CRONICA XXV

Fabio Brotto

brottof@libero.it

bibliosofia.net 

 

 

GATSBY. L’ “idealismo” di Gatsby, il protagonista del Grande Gatsby, il celebre romanzo di Fitzgerald, è espressione del “pensiero positivo” indispensabile al dinamismo della vita americana. Questo ha sostenuto Stephen L. Gardner al convegno girardiano di Innsbruck del 2003 nel suo intervento Democracy and Desire: The Theology of Money in The Great Gatsby  http://theol.uibk.ac.at/cover/events/innsbruck2003_Gardner_Paper.doc .

Tuttavia, v’è da pensare che un “pensiero positivo” sia necessario al dinamismo di ogni società contemporanea, non solo a quello della vita americana, e che ove prevalga il “pensare negativo” non possa che esservi stagnazione e inerzia. D’altra parte il “pensare positivo” è assolutamente anti-filosofico, sia nel senso della totale avversione ad ogni prospettiva metafisica, sia nell’altrettanto forte disgusto per ogni forma di critica. Come il pensiero critico possa convivere con un tranquillo procedere della produttività tardo-capitalistica nelle società tecnotroniche dell’Occidente, tra le quali è bene o male inserita la terra d’elezione della telefonia mobile, l’Italia, è problema apertissimo. Questo io so con certezza, che la scuola italiana di oggi mal si presta a favorire lo sviluppo di un razionalità critica negli studenti. E ciò anzitutto perché essa tende a reprimerla negli insegnanti, laddove si manifesti in gruppi più o meno sparuti di questi, o in singoli individui isolati. La scuola delle due B (Berlinguer-Brichetto), che si proclama dell’autonomia non ama l’autonomia intellettuale degli insegnanti.

In un passo  del testo di Gardner leggiamo quanto segue.

 

È il semplice rifiuto di riconoscere che dei limiti insuperabili sono parte della condizione umana. Nella sua essenza, è la negazione gnostica del corpo sia sul piano simbolico sia su quello della realtà: cioè una negazione di qualsiasi ordine naturale. L’idea di possibilità illimitate, la magia di trasformazioni e rinnovamenti senza fine; l’abrogazione del passato, la rinascita del sé – queste idee usate per richiedere l’intervento soprannaturale della grazia, nell’economia spirituale della vita americana vengono incapsulate nella promessa di ricchezza favolosa e di beni quali auto e cosmetici offerti dall’economia consumistica. Questa economia non è guidata da bisogni naturali e sociali, né da piaceri, soddisfazioni, comfort e convenienza di specie ordinaria. Piuttosto, essa è guidata dal bisogno di definire se stessi mediante le cose che conferiscono alla gente l’immagine di sé. Queste merci ci promettono di renderci interamente padroni del nostro essere.

 

È chiaro che l’immagine del sé che è conferita dalle cose (l’automobile di lusso piena di tecnologia, il videofonino dell’ultima generazione, ecc.) va pensata come socialmente mediata. Il riconoscimento sociale del valore di certe merci è quello che le rende appetibili: come ciò che sancisce il valore sociale dell’individuo. Sono in gioco, come sempre, fattori mimetici. Ogni preadolescente, ogni adolescente, brama il riconoscimento sociale. Ne ho la riprova ogni anno, perché ogni anno in prima liceo do un tema sul conformismo, e gli studenti dicono tutti sempre la stessa cosa, usando più o meno le stesse espressioni. Il terrore di ogni ragazzo e ragazza è l’emarginazione, la condizione di solitudine e isolamento, la non appartenenza ad un gruppo. La “padronanza del proprio essere” può esistere solo se essa stessa è riconosciuta dagli altri. Mi ricordo certi libri di testo degli anni Settanta, che svolgevano pagina dopo pagina una forte critica del consumismo: quanto sono stati fatti lavorare su questa critica gli studenti delle elementari e delle medie, in quegli anni! Mi piacerebbe che si facesse una ricerca su : la scuola degli anni Sessanta e Settanta e la sua lotta al consumismo. Se ne vedrebbero delle belle, credo (magari questa ricerca è stata fatta, ma non ne sono a conoscenza). Dal mio ristretto angolo visuale, dovrei concludere che tutto il lavorio di generazioni di insegnanti per formare menti critiche della società dei consumi è fallito. La possente, fantascientifica antenna per videofonini che da poco si innalza superba a duecento metri dalla mia scuola, e che invade lo sguardo di chi contempli l’esterno dalla sala insegnanti, cui corrisponde il furore digitativo delle masse studentesche, è il monumento di questa catastrofe culturale. Non me ne lamento: forse la consumer society è la migliore società che sia mai esistita, come postula Eric Gans. Di una cosa sono sicuro, in ogni caso: del consumismo si può essere critici radicali credibili solo se si vive una vita sottratta alla sua logica. I docenti di quegli anni lontani, che pagavano le rate dell’auto mentre insegnavano agli allievi gli orrori della catena di montaggio, non la vivevano.

 

ALAIN. Professore di filosofia grande e fortunato, É. Chartier, pensatore e scrittore con lo pseudonimo di Alain. Grande e indipendente. Fortunato anche per il fatto di aver avuto tra i suoi allievi Simone Weil. Non si può essere grandi insegnanti senza essere menti libere. La scuola italiana di oggi sembra rifiutarsi a questo concetto, la pseudopedagogia dominante va in tutt’altra direzione, non in quella della liberazione degli spiriti (è ovvio: non sa cosa sia libertà, e quanto a spirito, non ne possiede alcuna nozione): verso l’asservimento a modelli di massa. Il bello si è che lo fa in modo assolutamente, naturalmente ipocrita, mostrando le cose come non sono, e facendo credere che siano come non sono. Ne La vita di Simone Weil scritta da Simone Pétrement (trad. it. E. Cierlini, Adelphi, Milano 1994) cogliamo la presenza nel rapporto tra Chartier e i suoi allievi dell’entusiasmo pedagogico, dove entusiasmo va riportato al senso originario greco di presenza del divino. Una situazione del genere oggi può apparire folle (ma tra follia ed entusiasmo, si sa, il passo è breve…).

 

A metà della parete, di fronte a noi, c’era una grande lavagna davanti alla quale Alain passava entrando. Di solito, prima della lezione, gli allievi vi scrivevano qualche passo di un autore che avevano letto, un pensiero che era loro parso bello, e di cui desideravano perciò sentire il commento di Alain. Questi si fermava, leggeva la citazione e spesso si entusiasmava. Così quasi sempre la lezione cominciava con un commento. Poi Alain restituiva le dissertazioni e i topos, che gli erano stati consegnati la lezione precedente. Chiama­vamo topos i saggi che scrivevamo spontaneamente per lui su argomenti di nostra scelta. Ci impegnava infatti a scrivere il più possibile perché era persuaso che imparare a scrivere bene vuol dire imparare a pensare bene. Oltre alle disserta­zioni, che ci dava da fare abbastanza regolarmente (almeno ogni tre settimane) su argomenti scelti da lui, ci consigliava di mettere per iscritto le idee che ci fossero venute su qualsiasi argomento e di consegnargli tali saggi, che ci restituiva poi corretti. C’era chi non ne consegnava mai, chi raramente, mentre gli allievi più zelanti ne consegnavano spesso. Simone ne consegnò spesso e senz’altro vi era particolarmente inte­ressata, perché sembra abbia conservato i suoi topos a prefe­renza delle dissertazioni. Fra i compiti corretti da Alain che sono stati ritrovati a casa sua, nessuno porta un voto in cifre: le dissertazioni erano invece classificate.

Avevamo lezione di filosofia tre volte la settimana. All’inizio di ogni anno scolastico, Alain sceglieva due grandi autori che poi si studiavano, un’ora la settimana ciascuno, durante quasi tutto l’anno. Uno era un filosofo, l’altro un poeta o un romanziere o un saggista. Nel 1925-26 si studiò Platone e Balzac: la maggior parte dei dialoghi del primo e dei romanzi dell’altro. Nel 1926-27 le opere commentate furono, credo, le Critiche di Kant e l’Iliade di Omero; forse, verso la fine dell’anno, i Pensieri di Marco Aurelio e il poema di Lucrezio. Nel 1925-26 il corso propriamente detto verté sulla psicolo­gia (intesa al modo di Alain, cioè comprendente manifesta­mente la logica, la morale e la metafisica). L’anno seguente si trattò della storia della filosofia e l’anno dopo ancora so che ci fu un corso su Hegel. (pp. 45-46).

 

Fahrenheit 1.  C’è un grande nemico del Sistema: la Lettura. Infatti il Sistema la scoraggia in tutti i modi. Uno dei modi è stato escogitato dal valentissimo Berlinguer e dalla sua coorte di pedagoghi-docimologi-psicologi-magi, e confermato dalla Signora Brichetto e dalla sua coorte di manager-magi-pedagoghi-psicologi: il 3 più 2 più altro all’Università. Infatti il 3+2 nelle facoltà umanistiche sembra inventato apposta per allontanare gli studenti dai libri. Su questo v’è stato un bellissimo intervento di Pietro Citati sulla Repubblica dell’8 giugno. Dopo aver visto quel che avveniva nel liceo della Weil, il pensiero della presente condizione universitaria italiana, qui espresso, è deprimente. Mi piace quel che Citati dice delle maledette lauree brevi, corsi triennali in cui si offre “una puerile storia della letteratura e della filosofia”. Gli ha risposto sulle colonne dello stesso giornale Aldo Schiavone, con argomentazioni assai deboli a mio parere. Citati gli ha risposto poi con un altro articolo, di cui cito poche righe. “L’Italia ha bisogno di centinaia di migliaia di professori per le scuole medie e i licei: non soltanto geni della ricerca, ma ottimi insegnanti: i quali lavorano oggi con stipendi miserabili come sempre, ma afflitti da decine di ore pomeridiane di scemenze e demenze burocratiche, che quindici anni fa non esistevano. La loro situazione è insostenibile, mentre la follia burocratica sta moltiplicandosi ogni mese. Senza una buona scuola media e un buon liceo – so dire una cosa banalissima – non ci saranno mai buone facoltà universitarie di nessuna specie”. Parole sacrosante. Per questo lasceranno il tempo che hanno trovato.

 

Fahrenheit 2.   C’è un grande nemico del Sistema: la Lettura. Infatti il Sistema la scoraggia in tutti i modi. Su Italia oggi del 25 maggio  il Ministro Lucio Stanca scriveva che la Riforma Brichetto alias Moratti prevede “una significativa evoluzione per passare da una ‘scuola auditorio’ ad una ‘scuola laboratorio’, dove la nuova tecnologia digitale diventa una risorsa per la sperimentazione”. Bello! Bello davvero. A parte che la movenza “daa , con la sua evocazione di un processo inesorabile, di una ruota del karman, di un ineluctabile fatum, di un eracliteo divenire mi ha sempre mandato in estasi (dalla scuola del…alla scuola del…., ecc. ecc.: quanta cultura in siffatti slogan, quanta potenza di pensiero, che ricchezza di suggestioni poetiche e metafisiche, quanta forza critico-liberante!), potrei anche dire: un computer su ogni banco, collegato a quello sulla cattedra, in ogni aula, ecco qualcosa a cui sarei pronto. Ma i compiti di italiano – alas! – sono  ancora vergati a mano, e lo saranno ancora per molto. Bene, andiamo avanti, ché leggere lo Stanca è davvero riposante. Dunque, egli argomenta che “l’insegnamento non deve essere subito passivamente, attraverso la ricezione di nozioni mnemoniche, ma deve essere il risultato dell’attività volontaria dell’alunno, impegnato in lavori che rispondano ai suoi interessi”. Bello anche questo, nobile davvero, e mai sentito prima. Mi piacciono questi alunni che si lanciano volontariamente nello studio delle grammatiche, delle leggi fisiche, ecc., spinti da un incontenibile impulso, mentre i lavori che essi stessi si propongono rispondono ai loro interessi (di che natura?).  Mi viene in mente la situazione in cui vennero a trovarsi molti reparti russi sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale, quando non vi era un fucile per ogni soldato, e nell’andare all’assalto chi era senz’arma doveva aspettare che cadesse un compagno armato per poter impugnare il suo fucile e continuare l’azione. Con un computer ogni 13 studenti, la situazione mi sembra analoga, ma peggiore.

A parte il solito ideologismo, per cui l’informatica risolverebbe ogni problema di formazione, nel testo dello Stanca si nota un particolare preoccupante. Egli scrive che “noi apprendiamo solo il 10% di quello che leggiamo; il 50% di quello che vediamo e ascoltiamo; il 70% di quello che discutiamo con altri, ma ben l’80% di quello che sperimentiamo”. Conclusione logica sarebbe: i libri non servono a nulla, sono addirittura dannosi, evviva il video mediante il quale si “sperimenta”! Signori, di qui a Fahrenheit 451 il passo è breve, brevissimo: Romanzi?  Questa spazzatura può far diventar pazzo un uomo!

 

GRAFIA. C’è stata la riunione preliminare. Fra qualche giorno dovrò correggere le prove di italiano dei miei allievi-candidati. La correzione, attività fondamentale del docente, patisce la sofferenza della disgrafia. Anno dopo anno, le scritture degli studenti, che tendono alla illeggibilità come al loro fine, sono sempre più ostiche alla lettura. È qualcosa di metafisico, forse, certo è una crisi del linguaggio scritto mediato dalla mano. La mano come strumento di precisione e di ordine aveva già sofferto nella scuola degli anni Cinquanta e Sessanta, col travolgente passaggio dalla penna a pennino, il calamo, alla stilografica, da questa alla penna a sfera, a inchiostro vischioso, liquido, gelatinoso, al roller-ball e via mutando. Praticità, tecnologia, infine la disgrafia dilagante, la mancanza di controllo della scrittura, l’illeggibilità.

Mi piacerebbe sapere quanto tempo della mia vita, che avrei potuto dedicare alla lettura delle opere dei maestri, ho dovuto disperdere nelle lunghe sedute di decifrazione degli elaborati. Tempo, tra l’altro, facente parte della funzione docente, quindi irrilevante ai fini dello stipendio, non monetizzabile. Ma c’è, come ovunque, il rovescio della medaglia, che l’insegnante stolto non riesce a vedere, il saggio sì. Quel tempo, apparentemente perduto in decifrazioni faticose, in realtà non è perduto: è stato il tempo dell’ascesi. Non c’è vero sapere se non mediato dalla sofferenza, questo è risaputo da millenni, è un pilastro della Tradizione. Le scritture degli studenti non sono sacre, l’atto del decifrare è premio a se stesso. Ora, è vero, non c’è grafia che resista alla mia penetrazione, per quanto sia ermetica ed esoterica, anni e anni di lotta con l’informe hanno dato al mio spirito forma e luce. Vedete, insegnanti, che l’ostacolo è per la realizzazione. Es muß Ich werden.

Naturalmente, gli Omog ( razza aliena diffusasi nell’intero Occidente a partire dal famoso fatto di Roswell – pare che il loro nome significhi omologatori-oggettivanti) che premono sui docenti di italiano perché adottino identiche griglie di valutazione,  ignorando tutto o quasi sulla scrittura, né sapendo cosa sia un testo e come interagisca col lettore, poiché nel loro pianeta non esistono né libri né scrittori) massimamente ignorano il problema della grafia. Devo assolutamente parlarne a Mulder e Skully.

 

15 giugno 2004  A.D.

 

SCUOLA E NON SCUOLA