad esempio, che due persone si distacchino dal resto della classe, che sostengano di non
volersi conformare ad una visione e ad una pratica cui non si sentono affatto
inclini. 3. Il concetto di decenza e quello di volgarità sono divenuti obsoleti
e insignificanti nella lieta postmodernità italiota,
di cui la scuola è intrisa. 4. La scelta del singolo, come
espressione della libertà, è un valore di cui la scuola parla
(talvolta), ma che non mette in pratica quasi mai. Il singolo nella nostra
scuola è protetto nei suoi diritti personali solo in
apparenza, e ciò è inevitabile quando si sia imposto lo spiritus gregis. Ma tant’è, non bisogna prendersela troppo. Di
fronte al disordine del mondo, leggerezza: take
this waltz, per dirla
con Leonard Cohen.
MAESTRI. Il rapporto tra allievo e maestro è sempre ambiguo, dilemmatico, ricco di tensioni. L'insegnante non ha quasi
mai lo statuto di maestro, e tuttavia
ne mantiene alcuni tratti, per quanto sfumati, qualche
residuo: per esempio nella mansione di istruire ed educare insieme, un compito
che ben pochi sono in grado di sobbarcarsi, ma che viene pensato come
essenziale anche ai livelli più alti del Ministero. La coorte dei Pedagoghi e
dei Giornalisti, e gran parte di coloro che scrivono
sulle riviste che si occupano di scuola, affermano che la scuola deve istruire
ed educare. Dell’istruzione e dell’educazione lo studio personale non fa parte, o vi ha poca parte. Eppure sarebbe la cosa più importante, e il fondamento di
tutto. Così come la spiegazione è
l’atto fondamentale del docente. Entrambe le parole sono obsolete.
Nel suo libro Il mio orecchio sul suo cuore (trad. it. di I.
Cotroneo, Bompiani, Milano
2004), Hanif Kureishi
scrivendo del suo rapporto col padre dice qualcosa che, richiamando fortemente
la dialettica girardiana maestro allievo, tocca un aspetto sempre presente e
variamente declinato in ogni relazione di insegnamento
e apprendimento.
Mio padre era
essenzialmente un insegnante, ed era affascinato da quanto una persona potesse imparare. Ma la posizione dell’insegnante non è mai
priva di ambiguità.
Alla fine, c’è una persona che ha
il potere e una che non lo ha. Il maestro ha qualcosa che l’allievo può
volere o può rifiutare. Leggendo il libro di mio padre mi sono reso conto che,
in parte, sono stato spinto a provare quello che provava lui. Certo, lui voleva
che avessi successo, proprio come suo padre si
aspettava da lui, ma aveva paura che diventassi troppo potente, e mi mettessi
in competizione con lui. Non voleva, per esempio che mi trasformassi in suo
fratello, che aveva più talento e che era uno
sbruffone, una persona capace di tollerare
l’invidia altrui. Se dovevo essere un fratello per mio
padre, dovevo essere quello debole, quello piccolo, il ruolo che era stato
imposto a lui. Allo
stesso tempo
voleva che fossi di buona compagnia e pronto a
recepire i suoi insegnamenti. In effetti dovevo essere
come lui in ogni senso. Se mi fossi allontanato da
questo schema, ci sarebbero stati problemi. (pp. 55-56)
In effetti, come indica Kureishi, una cosa evidentissima, per quanto possa spiacere
a molti, è che non vi è autentico insegnamento senza potere, e il potere non può essere dalla parte del discente finché
insegnamento vi sia. Naturalmente, si tratta di vedere che tipo di potere sia,
e a che qualità di intelligenza sia legato. Ma insomma, potere ha da esserci, mentre nell’Occidente moderno il
potere di chi insegna è di per sé limitato, anzi quasi inesistente. Il
potere nella scuola si esprime nella burocrazia, in cui anche i migliori
docenti sono impaniati. E anche all’Università, dove pure vi sono forme di
potere anche molto spesse e inscalfibili, il potere
non deriva dall’attività dell’insegnare di per sé, e dalla sua qualità, cioè non deriva dalle capacità di insegnamento, ma da altro.
Questo altro detiene
ed esercita il potere nella sfera dell’Istruzione.
Il secondo punto
importante nel passo di Kureishi riguarda la
questione della volontà dell’allievo.
“Il maestro ha qualcosa che l’allievo può volere o può rifiutare”. Qui
propriamente si celebra il dramma che tutti i docenti seri vivono
continuamente, nell’esperienza della non
volontà dell’allievo di apprendere ciò che
l’insegnante vorrebbe trasmettergli. Quindi ecco il fermarsi alla soglia della
vera dialettica maestro-allievo, quella investigata da
Girard e da tanti autori nel corso dei secoli, che si dà solo quando l’allievo
vuole diventare come il maestro o addirittura oltrepassarlo, il che può
avvenire solo qualora giudichi importante sia il sapere posseduto da quello,
sia il modello che il detentore del sapere rappresenta. La volontà di imparare
la cosa che il maestro possiede è scarsa, nella scuola di oggi.
Perché l’allievo fa fatica a percepire quello che il maestro possiede e potrebbe trasmettergli.
Provate a chiedere ad uno studente che cosa desideri di ciò che il docente
possiede… No, non chiedevi e non chiedetegli scemenze del genere, piuttosto elaborate progetti che possano incontrare il gradimento dei
Dirigenti e l’approvazione dei solerti Collegi.
IL terzo elemento significativo
è la natura conflittuale del rapporto maestro-allievo, quella che riporta alla
dialettica girardiana. Il pericolo che corre l’insegnante è quello di volere
che i suoi allievi volonterosi di apprendere restino
deboli, piccoli, infantili, che non diventino autonomi, insomma che non si
trasformino in umani pienamente adulti. Da questo punto di vista nelle scuole
s’è avuto un bel regresso nell’infantilismo, proprio mentre passavano nel corso
degli ultimi decenni i più bei discorsi sui diritti degli studenti ecc. È proprio per questo che io non chiamo per nome i miei
allievi, ma li tratto come adulti, anche se certo non lo sono pienamente. Ma trattandoli come bambini, come fa la maggior parte dei
miei colleghi, non cresceranno mai. Del resto, la loro non crescita è forse proprio quello che è auspicato dal Sistema.
ACQUA. Non ho letto molte interpretazioni simboliche della morte per acqua del Parini,
il liceo allagato che ha occupato l’attenzione dei media
per qualche giorno in ottobre. Forse perché sono un lettore
distratto della stampa, e un utente ancor più distratto della televisione.
Ma l'evento si presta di certo ad una quantità di
letture. Vediamone qualcuna.
Acqua
battesimale. Purificazione. Esorcismo.
L’acqua può essere vista come l’elemento insieme mortale e purificatore. I due
aspetti sono connessi: nel battesimo l’immersione nelle acque della morte è seguito da una resurrezione dell’anima, mondata dal peccato.
E le forze del male sono esorcizzate e disperse. Ciò
può essere detto del Parini, in cui il lavacro purificatore
apparentemente ha segnato il trionfo delle forze più negative e retrive (quei
22 perfidi e ottusi professori che con la loro famosa lettera invocavano
punizioni draconiane, chiedendo che i reprobi fossero cacciati nel deserto,
come capri espiatori, per allontanare dalla sacra polis della cultura il miasma
della giovinezza allegra e piena di vita di cui ha parlato il faceto Marco Lodoli in una memorabile intervista alla TV). Al di là dell’apparenza, invece, quello scorrere di acque
altro non era che lo scaturire delle soprannaturali acque della grazia, che
toccando prima l’illuminatissimo Dirigente del Parini stesso, indi il Ministro Brichetto,
hanno determinato per i miseri la pena rieducativa di
15 giorni di allontanamento. Un periodo di ascesi, in
cui se saranno lontani lo saranno solo fisicamente, perché tutti saranno in
realtà loro vicini, per aiutarne la redenzione, farli tornare di nuovo santi, e
poterli infine riaccogliere in un grande abbraccio, in cui tutto sarà obliato.
Acqua fecondatrice, che scende dall'alto. In effetti si potrebbe
sostenere che l’acqua del Parini non sia scaturita dalle
profondità, ma scesa dall’alto, anche se in alto portata prima dalle tubazioni
dell’acquedotto, che passa nel sottosuolo, a contatto con le potenze ctonie, il che
rende la scena di difficile comprensione agli interpreti. In ogni modo,
assumendo l’acqua come discendente, vi si può scorgere la forza fecondatrice. Ne aveva forse bisogno un terreno come quello liceale,
disseccato ormai dal suo non essere al passo coi tempi (ancorato agli aoristi,
ai perfetti, e a quei congiuntivi che nessuno usa più nemmeno tra i coltissimi giornalisti
dei TG). Ne necessitavano le cervici dei docenti,
rigide e dure – come si evince dalle reazioni furiose di alcuni di loro, già avvezzi
da sempre a scoraggiare gli allievi con voti bassi – che ora saranno finalmente
portate a quel rammollimento che le intelligenze più acute del Paese invocano
da decine di anni. Ne abbisognavano gli allievi, che
non avevano tutti ancor compreso che l’Italia non è il luogo delle punizioni
facili e del rigore gelido, ma un “così riposato, ..così bello viver di
cittadini”, ove quando un giornalista rivolge qualche domanda allo straziato
parente della vittima di un omicidio la prima cosa che chiede è “Ma lei perdona
all’assassino?”, e dove il concetto di dovere
è organicamente legato a quello di altro
da sé.
Acque del caos, che sorgono dalle profondità. Il mostro caotico primevo,
che sorge dall’Abisso, è una potentissima metafora di ciò che gli umani temono
più di ogni altra cosa, ma che nello stesso tempo più
di ogni altra realtà li attira: il caos, la con-fusione, il fondersi insieme e
rendersi indistinguibili dei piani che dovrebbero rimanere separati per evitare
la distruzione del gruppo sociale: il maschile e il femminile, il buono e il
cattivo, ecc. ecc. Non v’è chi non veda come nelle
nostre società occidentali contemporanee tutti i principi di separazione siano
caduti, e di conseguenza tutte le gerarchie siano avvertite come accidentali,
fortuite, prive di fondamento, reversibili e rifiutabili. Anche quelle tra
saperi, come il sapiente Berlinguer aveva a suo tempo
indicato nel più chiaro dei modi, ponendo allo stesso livello di valorizzazione
scolastica giardinaggio (non botanica, a scanso di equivoci)
e studio delle lingue classiche.
OSCILLARE. Nella parte conclusiva del suo meraviglioso Il Dio dei filosofi (Der Gott der Philosophen , 1971, trad. it. Brusati, Brusotti e Mauro, il
melangolo, Genova 1994, vol III), Wilhelm
Weischedel tenta di definire Dio come oscillazione assoluta (p. 303). Profanando
il concetto weischedeliano, si potrebbe applicarlo
alla scuola italiana contemporanea, e forse per estensione alla scuola
occidentale contemporanea, e forse per estensione ancora più comprensiva all’intera
società occidentale. Rimanendo nell’ambito di comprensione minore, quello della
scuola italiana contemporanea, l’oscillare che Weischedel
riferisce alla problematicità assoluta noi lo potremmo
riferire, con un funambolismo audace, ad alcune realtà relative. Oscillano
fisicamente gli edifici scolastici, soprattutto in alcune zone d’Italia,
lesionati, corrosi, trascurati, deteriorati. Oscillano le menti degli studenti,
tra la scarsa propensione ad uno studio di cui non vedono fine e ragione, e la
volontà di procurarsi comunque un titolo di studio – cui
rivendicano il diritto – per una vita futura piena di videotelefoni, discoteche
e divertimenti vari. Oscillano le menti dei genitori, tra la svanente gratuità
dell’istruzione e la proclamata necessità di avere figli formati ai livelli
richiesti dalla meravigliosa società bagordo-tecnotronica. Oscillano le menti di
una parte dei docenti, tra l’amore per ciò che sanno e le difficoltà che
incontrano da parte di tutto il resto della Scuola. Oscillano le menti di altra grande parte dei docenti, tra il senso della
propria dignità decrescente e la brama di fare qualunque progetto purché dia
denari. Oscillano le menti dei Dirigenti, tra la percezione
della propria funzione amministrativo-burocratica come fondamento della Scuola
e la smania di ottenere finalmente una didattica omogenea, interscambiabile e
ridotta in pillole, in cui la figura del docente sia assolutamente fungibile e
scarsamente significante. La mente, poi, di coloro che
sono preposti a più alte funzioni semplicemente oscilla, avvicinandosi
dunque alla condizione divina.
25
novembre 2004 A.D.