CRONICA
XXIII
Fabio Brotto
SACRIFICIO. Se, come pensano i seguaci di René Girard, tutto
ciò che è specificamente umano ha origine nel sacrificio,
anche la scuola non può non affondare le proprie radici in quella pratica, da
cui l’Occidente di oggi pensa di essersi liberato solo perché ne ha distolto lo
sguardo (al punto che dai mass-media non sono mai trasmesse le immagini
dell’uccisione di animali, neanche dei polli che mangiamo: le trasmissioni
televisive che trattano dell’allevamento di galline e maiali saltano in tronco
il momento fatale dell’uccisione, su cui Döblin
scrisse alcune pagine mirabili ). Vedere all’indirizzo http://www.bibliosofia.net/files/MACELLO.htm.
Trovo conferma dell’idea a pag. 56 de Il sacrificio, di C. Grottanelli
(Laterza, Bari 1999, p.56).
Si possono raggiungere dati analoghi ... prendendo le mosse da uno scolio a Pindaro secondo il quale al poeta, arrivato nel santuario di Delfi famoso per la voracità dei suoi sacrificatori, fu rivolta la domanda: «Che cosa porti da sacrificare?»: ed egli rispose: «Un peana». In tale testo è interessante sottolineare non tanto la congruenza tra parola poetica e vittima sacrificale, pur evidente nel passo, quanto la corrispondenza profonda fra lo smembramento e la ripartizione sacrificali da un lato, e la poetica e la metrica dall’altro. Se il tema può individuarsi in modo convincente per il mondo greco antico, una verifica comparativa e data dalla nozione indiana del Virāj (il metro poetico di tre piedi di dieci sillabe ciascuno, cui viene attribuita, nei Brahmana, la proprietà di essere e creare nutrimento), e più in generale dalla dottrina secondo cui i metri poetici sono intesi come esseri viventi, animali, vittime sacrificali e quindi alimenti. L’uso di formule di quattro versi, o di quattro piedi, in questi testi indiani può essere messo in relazione con il principio dell’omologia tra il verso e l’essere vivente. Tali formule sono omologate ai quadrupedi, e in particolare ai quadrupedi domestici, esseri sacrificali per eccellenza. Pur non accettando una prospettiva «indoeuropeistica», mi sembra opportuno citare qui 1’interpretazione irlandese, esposta da W. Sayers, dei metri poetici come controparte e misura delle membra e delle componenti del corpo umano. Questa teoria appare a sua volta legata alla lettura delle articolazioni grammaticali del discorso come strettamente affini a quelle del corpo umano da un lato, e del corpo della vittima sacrificale dall’altro.
L’idea di un residuo di sacrificalità come ineludibile componente di ogni processo conoscitivo, di ogni azione
didattica, potrebbe qui trovare fondamento.
DEGRADO. Nel Corriere del Veneto del 15 febbraio leggo un
articolo di Giovanni Marchesini, che conosce bene le condizioni pietose in cui
versa l’università italiana. Egli nota giustamente, a proposito delle
strombazzate tre “I”, come attualmente sia difficile
trovare degli studenti che conoscano bene 1 lingua straniera 1, e come l’
“informatizzazione di base” sia invece un dato acquisito, “naturale”: quasi
tutti i giovani sanno utilizzare un PC. Ma a che
livello e per cosa, aggiungo io? In effetti la comune
pratica giovanile coi PC mi pare simile a quella coi telefonini et similia: un gran digitare che
non porta lontano sul piano dello sviluppo tecnologico. Nel senso che questo è ricevuto, e l’Italia non lo produce.
Scrive Marchesini:
Sperando che in
un mercato vivace come quello dell’informatica non avvenga, come diceva George Bernard Shaw, che «chi sa fa e chi non sa insegna».
Le preoccupazioni più profonde che
nascono dalla lettura della riforma non nascono però
dalle tre «I». Sono ben altri i motivi.
Nella riforma sembra essere
assente qualunque iniziativa atta a incidere sul
metodo di studiare e a far capire ai ragazzi fin dall’inizio che solo con un
impegno continuativo ed una seria autodisciplina si possono ottenere risultati formativi
permanenti che costituiscano un bagaglio per gli studi futuri e per le attività
professionali. Certamente non giova l’introduzione nella riforma di
meccanismi di verifica dell’apprendimento troppo
deboli, peggiorando la già poco soddisfacente situazione attuale.
Una buona parte degli studenti che
frequentano l’università non si esprimono
correttamente in italiano. I loro scritti, spesso contorti ed involuti, non
raramente contengono errori di grammatica, di sintassi e di
ortografia. Una situazione imbarazzante alla quale difficilmente potrà
porre rimedio il timido tentativo, presente nella riforma, di rafforzare le nozioni
di analisi logica e grammaticale. Il ricco Veneto si
trova così ad avere probabilmente il più alto tasso di abbandoni
nelle scuole medie e ad esporre alla competizione giovani laureati che non
sanno esprimersi nella lingua ufficiale del loro Paese.
Né può confortare la constatazione
che, in questi ultimi tempi, comunicazioni provenienti da importanti atenei contengano errori di ortografia, di quelli che una volta
venivano segnati con la matita blu.
Il “metodo” evocato qui da Marchesini non può essere quello dei metodologi del Ministero, ma è
chiaramente legato ai contenuti. Così come “impegno continuativo”
e “autodisciplina” non possono nascere da esortazioni moraleggianti né da corsi
di aggiornamento per docenti, ma sono il prodotto di un ethos sociale diffuso,
il quale o c’è o non c’è. E nell’Italia di oggi, mi
dispiace dirlo, non c’è. Pensate al seguente indicatore, banale ma significativo. Da
circa vent’anni i giornalisti televisivi, che hanno dato un forte contributo al
deterioramento della lingua parlata, usano a sproposito il ne. Non ve n’è più uno che dica
correttamente, ad es., di questo parleremo dopo, ma dicono tutti di questo ne parleremo dopo.
Hanno fatto scomparire il pronome esso,
essa. E quanti di loro dicono correttamente meteorologo e non metereologo? Il loro meteorismo verbale non è scandalizzante
per sé, ma è indice di quel diffuso pressappochismo di cui altrove ho detto. E
si sa quanto potente sia la TV come formatrice di
modelli. L’insegnante di italiano combatte dunque
contro mulini a vento, il suo opporsi al degrado del linguaggio è una fatica di
Sisifo. Alla fine anch’egli si arrenderà.
AUTISMO. La nostra è la società dello spettacolo,
non la società della scienza. Non solo i mass-media enfatizzano la preminenza
dello spettacolare (alla morte di
Pantani vengono dedicate cinque pagine del giornale,
ad una scoperta scientifica un trafiletto, se va bene), ma la gente nel suo
insieme percepisce come desiderabile
la condizione di colui che vive nel mondo dello spettacolo, in cui rientra lo
sport, non quella dello scienziato. Il sapere scientifico non ha molto valore
(monetario) nel nostro mondo, nonostante tutto. È impossibile che questa
differente valorizzazione non pesi sulla scuola. Infatti l’insegnante si trova a dover mediare desideri e
modelli, in un contesto che rende la sua posizione contraddittoria e
insostenibile. Poiché gli umani sono esseri desideranti, e il
loro desiderio profondo è quello di essere al centro, che è il luogo del sacro
e dei suoi moderni succedanei, il desiderio più intenso della maggior parte
degli Italiani è quello di essere nel luogo centrale, la televisione, di essere
al posto di Bonolis e di Del Piero, non al posto di
Vittorio Gallese.
Infatti: chi è Gallese? Nessuno lo sa. Vittorio Gallese insegna neurofisiologia
all’Università di Parma, ed è autore, con un team di colleghi, di una scoperta
rivoluzionaria nell’ambito delle neuroscienze, quella dei cosiddetti neuroni specchio
(mirror neurons). Si tratta
di neuroni che si attivano non soltanto quando io, ad es., muovo un braccio per afferrare un oggetto, ma anche
quando vedo un essere simile a me compiere lo stesso gesto. Questo a
prescindere da ogni intenzionalità. Si tratta di una scoperta sperimentale “da
premio Nobel”, che apre strade nuove alla ricerca, con importanti ricadute
sulle scienze cognitive, e, a mio parere, sulla stessa filosofia. Ma tant’è, sappiamo tutto di Totti, ma nulla di Gallese e compagni. Quello che ne so io
deriva anzitutto dalla lettura di un bel libretto pubblicato da Feltrinelli, La mente degli altri. Prospettive teoriche
sull’autismo, Milano 2003. È un libro a più mani, con contributi anche di
studiosi di filosofia come Francesco Ferretti (curatore del testo), cui sono giunto per motivi esistentivi,
poiché il mio ultimogenito è autistico.
Gallese sulla sua scoperta sperimentale cerca anche di fondare una
teoria, quella della simulazione
incarnata (embodied simulation),
per cui esisterebbe un meccanismo neuronale che
consentirebbe di mappare sul medesimo substrato nervoso sia le azioni eseguite
che quelle analoghe osservate, sia le emozioni provate che quelle osservate
negli altri. Si produrrebbe quindi quello che Gallese chiama Sistema Multiplo
di Condivisione, che consentirebbe il sorgere, già nella primissima
infanzia, di “uno spazio intersoggettivo
di senso condiviso”. Per una illustrazione ulteriore,
si può vedere (in inglese) l’articolo di Ramachandran:
http://www.edge.org/3rd_culture/ramachandran/ramachandran_p1.html.
Coloro che sono affetti da autismo, come si sa, sono esclusi dalla
comprensione delle metafore, sono davvero letteralisti. Se
dici che hai perso la faccia, ti dicono che non è vero, perché l’hai ancora
attaccata alla testa, oppure la cercano per terra. Noi però possiamo, in un
certo senso, assumere l’autismo stesso come metafora. Autistico ci sembra l’operare
di certi colleghi, il cui insegnamento non passa agli allievi, ma si riflette
solo sul docente stesso, autistica può apparire la scuola stessa nel suo
insieme, quando il suo operare è finalizzato a se stesso, come appare se si
leggono i documenti dei sapienti pedagigolò del
Regime (che non è quello berlusconiano, semplice
epifenomeno).
ANTI. Chris Fleming e John O'Carroll, nel loro articolo Understanding Anti- Americanism, pubblicato sull’ultimo numero di Anthropoetics , la rivista dell’antropologia generativa, http://www.anthropoetics.ucla.edu/ap0902/antiamerican.htm , scrivono che nella nostra moderna tradizione occidentale “il bene” “…è diventato indicibile, grazie non tanto al postmodernismo quanto ad un trasferimento del sacro dalla regalità al corpo politico e all’io. Ora il bene è indicibile, un vortice silenzioso. Esso esiste solo come fantasma del suo opposto, il male. Una retorica della denuncia prevale ad ogni livello: tra le nazioni e i leader (il male incarnato: Hitler, Pol Pot, Saddam…); tra le nazioni (terroristi, “Occidentali”); entro le nazioni (maniaci sessuali, spacciatori di droga...). In una società incapace di affermare il suo bene morale, il segno del morale è la pura negazione. La denuncia degli USA è, soprattutto, una attività morale”. Qui non mi interessa rimarcare come l’antiamericanismo, diffusissimo tra studenti e insegnanti, sia un facile scapegoating alla portata di tutti quasi quanto una kefia, ma piuttosto far rilevare come la scuola occidentale sia necessariamente sospesa sul vuoto morale, proprio nello stesso momento in cui si invoca il suo contributo a formare giovani allergici alle droghe, al razzismo, ecc. È la positività del negativo, che non può fondare alcuna positività durevole: mi viene in mente l’antifascismo come collante in Italia di forze eterogenee. Se la cocaina diventa simbolo di status, quindi di centralità, come potete “spiegare” ad un giovane che non deve farne uso? E non avete notato come sia usato a sproposito il termine “disagio”, quasi come se la droga colpisse solo gli strati giovanili disagiati, e non quelli agiati, le persone a disagio nella vita e non quelle che vi si trovano a proprio agio? Il segno della nostra negatività è la confusione: si vorrebbe ancora che ci fosse un centro sacro, e paradossalmente si cerca in tutti i modi di ricrearlo (sui morti, come sempre – vedi l’episodio dei caduti in Irak, o sul rifiuto della guerra, che è la stessa cosa) fallendo ogni volta. Non si vuol vedere che il centro è vuoto, che gli idoli sono smascherati da tempo, e che l’unico valore fondativo nel nostro mondo non può che essere lo scambio. Di cui il web è l’espressione e la profezia.
DUPLICITÀ. “La cosa che più esaspera il cuore umano è vedere qualcuno che si rifiuta di portare sulle proprie spalle il fardello del destino comune” scrive Gustaw Herling nel suo lungo racconto L’isola (L’ancora del mediterraneo, Napoli 2003, p. 20). Come molte sentenze, anche questa si presta ad una lettura almeno duplice. L’una vede il singolo sottraentesi alla legge comune come affetto da folle hybris, e giusta dunque l’esasperazione della folla (che la può condurre ad un giusto linciaggio, reale o figurato). L’altra vede nella folla il gruppo ferocemente cieco nell’amore del proprio comune fardello, dunque di sé, e il singolo come l’eroe illuminato. Ma forse queste due letture apparentemente diverse debbono confluire in un’unica verità.
EGITTO. Dare
un’occhiata a ciò che accade in sistemi scolastici diversi dal nostro è
sempre illuminante. Consiglierei di leggere per intero l’articolo di Reem Nafie su Al-Ahram
weekly. http://weekly.ahram.org.eg/2003/666/eg4.htm.
Si potrà notare come la frenesia riformistica non colpisca solo anziani
studiosi di diritto sardo diventati ministri dell’istruzione in Italia, o
manager cotonate divenute anch’esse ministre, non solo socialdemocratici
tecnocrati alla Blair, ecc. ecc.,
ma anche ministri dell’istruzione di Paesi aspiranti fortemente alla
modernizzazione, come l’Egitto. Suscitando reazioni che
ovunque appaiono le stesse. “This new grading system doesn't make sense.
The entire educational system
needs a makeover,” dice un tal
genitore, Hani Hakim. “Let's
not kid ourselves -- our children learn nothing at school”.
24 febbraio 2004 A.D.