CRONICA
XXII
Fabio Brotto
MEMENTO. “Perversi
difficile corriguntur et
stultorum infinitus est numerus”. Frase di Gerolamo, presa dalla Vulgata, libro
dell’Ecclesiaste. Ogni buon docente – e i docenti buoni sono pochi – deve sempre tenerla
presente.
DEMOCRAZIA I. Belachew
Gebrewold, in un suo intervento al Convegno di Innsbruck del Colloquium on Violence and Religion, ha detto delle cose audaci e politicamente scorrette.
The modern state system with its
representative democracy is taken for granted as the best political system. My
point of departure is that representative democracy and its elitism are
basically undemocratic. Democracy is by its nature participation of all. The
political resignation and apathy in the western world show us that
representative democracy is not a real democracy. The representatives are the
elites. Therefore, politics is profession like any other profession. Hence, it
is the means to accumulate power and wealth.
I sistemi scolastici sono sempre
legati ai sistemi politici. Questa relazione, benché stretta, non è né univoca
né stabile all’interno di quei sistemi politici che si definiscono democratici
nel senso occidentale del termine, ovvero democratico-rappresentativi.
Personalmente, da quando ho cominciato ad averne coscienza, cioè
dal 1968, ho visto i termini della relazione fluttuare, anche se infine occorre
dire che una linea di marcia del sistema appare ben delineata. L’idea
occidentale di democrazia è l’idea per la quale tutti gli interessi legittimi
che esistono nella società debbono essere
rappresentati a livello politico. Poiché gli interessi possono anche essere
conflittuali – e anche molto
conflittuali – al livello dei rapporti interumani diretti, la loro
rappresentazione sul piano politico come luogo della parola, parlamento, trasferisce il conflitto
dalla sfera reale-fattuale a quella simbolica, dove vengono mediati. Insomma, si assiste ad una mediazione che
può comportare un grado di allontanamento dal mondo
immanente dei puri fatti piuttosto considerevole. Tale allontanamento è
particolarmente sensibile nella politica italiana, ma anche nella scuola
italiana.
“Democracy
is by its
nature participation of all”,
la democrazia per sua natura è la partecipazione di tutti. Questa
partecipazione può darsi soltanto entro entità molto piccole, altrimenti si
deve ricorrere alla partecipazione mediante la rappresentanza, che è una
partecipazione per modo di dire. E questa è la situazione nella scuola italiana
di oggi, che dopo tre decenni di “democratizzazione”
si ritrova nei fatti per niente più democratica di quanto fosse nel 1974,
l’anno dei famigerati Decreti Delegati. I “parlamentini”,
ovvero i consigli di istituto, non sono il luogo della
mediazione degli interessi tramite il parlare,
ma essenzialmente funzioni rituali-burocratiche
(nelle quali peraltro il peso dei docenti ha subito un ridimensionamento). I
rappresentanti che vi siedono risultano solitamente
eletti da un numero di votanti percentualmente assai basso, sicché ci si può
chiedere che cosa realmente rappresentino. Se soltanto
il 10% dei genitori vota, e vota l’unico candidato dell’unica lista presente,
questo che cosa significa circa la democrazia? “Resignation
and apathy”, la rassegnazione e l’apatia che secondo Gebrewold dominano nel mondo occidentale e rivelano come la
conclamata democrazia non sia una democrazia
autentica, sono ampiamente riscontrabili all’interno delle istituzioni
scolastiche, massime tra gli insegnanti. La trasformazione delle scuole in
aziende, cioè in entità per natura non democratiche in
sé – realizzata anzitutto da una Sinistra cieca e folle – non ha fatto altro
che accentuare una deriva già esistente; l’insegnamento viene concepito come
una professione equivalente ad un’altra professione – quindi come mezzo per
accumulare denaro e potere. Questo ovviamente determina una paurosa
contraddizione, in quanto l’obiettivo per l’insegnante
è impossibile, o possibile solo in dosi ridicole, e la professione del docente
è burocratizzata, ed egli è sottoposto a mille vincoli e controlli che lo
umiliano e lo impiegatizzano.
Ma la rappresentazione degli interessi
operata dalle rappresentanze nel meccanismo rappresentativo è anche, letteralmente,
una rappresentazione nel senso
propriamente teatrale: una messa in scena. Osservate i momenti scenici nella
vita della scuola. Pensate, ad esempio, a come i rappresentanti degli studenti
rappresentino se stessi come promotori di azioni
(sceniche). L’autogestione è, prima di tutto, teatro. Mi pare che l’aspetto
scenico della scuola sia importante quanto quello mimetico, e che occorra
approfondire ulteriormente la riflessione su questi due aspetti, che si intrecciano.
DEMOCRAZIA II. Individuare nei fenomeni
storici in atto il bene e il male è sempre problematico.
Se un allievo mi chiede se secondo me l’unità politica dell’Europa sia un bene
o un male non so rispondere, e pratico una bella epoché. Mi metto
nei panni di un abitante della Sassonia nel 1860: se mi avessero chiesto allora
se l’unità della Germania fosse un bene, avrei
sicuramente risposto di sì. Gli esseri umani tendono infatti
sempre a pensare che l’unità sia un bene. È stato un bene? Sono ardue sentenze
da affidare ai posteri, la cui risposta non è detto
che sarà univoca. Se non ci fosse stato il
bombardamento di Treviso del 1944, mio padre non avrebbe incontrato mia madre
sfollata, e io non sarei nato. Il mio stesso essere, quindi, si fonda su di un
evento negativo, dalla cui negatività è scaturita la positività (almeno per me)
della mia esistenza. Allora mi sia concesso il diritto di non essere un
fervente europeista, e di dare ascolto anche alle argomentazioni dei contrari
ad un super-stato europeo. Come Roger
Scruton, di cui traduco qui qualche riga. (http://www.nationalreview.com/comment/comment-scruton092602.asp
)
Forse l’esempio più eloquente della mano
invisibile dell’imperialismo (…) non è fornito dagli Stati Uniti, ma
dall’Unione Europea. L’Europa è il luogo di origine
dello stato nazionale, e il crogiolo in cui per la prima volta prese forma
l’idea di una giurisdizione secolare e territoriale. Nello stesso tempo, la
storia recente ha infuso in buona parte delle élites europee uno scetticismo
nei confronti dell’idea di nazione, e al suo posto un desiderio di federazione
transnazionale. Britannici e Scandinavi sono riluttanti di fronte a questo; i
popoli mediterranei lo accettano solo perché non lo prendono interamente sul
serio. Ma molti tra i Tedeschi e i Francesi rimangono legati all’idea di Europa come al miglior modo per preservare la pace e la
prosperità del continente. Allo stesso tempo, la maggioranza delle decisioni
che stanno forzando gli Europei ad abbandonare le loro sovranità nazionali vengono prese da gente che non ha alcuna
intenzione di creare un potere imperiale. Nondimeno,
nonostante il fatto che quasi nessuno lo voglia esplicitamente, è in atto un
processo che finirà per estinguere effettivamente le democrazie nazionali
europee e per erigere al loro posto un superstato d’Europa, che nominalmente
sarà una democrazia ma avrà poteri legislativi ampiamente sottratti al
controllo degli elettori, ben radicati in istituzioni burocratiche aventi i
loro programmi a lungo termine. Già molte leggi che passano nel Parlamento
inglese sono imposte da diktat della burocrazia di Bruxelles, e le poche aree
di competenza legislativa che rimangono vengono
costantemente erose da revisioni al Trattato di Roma. La Scozia e il Galles sono ancora presenti nelle carte geografiche ufficiali
d’Europa. Ma lo stato nazionale che ha
dato il maggior contributo alla creazione del mondo moderno, l’Inghilterra, è
già stato sostituito da “regioni” che non hanno alcun significato storico e si
sottraggono a tutte quelle forme locali di appartenenza
a cui risponde il patriottismo inglese.
Vi sono alcuni che condannano ciò,
mentre altri lo accolgono con favore, come un’opportunità di ravvivare l’idea
di civiltà occidentale sul continente ove questa civiltà nacque. Tuttavia, la domanda che dobbiamo porre è se questa nuova forma di
governo imperiale possa realmente dare risposta ai problemi che ora ci stanno
davanti. Se la mia argomentazione è corretta,
il superstato europeo non potrà essere sorretto dalle sue istituzioni
politiche. Solo nel contesto di un senso di
appartenenza pre-politico quelle istituzioni possono trovare legittimazione
agli occhi dei cittadini, ed è precisamente l’assenza di un senso di
appartenenza paneuropeo che in primo luogo dette l’avvio al progetto federale.
E non è probabile che dall’Unione Europea possa sorgere un nuovo genere di appartenenza pre-politica.
Tutti i fattori che hanno forgiato il senso di appartenenza
dei singoli popoli europei (lingua, costumi, religione, sistemi legali e stili
di vita comuni) qui mancano. Quindi
l’Unione Europea sta rapidamente distruggendo le giurisdizioni territoriali e
le appartenenze nazionali che hanno formato la base della legittimità europea
fin dall’Illuminismo, senza mettere al loro posto alcuna nuova forma di reale aggregazione.
REALTÀ.
L’irrazionale è reale, e il reale irrazionale. È conforme al disordine delle
cose, dunque, che in tutte le scuole i Dirigenti
confabulino fin dall’inizio dell’anno scolastico con le rappresentanze degli
Studenti al fine di far svolgere con successo la inevitabile, imperdibile ed ineffabile Autogestione. Forse il termine
può dare qualche problemino giuridico, oltre che
didattico, ed allora i Dirigenti, nella loro lungimiranza ed italica sapienza,
eviteranno di utilizzarlo nei loro documenti ufficiali. Parleranno, invece, di iniziative studentesche, di settimana di sperimentazione
didattica, di riparametrazione dei rapporti
docenti-allievi in un circolo virtuoso delle competenze, di approfondimenti
disciplinari decontestualizzati e riformalizzati,
di valenza formativa dei momenti informali, ecc. ecc. Vedranno poi di far sì
che i collegi dei docenti si assumano delle responsabilità nel gestire la
gestione(auto) degli Studenti, diventata altro. Gli Studenti e i docenti
continueranno invece ad usare la parola autogestione: gli uni per esaltarne le
virtù (non tutti però, solitamente gli allievi migliori non l’amano molto e la
reputano, giustamente, una perdita di tempo, e poi oggi gli Studenti non si
esprimono molto, e praticano un’amplissima delega ai loro Kapetti),
gli altri per deplorarla vanamente. Di una cosa però v’è certezza assoluta: la
voce dei docenti, se mai sarà udibile, sarà assai flebile. Essa è anche
confusa, non è capace oggi di denunciare le contraddizioni del sistema: non è
in realtà neppure una voce, ma un bisbigliare di voci discordi. Del resto, io
credo che non saremmo a questo punto se la debolezza dei docenti non fosse
anche e prima di tutto una debolezza professionale, strettamente
legata al rapporto che essi hanno con le loro discipline, spesso
precario. Dal canto mio, se posso vantarmi di qualcosa
è di aver sempre cercato di seguire il precetto evangelico: la tua parola sia
sì sì, no no, il resto
viene dal demonio. Perciò non chiamerò mai
l’autogestione con altre parole e vaghe metafore. Mi vanto, anche, di aver
scritto, in tempi ben altri da questi, nel 1969, quando facevo la terza liceo, in un giornalino studentesco di Venezia, che
le assemblee di allora erano “palestra di demagogia e di malafede”. Lo sono
anche quelle di oggi.
VUOTO. Se avessero gli occhi per leggere e vedere, ma non li hanno, e
leggendo non vedono, a tutti quegli insegnanti – e sono moltissimi – che negli
ultimi anni si sono dati tanto da fare “per cambiare la scuola”, e hanno più o
meno inconsapevolmente collaborato alla sua distruzione culturale, farei
leggere il racconto di Naghib Mahfuz Il
vuoto (sta nella raccolta La taverna
del gatto nero, trad. di C. Sarnelli Cerqua, Tullio Pironti Editore,
Napoli 1993). Il protagonista di questo racconto da giovane viene
colpito in ciò che gli è più caro, e si impegna per molti anni a creare le
condizioni di una vendetta: quando è in grado di realizzarla, va a cercare
l’odiato nemico, l’offensore, ma quello non c’è più, è morto. Il protagonista
si trova quindi, tragicamente, di fronte al vuoto. “Che cosa
terribile è il vuoto!” (p.36). Similmente,
legioni di docenti che hanno operato per riformare, cambiare, ecc. ecc., ora
sono sospesi sul vuoto, nichilisti incapaci di vedersi per quel che sono.
Incapaci di una qualsiasi revisione, di un minimo di
autocritica, mancando loro dei veri capri espiatori (con il ministro Brichetto non funziona, dietro la sua cosmesi fa capolino
il volto ghignante di Berlinguer) non restano loro
che il pianto, e il nulla, e la pensione. “Non vi era dunque per me che la via
dello spazio vuoto e mi ci diressi” (p.38).
SILENZIO.
Consoliamoci con le parole di Gustaw Herling, che nel lager sovietico ben conobbe
il vuoto, e attraverso di esso è tornato alla parola. Nell’aureo libretto da
cui traggo queste righe, egli prospetta il giusto atteggiamento che si deve
assumere davanti alle più alte creazioni dello spirito. Spero che, alla fine
della mia carriera di insegnante, potrò dire di aver
condotto due o tre esseri umani alle soglie di questa condizione. Herling qui sta iniziando a parlare di Rembrandt.
In miniatura o in nuce? Fa lo stesso;
quello che conta è l’intenzione (e il desiderio) dello scrivente. Intendo miniaturizzare
un gigante, voglio sgranare il nucleo del suo genio, simile a
un gioiello dalle molte sfaccettature, a una perla dalle molte sfumature, e
descrivere alcune di esse con la massima concisione. Credo
infatti che l’amore per i grandi artisti, così come l’innamoramento per
una persona, sia un sentimento che impone una pudica parsimonia di termini.
Tanto più grande l’amore, tante meno le parole. Assapora l’arte del tuo
prescelto, esprimiti quando veramente devi farlo, ammira la sua opera in un silenzio raramente interrotto.
Le perle di Vermeer (Sześć medalionów, 1994) Fazi
Editore, Roma 1997, p. 38
20 gennaio 2004 A.D.