CRONICA XIV

Fabio Brotto

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QUESTIONI. Sto leggendo il libro di George Steiner Linguaggio e silenzio (trad. R. Bianchi, Garzanti, Milano 2001), un libro che vale il piacere che provoca la sua lettura, come quella di ogni altro libro di questo critico ebreo poliglotta e multiculturale. Steiner riscatta la colpa dell'essere critici, le miserie dei suoi colleghi paludati e specializzati nell'orticello di casa propria, la pochezza umana e intellettuale dei Casaubon, dei Kien… La mente di Steiner, come quella di Harold Bloom ma senza i suoi eccessi e le sue bizzarrie, apre per contagio le altre menti, anche quelle dei piccoli lettori come me, fa cogliere nessi, suscita interessi. Insomma, Steiner ai miei occhi incarna l'ideale dell'insegnante, l'insegnante iperuranico, l'introvabile. Tra le questioni che solleva, v'è quella dell'insegnamento della letteratura. Io insegno italiano e latino al triennio del classico, sto su questa cattedra gentiliana tanto bella e tanto strana. Essendomi a suo tempo laureato in filosofia (con una tesi sul rapporto tra conoscenza e prassi in John Dewey), avrei potuto occupare un'altra cattedra gentiliana, quella che prevede che un solo docente insegni filosofia e storia ( e tu trovi sempre l'insegnante con la mentalità da storico che insegna filosofia perché deve farlo, e viceversa). In verità, per molti, me compreso, la filosofia è più vicina alla letteratura che alla storia. E l'insegnamento del greco e quello del latino sono più vicini tra loro di quanto ciascuno di essi lo sia a quello della letteratura italiana, che a sua volta mi pare prossima alle letterature europee moderne.

Che un insegnante passi da una lezione sulla commedia di Plauto ad una su Ungaretti mi sembra singolare. Certo, si potrà dire che tutta la letteratura occidentale vive di un suo legame all'antico, di continuità o di rottura che sia. Non lo nego, ma perché una stessa persona deve insegnare materie così distinte? L'antichista è intrinsecamente filologo, ha naturalmente un rapporto al testo differente da chi è prevalentemente interessato (come son io) alla letteratura degli ultimi due secoli. Perciò qualche anno fa ho avuto l'idea di una possibile ristrutturazione della cattedra di italiano e latino, che avrebbe comportato un parallelo accrescimento di quella di greco e latino. Come si sa, in un triennio, poniamo quello della sezione C del mio liceo, un docente insegna greco e latino in due classi, greco in una sola, mentre quello di italiano insegna la sua disciplina principale in tutte e tre ed insegna pure latino in quella in cui il suo collega antichista insegna solo greco. Situazione strana, che pensavo si potesse razionalmente correggere togliendo la classe di latino al docente di italiano e affidandogli l'insegnamento della nuova disciplina letteratura comparata nelle tre classi (per un totale di 99 ore annue di lezione aggiuntive: ne sarebbe risultata una cattedra di 15 ore di insegnamento alla settimana più tre a disposizione per supplenze). Tenuto conto della novità dell'insegnamento e della necessità di una particolare preparazione, la cosa mi sembrava razionale. Approvato dal Collegio (salto un po' di passaggi), il piano riceve uno stop burocratico: o.k. per la letteratura comparata, ma la cattedra non si tocca. Così, mi ritrovo una cattedra che ha ancora il latino in una classe, e in più la letteratura comparata. Sono 19 ore: becco e bastonato, si potrebbe dire. Però l'insegnamento della nuova disciplina ottiene consensi, allievi e famiglie son contenti, se il docente si vede sottratto tempo e concesso poco numerario, let it be… Almeno leggiamoci Steiner.

Ciò significa, in pratica, che la letteratura dovrebbe essere insegnata e interpretata in termini comparatistici. Non possedere una conoscenza diretta dell'epica italiana quando si giudica Spenser, dare una valutazione di Pope senza una sicura padronanza di Boileau, prendere in esame la composizione di un romanzo vittoriano o di James senza una precisa informazione su Balzac, Stendhal, Flaubert, significa leggere in maniera esile o falsa. È il feudalismo accademico che traccia linee di distinzione nette tra lo studio dell'inglese e quello delle lingue moderne. Forse che l'inglese non è una lingua moderna vulnerabile ed elastica, in tutti i momenti della sua storia, alla pressione dei vernacoli europei e della tradizione europea della retorica e dei generi letterari? Ma il problema va assai più in là della disciplina accademica. Il critico che afferma che si può conoscere bene soltanto una lingua, che il patrimonio poetico nazionale o la tradizione nazionale del romanzo è la sola valida e suprema, chiude porte laddove bisognerebbe aprirne, rende angusta la mente laddove essa dovrebbe esser portata a cogliere risultati grandi e di egual valore. Lo sciovinismo ha dato il via alla strage in politica; esso non ha posto nella letteratura. Il critico - e qui di nuovo egli si differenzia dallo scrittore - non è uomo da stare nel proprio giardino. (22-23)

QUASIMODO. Chi lo legge ancora? Questo poeta, quando ero piccolo, negli anni Cinquanta-Sessanta, veniva posto in un mazzo con Montale e Ungaretti, ed erano le tre corone del Novecento. Così tu avresti avuto tre triadi: Dante, Petrarca, Boccaccio (vera gloria); Carducci, Pascoli, D'Annunzio (gloria posticcia); Ungaretti, Montale e Quasimodo (gloria?). Leopardi dove lo mettiamo? In compagnia di Manzoni e Verga si annoia a morte. Qui non occupo l'ufficio di insegnante, nel mio sito sono libero di dire e di sentenziare. Allora dirò che di questi tre ultimi nostri poeti penso che 1) siano dotati di grandi capacità tecniche, siano spaventosamente raffinati, da veri epigoni, da Alessandrini, Montale forse più di tutti; 2) non abbiano un gran che da dire al lettore contemporaneo (che è poi lo status di insignificanza della prospettiva che non possiamo non continuare a definire lirica). In ogni caso, non dicono molto a me (uno che pensa che la poesia strettamente occidentale abbia bruciato le sue ultime cartucce con Baudelaire e sia stata sepolta nella Senna con Paul Celan). Mi hanno tediato le frasettine spezzate, la voglia di assoluto, la concentrazione in due versi del primo Ungaretti come i gongorismi e i parapetrarchismi dell'Ungaretti maturo; di Montale, se mondi non può aprirmi e mi offre solo qualche sillaba contorta, e mi dice che lui non sa una mazza, questo soltanto sa, non mi cale, lasciamo che la polvere si depositi sulle sue opere complete. La sua finta saggezza senile mi ha saturato. Quasimodo è davvero un caso strano: portato al cantar melodioso, che al Novecento non s'addice, guardate che massa volitiva di versi ha secreto. Non lo legge più nessuno. Scrivi, hai successo, quelli di sinistra ti portano pure sugli scudi, magari ti tocca un Nobel, poi è subito sera. Quasi modo. Al collega G.Capponi vorrei dire che ho scherzato.

QUERIMONIE. Quale insegnante di italiano non ha dovuto affrontare seri scontri con allievi e genitori circa la valutazione di singole prove scritte o orali, circa i criteri impiegati e i modi utilizzati? Nella scuola e nei media son circolate montagne di sciocchezze, in parte di provenienza pseudopedagogica, che hanno trovato fertile humus nell'entourage berlingueriano che ha prodotto la riforma dell'esame di maturità. Ne son nati mostri e mostriciattoli, come l'idea che sia possibile misurare un testo scritto (certo, l'area coperta dalla scrittura sul foglio, col decimetro; il numero delle parole e delle frasi, contandole), che sia possibile valutarlo oggettivamente previa elaborazione di apposite griglie (lo sentite il profumino di salsicce?), con le quali spezzettando l'intero e misurando ogni pezzetto si dovrebbe ottenere una somma oggettiva, quasi che la venerata oggettività potesse emergere dalla somma di tante soggettività. Tanto per dirne una, perché mai l'organicità (termine che evoca una sala d'anatomia) dovrebbe far premio sulla frammentarietà (che evoca Diels ed Eraclito e la ceramica greca e lo Zibaldone)? Non c'è nulla di più arduo che giudicare un testo o un discorso, che applicar loro un numero da 1 a 10 o da 1 a 15 o da 1 a 35 (ci vogliono far diventare matti, al Ministero). E poi ti trovi davanti il genitore che, avendo conoscenze letterarie pari a zero, ti dice di non condividere il giudizio che tu hai osato formulare sull'elaborato faticoso del su' figliolo: troppo punitivo, troppo ingeneroso, troppo poco incoraggiante.

- Ma guardi che mi scrive sempre la congiunzione senza accento, che qui mi scrive due volte prevalicare invece che prevaricare e anche…

- Sono erroretti di forma, ma la sostanza c'è. Se ci fermassimo a questi livelli da maestri elementari di una volta! Questa è l'era del computer, caro professore!

E allora beccatevi questa seconda dose di Steiner.

L’atto e l’arte della lettura seria comprendono due moti principali della mente: l’interpretazione e la valutazione. Tutte e due sono assolutamente inseparabili. Interpretare significa giudicare. Nessuna decodificazione, per quanto filologica, per quanto testuale sia nel senso tecnico, è neutrale. Viceversa, ogni valutazione critica e ogni commento estetico comprendono anche un’interpretazione. La parola stessa "interpretazione", poiché include i concetti di spiegazione, di traduzione e di esecuzione (nel caso dell’interpretazione di un ruolo a teatro o di uno spartito musicale), è rivelatrice di questo intreccio complesso.

La relatività, l’arbitrarietà di ogni affermazione estetica e di ogni giudizio valutativo è inerente alla consapevolezza e al linguaggio degli uomini. Si può dire tutto di tutto. Se qualcuno dichiara che il Re Lear di Shakespeare è "indegno di una critica seria" (Tolstoj), oppure che Mozart ha composto soltanto banalità, le sue affermazioni sono assolutamente inconfutabili. La loro falsità non può essere dimostrata né con argomenti formali (logici) né per quanto riguarda la loro sostanza esistenziale. Le filosofie estetiche, le teorie critiche, le concezioni strutturate del "classico" e del "canonico" possono soltanto essere descrizioni più o meno convincenti, più o meno generali, più o meno coerenti del percorso che porta a questa o quella preferenza. Una teoria critica o un’estetica è una politica del gusto. Cerca di rendere sistematico, visibilmente applicabile e atto a essere insegnato, un "insieme" intuitivo, una tendenza di sensibilità, la soggettività conservatrice o radicale di un osservatore eminente o di un consenso di opinioni. Non possono esistere né dimostrazione né confutazione […]. La differenza tra il giudizio di un grande critico e quello di uno sciocco semianalfabeta o ottuso sta nella ricchezza di riferimenti impliciti o espliciti, nella chiarezza e nella forza retorica dell’espressione (lo stile del critico) o nell’aggiunta incidentale tipica del critico, che è anche un creatore con tutti i crismi. Ma questa differenza non può essere dimostrata scientificamente o logicamente. È impossibile decretare che un’affermazione qualsiasi in campo estetico è "corretta" o "errata". La sola reazione appropriata è l’assenso o il dissenso personale. (George Steiner, Nessuna passione spenta, Garzanti 1997, pp. 33-34)

Parafraserò l'ultima parte di questo brano, che uso inserire sempre nelle pagine del programma di italiano che presento all'inizio dell'anno scolastico. La differenza tra il giudizio di un grande insegnante e quello di uno sciocco semianalfabeta o ottuso allievo sta nella ricchezza di riferimenti impliciti o espliciti, nella chiarezza e nella forza retorica dell'espressione (lo stile dell'insegnante) o nell'aggiunta incidentale tipica dell'insegnante, che è anche un creatore con tutti i crismi. Ma questa differenza non può essere dimostrata scientificamente o logicamente, neppure nei colloqui coi genitori. È impossibile decretare che un'affermazione qualsiasi nel campo della valutazione di elaborati o prove orali di italiano è "corretta" o "errata". La sola reazione appropriata è l'assenso o il dissenso personale.

QUISQUILIE. Pare che nei colloqui in corso tra i sindacati della scuola e l'ARAN (bellissimo nome, evocatore di isole sperdute nell'Oceano, di uomini duri, di pescatori in lotta col mare, di Flaherty - chissà come sono gli uomini dell'Aran) sia emersa (dalle sue profondità) la volontà del Governo di sottrarre alla negoziazione con le RSU la gestione del fondo d'istituto, che dovrebbe diventare competenza del solo Dirigente. Il medesimo si vedrebbe assegnato pure il potere di sanzionare il personale, fino alla sospensione. Incredibile auditu! Io sono membro della RSU del mio liceo e ho dovuto sostenere una dura lotta col mio Dirigente, cui ho molto da rimproverare, inimicandomelo assolutamente. Ci mancherebbe che il medesimo avesse anche la potestà di sanzionarmi (per fortuna l'anno prossimo andrà in pensione, ma il problema potrebbe riproporsi col suo successore). Spero che i sindacati abbiano un sussulto di dignità, anche se essi rappresentano non solo gli insegnanti - come la Gilda cui sono iscritto - ma anche gli ATA (e chi sono? una specie umana sconosciuta?) e i Dirigenti appunto. Come se la FIOM andasse a trattare avendo tra le sue fila anche la controparte: sono meraviglie italiote.

13 maggio 2003 A.D.

SCUOLA E NON SCUOLA