CRONICA XXVII

Fabio Brotto

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BUROSAURI. Questa parola dei ferrigni anni Settanta mi è venuta in mente mentre leggevo (on line, naturalmente) il regolamento di istituto di una scuola. Tra le cose interessanti di questi tempi incerti spicca lo strano accoppiamento tra il culto dell'efficienza (apparente l'efficienza, non il culto che è ben reale) e la proliferazione dell'apparato cartaceo ed elettronico. Pare che nel nostro Sistema nulla sia reale se non è certificato, ovvero che la realtà sia tale solo se è confermata da un documento scritto. La civiltà dell'incertezza, la nostra, in cui nulla appare certo, a cominciare dai valori condivisi, è ossessionata della certificazione. E ciò si spiega benissimo, poiché quando manca qualcosa di fondamentale per loro, gli umani ripiegano sui surrogati, e così, venute meno le certezze, essi ripiegano sulle certificazioni. E l’insegnante, che di nulla più è certo, a cominciare dal senso di ciò che fa, deve certificare (le competenze, ecc.) così che l’allievo certi-ficato, ovvero fatto certo, reso stabile, appagato e realizzato, esca dalla scuola infine col suo bagaglio (bella immagine di facchino) di conoscenze, capacità e competenze, serenamente avviato sui radiosi sentieri della sua vita futura. Una vita in cui, per dirla col ministro Maroni (ma perché non ci danno anche il ministro del warfare oltre a quello del welfare?) se non ti fai “imprenditore di te stesso” sei fottuto. Ciò che nel sullodato regolamento attira maggiormente la mia attenzione è il modo in cui l’innovazione appare essere un valore in se stessa. Come accade in tutti gli ambiti, peraltro. La scuola infatti professa il suo impegno nell’innovazione didattica ecc. Una vera professione di fede – gli umani devono sempre credere in qualcosa, poiché il mero sapere non basta loro. Io avrei scritto più o meno così: “la scuola si impegna a sostenere una didattica di qualità”. Ma qui invece, è ovvio, continua a funzionare l’equazione novum = bonum, che è pura e semplice ideologia. E poi, ben si sa come la qualità sia un qualcosa di sfuggente e non misurabile… coloro che pensano di avere gli strumenti per misurare la qualità dell’istruzione solitamente hanno solo qualche ideuzza banalmente conforme alle presunte necessità del Sistema.

E però è vero che, come ben sapeva l’uomo di Stoccarda, a volte la quantità trapassa in qualità. Ma una logica puramente quantitativa non può indicarci quale sia il punto in cui il  detto passaggio si realizza.

 

La cosa per me più esilarante, che oggi va per la maggiore, è il contratto formativo. Pare che venga inteso da molti come un documento scritto, che all’inizio dell’anno verrebbe sottoposto ai discenti. Un contratto solitamente obbliga due parti, ma a me il contratto formativo pare implicare un obbligo a senso unico ( e quali saranno le sanzioni in caso di mancato adempimento?) : quello dei docenti. Si tratta, a mio avviso, di un ulteriore fenomeno metastatico-burocratico, da un lato, e dall’altro di un ulteriore peso, di un formalismo inutile, di un’altra tappa nel processo di impiegatizzazione e burocratizzazione del corpo docente. I docenti si impegnano a…  Ma questo non fa parte dell’etica professionale loro? Non basta che il docente illustri i programmi che presenta, ecc., ma deve anche firmare un contratto… E l’altra parte? Si impegna alla disciplina, allo studio, ecc.?

Già il termine scolastichese formativo è orrendo e da fuggirsi. Io non l’uso mai, perché la parola forma è da me venerata ed amata (“nigra sum sed formosa”), e quell’orribile derivazione mi fa soffrire. Ma gli è che nella scuola italiana quella parola torna spesso, sulle labbra di persone la cui forma spirituale lascia molto a desiderare, e che anzi sono, per dirla col Supremo, metaforicamente analoghe a “vermo cui formazion falla”. E pur quelli si vantano di essere formati, e formatori, e formatori di formatori. Ciechi guide di ciechi. Alas!

 

SCIOPERO. V’è nella scuola un adagiarsi in ciò che deve accadere, e contro cui nulla si può fare, come di fronte alle perturbazioni atmosferiche che vanno e vengono. Gli studenti arrivano  prima delle 8 e chiedono ai compagni: oggi c’è sciopero? Molti sperano di sì, per evitare la noia delle lezioni, altri si rassegnano. In ogni caso è importante evitare di ritrovarsi in classe soltanto in due o tre. Non sia mai! Stare un’intera mattinata a tu per tu con insegnanti scocciati, molti dei quali avrebbero preferito un’aula del tutto vuota di allievi… E quanti professori raccomandano ai loro studenti di decidersi ad entrare o a uscire dall’istituto sulla base del “tutti dentro o tutti fuori”, incentivando così il conformismo, il bieco spirito del gregge. Per motivi veramente sindacali lo sciopero, invece, non si fa, non ci si pensa nemmeno. Con rassegnazione i docenti del mio liceo vivono il nudo fatto di non aver ricevuto ancora, in ottobre, il compenso per gli esami di maturità di giugno. Quanto poi a scioperare per i precari non pagati da tre mesi, o per casi anche peggiori, non se ne parla nemmeno. I docenti sono gente seria, mica degli scioperati come i loro studenti. Essi danno l’esempio.

 

PADRE I. Che la figura del padre nel corso dell’ultimo secolo abbia subito un’eclissi nelle società occidentali è un’assoluta evidenza. L’aspetto forse più rilevante del mondo occidentale contemporaneo è il suo essere una società senza padre (La “società senza padre” preconizzata da Alexander Mitscherlich nel 1963) . Nello stesso tempo, l’Occidente è il luogo in cui la liberazione del desiderio, resa possibile dallo svanire della figura repressiva del padre, è diventata il fondamento anche della struttura economica. Il sistema produttivo delle società tecnotroniche non reggerebbe se la spirale dei desideri crescenti subisse una qualche interruzione. Tutti, in linea di principio, devono poter credere che i loro desideri potranno essere prima o poi soddisfatti, almeno indirettamente o per via vicaria. Devono comunque pensare che i desideri abbiano il diritto di essere soddisfatti, e che siano tutti leciti, salvo isole di non permissione (il cui fondamento è però relativistico e quindi fragile e precario). Devono credere che la repressione del desiderio sia la fonte di ogni male. La pubblicità, che della società del libero scambio è l’anima, si basa su questa ideologia. Il desiderio, non il petrolio, è il carburante del sistema capitalistico contemporaneo. Sviluppo del capitalismo e caduta della figura del padre non stanno insieme per caso, ma per intima necessità.

Dopo l’undici settembre ci troviamo dunque chiaramente di fronte ad uno scontro di civiltà, che non è affatto esploso per motivi di ordine meramente economico, né a causa della povertà, e neppure per una causa religiosa in senso stretto – anche se Israele tende pur sempre ad essere costituito come capro espiatorio a livello mondiale. Il vero motivo è culturale. Una cultura a fondamento patriarcale non può né generare né accogliere il libero flusso dei desideri che è consustanziale al sistema di libero mercato, pena il proprio annichilimento. Il movimento islamista ha visto questo pericolo con estrema lucidità, e ha deciso che nessun prezzo è abbastanza alto da non poter essere pagato per una  battaglia contro una cultura portatrice di caos, la nostra attuale, in cui addirittura uomini sposano uomini e donne sposano donne. Per gli islamisti il patriarcato è l’unica forma sociale degna dell’essere umano.

 

PADRE II. Da sempre la figura del padre e quella del maestro sono contigue. Sono entrambe figure che per avere un senso hanno bisogno di autorevolezza. E non a caso, ancora, entrambe sono coinvolte nella stessa caduta. Infatti il sistema della cultura occidentale (aperto, polimorfo e cangiante sì, ma lungo ben precise direttrici) ha portato un attacco ad entrambe le figure contemporaneamente, e in particolare lo ha fatto mediante la letteratura ed il cinema. Le figure paterne nel romanzo degli ultimi due secoli, ad esempio, sono quasi in toto negative, come le figure di insegnanti e maestri. Nel cinema è sostanzialmente lo stesso, e quando un padre o un insegnante appaiono connotati positivamente, lo sono per dei loro caratteri in qualche modo fraterni e sostanzialmente immaturi. Come a dire: l’unica figura virile accettabile per i giovani e sensata è quella che si spoglia della maturità, della pienezza dell’essere virile, per farsi in qualche modo coetaneo. Questo è il modello che è passato, quello vincente, quello che è espresso dopo il 1945 dalla cultura giovanilistica e vittimistica del nostro Occidente. Un modello che, secondo me, è clamorosamente fallito. Questo mi è venuto in mente considerando il romanzo di Eraldo Affinati Secoli di gioventù (Mondadori, Milano 2004). Romanzo, detto tra parentesi, che mi pare presenti diverse caratteristiche della produzione letteraria media italiana di questi anni, soprattutto per quel che riguarda la costruzione complessiva e i modi della narrazione. Il protagonista è un insegnante quarantaseienne che ha la vocazione del padre e, non essendolo biologicamente, dirige la propria tensione d’amor paterno verso i propri allievi, in particolare verso uno di questi disabile, e verso un giovane tedesco destinato ad espiare, in qualche modo, le colpe del nonno nazista. Un romanzo che affronta un tema importante – che cosa significa essere padri? – senza avere tutti i mezzi per una siffatta impresa. Un libro riuscito a metà (ho il sospetto poi che gli editors siano ormai la peste delle lettere mondiali), con qualche parte interessante. Noterò, incidentalmente, come quando la scuola compare in un romanzo sia sempre vista in dettagli negativi, oppure sotto angolature che non ne fanno cogliere la problematica d’insieme. Qui non è del tutto così: l’insegnante, di italiano e storia in un professionale, deve tener testa a una classe difficile. Composta però di ragazzi facili da comprendere. “Mi creda, è il nostro sguardo a complicarli. Gli adolescenti cresciuti nel vuoto degli affetti piombati – genitori simili a etichette sentimentali, famiglie consunte, passioni recise – sa di cosa avrebbero bisogno? Di un nemico” (p. 13). Affinati, che ha letto Girard, conosce la natura polemica dell’essere umano, e in particolare del maschio, e sa che non esistono facili vie d’uscita e soluzioni irenistiche a buon mercato. Il suo insegnante è in qualche modo un guerriero dell’educazione, che sa combattere la sua battaglia col necessario distacco, in modo da difendersi dal contagio mimetico, cui neppure i docenti sono immuni. Le righe che riporto qui contengono un concetto che condivido pienamente: insegnante al centro, distanza critica, resistenza ai richiami – al flusso caotico dei desideri e delle pulsioni.

 

Signor Mayer, sono sdraiato sul letto dell’albergo, anco­ra frastornato dopo la visita al tempio. Ho bevuto diver­se lattine di birra e credo di essere andato fuori giri. Vor­rei poter riuscire a dirle perché suo figlio è diventato anche un poil mio. Vede, io faccio l’insegnante e ogni volta che entro in aula, chiudendomi la porta alle spalle, mi trasformo nella controfigura del padre. È come un’as­se d’equilibrio: i giovani alle estremità, io al centro; il che significa restare a una distanza di sicurezza dal fuoco delle passioni. Se non lo accetti, per i ragazzi diventi inaffidabile. Tu sei la misura della maturità: lo scandalo necessario. Provando la tua resistenza ai richiami cui lo­ro non sono ancora in grado di opporsi, capiscono se de­vono seguirti oppure no. (p. 133)

 

KEPLER. Il problema più grave della scuola di oggi non è rappresentato dalla carenza di strutture, dall’adeguatezza dei programmi, o dalla bassa retribuzione degli insegnanti. Il problema dei problemi, come debbono riconoscere docenti e genitori cui sia rimasto un barlume di luce intellettuale, è quello della motivazione dei ragazzi allo studio. La quale non c’è, o è molto scarsa, come in altre di queste Croniche ho rilevato. Stamattina, mentre viaggiavo in macchina ante lucem verso le colline della mia caccia, intorno alle 6, su Rai 24 ho ascoltato un’interessante trasmissione sulla scuola (è l’ora giusta, chissà chi l’ascolta). Ad un certo punto parlava pure Vertecchi, il famoso pedagogista, che accusava di ipocrisia la gestione dei debiti scolastici attuata dalle scuole. Un uomo davvero coraggioso. Dal suo pulpito. E per una strana e straniante associazione di idee mi è venuto in mente un passo di Adalbert Stifter, dal romanzo La cartella del mio bisnonno (Die mappe meines Urgroßvaters, trad. it. di S. Puleio, Aktis Editrice, Piombino (Li) 2002).

 

All’epoca pensavo spesso ad un uomo singolare. Avevo sentito narrare a Praga che meno di cento anni fa viveva in una stradina di Linz, che è la città più vicina al nostro bosco, un uomo chiamato Johannes Kepler, che in forza del suo incarico, come credo, avreb­be dovuto insegnare ai ragazzi ed esercitare l’agrimensura, ma che invece si mise a osservare le stelle in cielo per indagarne i moti; poiché sapeva che si trattava di un numero infinito, straordinario, di grandi corpi celesti. Dato che non possedeva una bottega, non aveva casa, né proprietà o danaro, lo disprezzavano, schernivano i suoi studi e lo sollecitavano ad assolvere al suo dovere. Ma egli restò saldo nel suo proposito. Trascorsero molti anni e scoprì con assoluta precisione e poté descrivere le leggi che regolano i movi­menti dei corpi celesti. Con le lacrime agli occhi disse:

— Chi sono io, mio Dio, che hai degnato di poter indagare sul tuo mondo?

Scrisse le leggi su un foglio e le divulgò, e fu di nuovo dileggiato e preso per matto. Vennero i saggi, verificarono le sue ricerche e le confermarono. Poi giunsero i matematici, fecero i loro calcoli su una lavagna con dei disegni e dimostrarono che non poteva essere altrimenti. Lo stupore per l’acutezza di quell’uomo fu grande e il suo genio fu esaltato. Ma era già da tempo sottoterra.

Ora pensavo molto spesso alla sua pazienza e alla sua forza. Il destino viaggia in una carrozza d’oro. Di ciò che viene schiacciato dalle ruote non resta niente. Se cade una roccia su un uomo o un fulmine lo uccide, e non potrà più fare quello che faceva prima, lo farà un altro. Se un popolo viene disperso senza poter conseguire le sue aspirazioni, lo farà un altro e meglio. Quando tutte le cor­renti dei popoli saranno trascorse, portando con sé elementi indi­cibili e innumerevoli, ne verranno ancora e ancora di nuovi e nes­sun mortale può dire quando finiranno. E se hai arrecato un dolo­re al tuo cuore che ora palpita e si strugge, o si rinfranca e riscuo­te, non per questo tutto si ferma, ciò che è grande muove comun­que verso il suo scopo. Tu invece avresti potuto ostacolarlo, o puoi mutarlo, e sei stato ricompensato; ora ne scaturisce un even­to straordinario. (pp. 239-240)

 

La grande risorsa, la forza e il grande dono degli umani è lo studio appassionato, gratuito e non immediatamente finalizzato ad un utile. Proprio quello studio che nella società italiana contemporanea, accecata dall’immediatezza del profitto e del godimento, trova sempre meno spazio, sempre meno valorizzazione, sempre meno amore. Lo studio, che è l’essenza della vera scuola, è esattamente ciò di cui oggi si parla meno di ogni altra cosa in ogni discorso che riguardi la scuola.

 

18 ottobre 2004 A.D.

 

 

SCUOLA E NON SCUOLA